morte a Porta Venezia

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Dal nostro inviato, Thomas Mann. “C’è qualcosa di diverso nel tratto della banchina del binario 2 dove G. von A., con la metodicità tipica – e soprendentemente costante – di chi ripete sempre lo stesso comportamento (a)sociale per non destare sospetti negli habitué, si posiziona ogni sera, libro alla mano, in attesa del treno del rientro. Siamo alla fermata delle Nord di Porta Venezia. Sono le 18 circa.

E questa sera, dicevo, c’è un particolare anomalo. Un capannello eterogeneo di persone ha creato un separé umano intorno a una delle panchine in muratura. A pochi metri, il distributore automatico di letture tutt’altro che underground malgrado l’ubicazione, programmato per dispensare asetticamente libri sottocosto di Daria Bignardi e riviste appesantite da gadget handle-to-care, ovvero bottigliette d’olio in grado di frantumarsi nella caduta verso la bocca della macchina, l’interfaccia che costituisce il punto di contatto con gli acquirenti.

G. von A. si avvicina alla scena. Una donna, cinquantanni circa, è sdraiata per terra con le braccia aperte sul pavimento, la testa appoggiata alla borsetta, immobile e composta. Questo, unito alle palpebre calate e alla concitazione con cui un astante presta le operazioni di primo soccorso confrontandosi al telefono con una centrale operativa, probabilmente la struttura alla quale ha richiesto un intervento tempestivo, lascia supporre il peggio. La muraglia di viaggiatori curiosi è piuttosto dinamica, lo scambio di voyeur è costante e coincide con i treni in arrivo e in partenza. Un addetto alla sicurezza, un ragazzone in divisa blu – taglia xxxlll a giudicare dai bicipiti il cui diametro supera abbondantemente quello delle cosce di G. von A. e alla statura fuori dalla media – accenna risposte in un italiano piuttosto sommario ai comandi che un caposquadra gli sta impartendo al telefonino di ordinanza, e fissa  spaventato un punto non ben definito del binario di fronte. Probabilmente l’imprevisto gli costerà una relazione da scrivere con l’ausilio di qualcuno.

Ma ecco arrivare di corsa un uomo, mezza età e portatile a tracolla. “Sono un medico. Avete già chiamato l’ambulanza?”. Il primo soccorritore, ancora prono sul corpo esanime, tasta polsi e collo, comunica dati e impressioni e non se ne accorge. Ma il medico ha già avuto una generale non-risposta che è una conferma. Una coppia di ragazzi per mano si avvicina a G. von A. che nel frattempo ha interiorizzato, e sta per esteriorizzare, la drammaticità della situazione. La coppia si svela composta da M., esecutivista collega di G. von A., e un ignoto fidanzatino. “G., cosa è successo?”. In quell’istante la drammaticità raggiunge il culmine. L’attesa e la morte. O forse la donna sdraiata è solo svenuta. Esci la mattina, magari hai rimbrottato con il tuo partner. O non hai detto al tuo amato T. quanto sia estasiante la sua bellezza. O, molto più prosaicamente, la sera prima hai rinunciato alla terza birra media perché ti sei messo a dieta. Ed ecco, ora seì lì supino sulle piastrelle dal colore indefinibile, sotto Milano, in un viavai di persone che ti danno un’occhiata – che le circostanze ti impediscono di ricambiare – e che mute si pongono la tua stessa domanda, dandosi una risposta dalle sfumature diverse a seconda dell’età e delle prospettive.

G. von A. vorrebbe aspettare l’arrivo dei soccