brrrrrrrrrrrr

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Che poi, se ha ragione uno come Sergio Flamigni, tirare in ballo le Brigate Rosse in contesti come questi non so quanto sia efficace.

quei ragazzini che salivano

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Quando mia moglie ed io siamo rientrati a casa dopo aver ritirato l’esito dell’amniocentesi e abbiamo scoperto che la creatura che si stava sviluppando nella di lei pancia era di sesso femminile, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Il mio è stato lungimirante, e sette anni dopo non posso che confermare l’esattezza di quel pronostico. Ovvero che crescere una bimba è molto più edificante, e per certi versi meno problematico. Non me ne vogliano i genitori dei maschietti, i quali posso rassicurare dicendo che si tratta ovviamente di una generalizzazione pour parler, la mia, sussistendo numerose variabili soprattutto soggette al loro apporto, attraverso il quale è possibile condizionare il livello di positività di un’esperienza genitoriale.

Posso fare qualche esempio, che potrebbe essere di aiuto alle future mamme e papà di vari Kevin, Maicol e Nicholas? Partiamo dal principale e più evidente elemento differenziante: il cosiddetto “pistolino” dei bimbi piccoli non è il massimo, da un punto di vista estetico, né funzionale, vista la traiettoria di espulsione liquidi orizzontale. Insomma, scordatevi asse e dintorni del water all’asciutto, a meno di non educare i vostri pargoli a fare pipì da seduti, postura molto più civile. Non a caso propria delle donne.

Quindi i maschietti iniziano la vita in società e lì iniziano a menarsi, attitudine che si porteranno fin nella tomba, luogo dove capita che vi finiscano proprio dopo uno di questi confronti. Si menano al nido e alla scuola materna, alle elementari e alle medie e via, sempre più virilmente. Accompagnandosi anche con strumenti volti a causare il dolore fisico mirato dei propri avversari, come giochi appuntiti e coltelli, più tardi. Le cause di questo tipo di conflitti con i pari sono ovviamente rapportate all’età. Prima dei 7/8 anni si menano per motivi di possesso, dopo invece per motivi di possesso. Cambia l’oggetto, del possesso: dai giochi inanimati a quelli animati, ovvero in carne ed ossa e di genere femminile. Ora, non è che le bimbe non litighino, a volte si accapigliano. Ma si tratta di casi limite. Più frequenti, comuni a tutte l’età, sono invece i casi di femmine menate da maschi. Ma questa è un’altra storia.

Sei siete genitori di bambine, poi, vi eviterete alla grande le peggio brutture diseducative che il mercato ha in serbo per voi e che, con pubblicità occulte ed esplicite, cerca di imprimere nell’immaginario ludico dei vostri figli per essere poi sottoscritte nelle letterine natalizie e nelle richieste di compleanno. Ogni generazione ha decine di schifezze di questo tipo; quando ero bambino c’erano i vari Slaim e Vermil, oggi ci sono gli Schifidol. Ieri c’erano i Trasformer, oggi ci sono i Gormiti e i Bakugan. Ieri le figurine Panini, oggi le carte dei Pokemon. Roba per la quale i ragazzini impazziscono. Sì, mi direte voi, ci sono le Winx e le Barbie e tutto il sistema di adolescentizzazione precoce delle bambine che tende a farle diventare veline in erba e premature consumatrici di moda. Ma le ragazzine, essendo più avanti e più intelligenti, sono anche più forti e più aperte: è sufficiente fornire alternative valide e il gioco è fatto. Playmobil e Lego, per esempio, sono giochi che vanno bene per tutti, non necessariamente c’è bisogno di riempire le loro camerette di oggetti rosa, cucine e assi da stiro in miniatura, ponendo le basi per una futura vita da casalinga.

Mi permetto di introdurre anche il pianeta calcio. Se avessi un figlio maschio, mi troverei in imbarazzo vista la mia totale ignoranza del settore. Il vantaggio è solo uno: se hai più di due maschietti da intrattenere, gli dai un pallone in uno spazio aperto qualsiasi e non li vedi più per ore. Mentre per le bimbe è già più impegnativo. Il contrappasso vi sorprenderà al momento della scelta dello sport. Vogliamo paragonare un pomeriggio trascorso in un palasport a seguire un incontro di pallavolo indoor rispetto ad assistere a una partita di calcio magari in pieno inverno e con la pioggia, mentre vostro figlio sguazza nel fango falciato da calci e sgambetti?

Il cerchio si chiude con i primi bollori. Una figlia femmina implica maggiori preoccupazioni, ovvio. Ma nulla è peggio degli esperimenti di scoperta e di assestamento dell’autoerotismo maschile, l’odore che emanano quando lasciano la pubertà, le chiazze e i rimasugli di indubbia origine negli indumenti e negli angoli più nascosti del vostro appartamento.

Può capitare, infine, che andiate a prendere a scuola vostra figlia, come ho fatto ieri io, e decidiate di fermarvi al parchetto di strada verso casa. Chi vive nei dintorni di Milano sa che il parchetto è l’isola artificiale di verde imposto, a stento sottratta agli scempi della pianificazione edilizia, pochi ettari condivisi da tutti per avere l’illusione di vivere in un’alta concentrazione di verde, come le città americane che vediamo nei film. Quindi ci sono gli anziani che tirano le bocce, le mamme e i papà che lasciano i bimbi liberi di giocare e andare in bici, gli adulti che fanno sport. E purtroppo anche loro, i ragazzini delle medie. Eccone un gruppetto lì, su quella panchina. Cinque o sei sbarbatelli, cappellino e pantalone sotto il sedere, potenziale (se non già in atto) target per Fabri Fibra, Club Dogo e tamarri vari. Una canzone di questi esce a tutto volume e con una pessima equalizzazione da un telefonino, che il più zarro di tutti tiene in mano. Arrivo nei pressi con mia figlia, fortuna vuole che veda le sue amichette del cuore e corra a saltare sui giochi. Nel frattempo la baby gang schioda dalla panchina e si allontana strascicando scarpe slacciate, in un tripudio di machismo da MTV e brufoli. La panchina è libera, accelero il passo per conquistarla: potrò dedicarmi alle ultime 100 pagine di “Pastorale americana”, mentre le bimbe si distraggono felici. Ma l’occhio mi cade su una pozzanghera proprio ai piedi della panchina, risultato di una probabile gara di sputi degno passatempo dei precedenti occupanti. Ripongo il libro in borsa, e raggiungo mia figlia e le loro amiche, che nel frattempo si sono organizzate per un mini torneo di badminton. E sono liete di avermi loro ospite.

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il discorso del governatore

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Se fossi il ghostwriter di Formigoni gli eviterei tutte quelle parole con la erre.

problemi di spalla

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Potrei andare al concerto degli Strokes, a Milano (o meglio, a Rho) il 12 luglio. A lasciarmi perplesso non sono tanto i 48 euro del biglietto (novantaseimila lire) prevendita esclusa, bensì la presenza, come gruppo supporter, dei Verdena.

la curiosa legge del supermercato

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Pur criticando la deregulation che consente orari di apertura sempre più creativi per i centri commerciali, non mi faccio nessuno scrupolo (la coerenza, innanzitutto) a sfruttare la possibilità di far la spesa alla domenica. In zona c’è un’elevata densità di supermercati, ogni catena della GDO non si è lasciata sfuggire l’occasione di colonizzare in ogni dove l’hinterland milanese, i consumatori hanno l’imbarazzo della scelta tra gare al ribasso e offerte tentacolari treperdue anche nei giorni festivi. Ma i criteri di apertura sono incomprensibili: domenica scorsa, per esempio, era tutto aperto, a differenza di oggi.

Sono uscito stamattina per comprare un paio di cose di cui avevo bisogno, i classici due litri di latte, qualche scatoletta per i mici e generi di uso quotidiano, ma non avevo fatto i conti con la dura realtà del commercio. Serrande abbassate ovunque. Il tutto certificato anche dai vari siti (che sarebbe stato meglio consultare prima, anziché dopo) tipo domenicaapertoamilanopuntocom. A quanto sembra, farsi concorrenza e mettersi i bastoni tra le ruote con aperture straordinarie simultanee risulta più redditizio (o garantisce meno perdite) che assicurarsi l’esclusiva degli acquisti domenicali stabilendo turni alternati, per esempio, a copertura garantita del servizio sempre. Un sistema che potrebbe essere regolamentato in via ufficiale, in assenza di buon senso di chi gestisce i centri commerciali. Che, anche se sono non-luoghi, è sempre meglio trovare non-chiusi.

questa musica che non ha orecchi

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Avete mai prestato attenzione seriamente alla musica diffusa nei negozi in cui fate shopping? E con shopping intendo l’accezione inglese, ovvero fare una spesa di qualsiasi tipo, dai pelati alla Coop alle Camper nuove in via Montenapoleone (percorso tipico di un consumatore di sinistra come me). Prendiamo per esempio un qualsiasi centro commerciale dell’hinterland, le solite botteghe in franchising con i prodotti che si ripetono tristemente uguali ovunque, l’apoteosi della spersonalizzazione della non-scelta del consumatore (e se scrivessi in inglese non ci sarebbe questa indecorosa infilata di preposizioni articolate).

È sabato, è anche inverno, fuori piove ma anche se non piovesse ci andrei lo stesso. Entro, e il background sonoro preponderante è il brusio, vociare misto a carrelli trainati e scale mobili. Qualche acuto di bambini. La canzoncina della giostra. Una madre richiama il proprio figlio: “Keviiiiiiiiiiiiiin!”. Ma concentriamoci. Si coglie un bordone di musiche varie in libertà, una sopra l’altra, un bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx che mi ricorda lo stabile industriale riconvertito in sale prove dove avevo il campo base di un gruppo, tanti anni fa. Un corridoio stretto su cui si affacciavano decine di cellette, ciascuna occupata da una band e dotata di adeguato sistema di isolamento acustico. Quindi dentro ci si stava da dio. Ma fuori, in quel limbo che dava accesso a quella fila di bocche chiuse e blindate usciva di tutto, metal su reggae su punk su nirvana su funky, un calderone disarmonico tendente alle frequenze più basse degna colonna sonora di girone dantesco.

L’esperienza al centro commerciale è simile, infatti entri in un negozio, lasci fuori tutto il bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrxs e resti solo con una frazione di quel bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx, una componente di quel bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx che resta nuda e si lascia afferrare distintamente. Molto frequentemente, per non dire quasi sempre, il genere più in voga tra i misteriosi selezionatori (davvero: radio interne a parte, non ho idea di chi possano essere) è R’n’B moderno, quella variante della black music in cui le cantanti urlano acuti dopo essersi arrampicate su scale barocche con una logica piuttosto aleatoria (2 gradini verso l’alto, 3 verso il basso, torno su di 1, riscendo di 4 per poi saltare 2 a 2 verso la rampa successiva). Non ci sarebbe nulla di male (o almeno ci sarebbe ma capisco che a qualcuno piaccia così), purtroppo il bordone di chiacchericcio locale di ogni singolo negozio, muovendosi sulla stessa fascia di frequenze della componente strumentale, lascia emergere solo la voce. Che alla terza o quarta canzone, mentre sei lì che aspetti che si sciolga l’eterno dubbio della persona che accompagni circa l’acquisto di un capo da 6 euro, con molta probabilità tessuto in estremo oriente, che poi come da copione non sarà mai acquistato, genera fastidio.

C’è poi l’immancabile punzapunza, incontrastato leader dell’entertainment per distratti, con le sue varianti più o meno acide a seconda del target preso di mira. I postumi di Sanremo, Festivalbar (ammesso che esista ancora) e manifestazioni canore varie, ora note come Talent Show. Entri poi nei reparti wellness, erboristeria o cosmesi e sei automaticamente proiettato in luoghi esotici in cui armonie remote agevolano la contemplazione dei prodotti verso l’acquisto degli stessi. Tra gli scaffali del supermercato invece vale un po’ tutto, quasi come su Virgin Radio. Nulla di subliminale, perché se si tratta di scatolame o di salumi il consumatore non presta attenzione a nulla se non al prezzo al chilo.

Ma ora c’è un barlume di speranza, in tutto questo. Un po’ come i finali dei film più ansiogeni che, dopo 89 minuti di pioggia, si avviano ai titoli di coda con le nuvole che si aprono lasciando filtrare il cielo sereno. Proprio così. Al termine del mio non-tour nel non-luogo per antonomasia entro in una cartolibreria, e non credo alle mie orecchie: un raggio di sole, proprio quello di De Gregori, “a questo amore a questa distrazione, a questo carnevale dove nessuno ti vuole bene, dove nessuno ti vuole male“. Un pezzo che non mi capitava di sentire da secoli, “a questo mondo già troppo pieno, a questa strana ferrovia, unica al mondo per dove può andare ti porta dove porta il vento, ti porta dove scegli di ritornare“. La casualità della piacevole sorpresa mi ha reso di umore accondiscente verso la proposta di quel negozio, già più friendly per natura verso i miei gusti. Libri, penne, bloc notes e infinite varietà di ameno merchandising, “avrai matite per giocare e un bicchiere per bere forte, e un bicchiere per bere piano un sorriso per difenderti e un passaporto per andare via lontano“. A quel punto, io che detesto la retorica, mi sono svegliato dallo stato di ipnosi. Ho trovato eccessiva e didascalica la corrispondenza tra commento sonoro e immagini, quello che avevo intorno. Mi sono sentito colpito e affondato. Diamine, Francesco ha centrato nel segno. Così, di riflesso, sono fuggito senza comprare nulla.

un moderno post-weekend

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Se c’è un episodio che mi piacerebbe vedere reso su pellicola, o per essere più realistici su youtube, anche perché nel primo caso sarebbe difficile trovare attori credibili per renderlo credibile a sua volta, è un qualsiasi viaggio di ritorno a Milano di T. e dei suoi fedelissimi compagni di abitacolo, nonché colleghi, B. e A. A bordo della Punto del babbo di B. fanno tutta una tirata da Questo Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina ligure da cui provengono i tre giovani) a Quest’altro Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina alla periferia est di Milano dove condividono un miniappartamento. Spero abbiate colto la citazione, sebbene annacquata tra gli incisi nelle parentesi tonde. Vi darò un indizio: continua con “non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua, non è la stessa cosa. Un, du, tri, quater…” a cui segue una canzone blues). Ma torniamo al viaggio, 200 chilometri di autostrada tra Liguria, Piemonte e Lombardia nella formula pendolarismo quindicinale e non di più, per non gravare sul bilancio di questo nucleo familiare anomalo e mettere in difficoltà tre amici (due maschi, T. e B. e una femmina, A.) che come me e come mettetevoilacifra altri ex-giovani liguri si sono trasferiti qui. Il forte legame con le radici che non si spezza, nemmeno a colpi di Navigli. Parlo per loro, of course. Non tornerei indietro nemmeno sotto tortura.

Ecco: più che un film potrebbe essere un format televisivo, se già non esistesse. T. è un ex-promettente cantante, promettente sempre nell’ambito dei gruppi sconosciuti dell’underground locale, dove la promessa non è mai mantenuta, se non da qualche add in più su myspace, oggi (anzi, fino a qualche mese fa, visto l’inarrestabile caduta del principale concorrente di FB), e da qualche distratto applauso nelle birrerie di periferia, ai tempi. T. però si è mantenuto interlocutore fantastico, nel senso che lui parla mentre A. e B. per lo più ascoltano, poi mi riferiscono e io prendo appunti. Poche domande, qualche espediente da programmazione neurolinguistica da tanto-al-tocc per dirottare la conversazione su temi che sanno stare a cuore di T., e una valanga di spunti che consentirebbero a chiunque di approfondire i più appassionanti argomenti antropologici in monologhi pour parler come questo.

T. è un maestro di storytelling. Sa quali tasti schiacciare, quale corde pizzicare. Ed è “solo” un vocalist, pensate se suonasse uno strumento polifonico. L’azienda in cui nostri tre frequent driver lavorano – T. come montatore video, A. e B. come… boh.. grafici? Web designer? – risente di una pessima gestione, così mi dicono. Ma, si sa, chi lavora talvolta coglie solo marginalmente le strategie aziendali del management. “Non dire str*****e, chiunque coglierebbe la limitatezza di C.” C. è l’amministratore unico che, in una azienda di marketing, si occupa anche di filtrare tutto ciò che deve uscire verso i clienti adattandolo a sua immagine e somiglianza. Il che ha senso. Voglio dire, l’azienda è tua, puoi farci quel che vuoi. “Sì, ma hai idea di quanto tempo perdiamo? E perché diamine mi hai assunto se non ti fidi di me e pensi che delegandomi responsabilità creative il prodotto non sia sufficientemente in linea con l’azienda“. Vabbè, non voglio approfondire temi e dinamiche già trattate altrove, soprattutto giudicare aziende altrui. Ma non è solo questo che li mette fortemente a disagio.

Sono le persone a dare un tono inappropriato all’ambiente. T. mi fa l’esempio di S., lavora nella selezione e gestione del personale. “Ho superato un test per entrare qui. Lì ho conosciuto S.,  proprio con lei ho fatto il primo colloquio“. T. mi racconta che S. si sposta sfrecciando in monopattino lungo il corridoio su cui si affacciano le varie cellette. “Non la biasimo, il lato lungo dell’ufficio è almeno 500 metri“. Non si tratta di un’esagerazione, nella Lambrate che sta crescendo sormontata dalle gru. Siamo in piena archeologia industriale, stabili nuovi che si alternano a spazi ristrutturati in ex stabilimenti di chissà che cosa. Uffici ricavati dalla polverizzazione degli open space in minuscole celle operative occupate da 4 massimo 5 postazioni di lavoro.

Dicevo del test.
Q. Elenca le 5 cose che sai fare meglio.
A. Mi sono sincerato della effettiva atmosfera da web 2.0 e mi sono lasciato andare:
#scrivere
#comporre e arrangiare musica
#avere pazienza
#ascoltare
#superare i test come questo.
Q. Con quale nome ti vorresti chiamare se non ti chiamassi con il tuo vero nome?
A. S. ,che ho scritto per accattivarmi le simpatie della selezionatrice.
Q. In 10 righe insegnami ad allacciare le scarpe, non una riga di più“.
A quel punto T. prende l’iphone e mi fa vedere una foto. Un foglio con la seguente lista:
Faccio notare a T. che mi sembra un modo originale di affrontare i test. Soprattutto visto che è stato assunto, anche se con contratto a progetto. “Dopo qualche settimana mi hanno chiamato e sono salito a quota 6 aziende in 10 anni. Ancora una volta con un co.co., un contratto comico“. Ancora una volta accontentarsi. “Fortuna che il posto è davvero trendy. Entri e c’è la reception. Poi un muro fatto di cubi di cartone, la rappresentazione delle success story aziendali“. Penso che non c’è altro modo per materializzare i prodotti virtuali se non mettendoli in scatole che, pur vuote, solo così diventano tangibili e riconoscibili in un packaging con tanto di etichetta. Stavo per scrivere brandizzate ma mi sono fermato in tempo. Ops. “Lì di fronte c’è uno schermo LCD, che trasmette una successione di quote a sintetizzare la vision aziendale. Cheppalle, ho pensato appena l’ho visto, alla fine ci cascano tutti, anche i meno convenzionali. E giù pillole di Martin Luther King alternate a Goethe e Groucho Marx, Gandhi a Thomas Millian, Kennedy a Naomi Klein, Terzani al Cluetrain Manifesto“. Anche qui, mi viene da pensare. il cluetrain già arrivato in ritardo è bello che perso.

T. non lesina nei particolari sull’organizzazione degli spazi. “Entri nell’open space frazionato in cellette, ognuna costituisce una Practice. C’è la Practice Visual, la Practice R&D, la Practice ADV, la Practice ADM, la Practice PM, la Practice VM. Ecco, lì nella Practice vuemm, Video&Multimedia, ci sono io. Taglio e monto riprese, alternandole a grafica 2D e 3D“.  T. si isola ascoltando musica, quando non è necessario indossare le cuffie per l’audio del montaggio. “Alla fine di ogni pezzo è come se mi svegliassi e penso: di nuovo all’inferno“. Il guaio di essere, come T., molto nuvoloso tendente al peggioramento, dentro.

Usiamo la chat, per comunicare tra colleghi. Magari distanti qualche minuto di monopattino. Messaggistica istantanea, non mi avrai mai. Quando uno ti scrive ‘che cosa??’, ‘che cosa volevi che ti dicessi??’, e altre domande che passano alla storia per il doppio punto interrogativo, fa domande incalzanti? Anzi, incalzanti?? Per non parlare allora dell’alzare la voce con l’uso delle MAIUSCOLE, reale o frainteso perché magari hai lasciato premuto un tasto di troppo“. Ecco, inevitabilmente T. svela a B. e A., a fine giornata, cosa lo spinga a chiudersi in playlist a tinte scure e uscire dall’ufficio per tornare a casa. “Sfido chiunque a riconoscermi. Non è tanto la nebbia, è perdersi, anzi perdermi, in una città che non è più la mia, mentre fuori di qui, cioè di me, tutto precipita. Occhi chiusi, orecchie coperte da cuffie, passi a caso“. In auto, coperti dal rumore del motore, si cerca di sdrammatizzare, allora. “Via da questo trailer tra l’hollywoodiano e Moccia. Torniamo a un sano minimalismo, please“. Troppo tardi. Il film va avanti.

Tra di loro hanno passato giornate intere in chat, ed è come se lsi ritrovassero sempre dentro ai loro mac, a riascoltarsi e a rileggersi, per poi riparlarne durante i viaggi. “Tra noi basta una sola parola, al massimo due, che descrivono tutto il resto. E allora occorre comprendere l’intenzione, il significante, il significato, il tempo impiegato da ogni verbo per giungere a destinazione. A quel punto i giochi sono fatti“. Stare soli in tre è meglio che stare soli punto. “Parlare, in auto, è un’oasi di ristoro e leggersi, in chat, leggere qualsiasi cosa, è scoprire altre forme di vita su un pianeta sconosciuto. Ma i pericoli, in giornate come questa, ritornano. Minacciosi no, solo un po’ cattivelli. Pronti a far rovesciare la birra sui pantaloni altrui. O a farci inciampare sulle scale della Feltrinelli“.

Tutto questo perché A. presto cambierà lavoro, una deflagrazione nelle loro dinamiche. “Che dire? Così, tra suoni ovattati e pavè nell’ora di punta, la malinconica beatitudine di una Menabrea è un sottoinsieme dell’averla vista uscire alla fine del primo tempo della nostra vita. Spero che la sua soddisfazione assuma le sembianze di un accordo. Minore, naturalmente“.

case da abitare

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Sto per ristrutturare casa mia prendendo spunto da qui. Presto una base lunare Alpha negli outskirts nord di Milano, dottoressa Russell compresa.

oui, je souis Nicolas Sarkozy

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Spero prima o poi che facciano la stessa cosa con Luca Barbareschi, anche io mi merito un’occasione così. Una volta di tanti anni fa, in stazione, in giacca e cravatta e con il capello grunge, mi fermò una coppia di anziani fans che mi chiesero se fossi davvero io. Tsk.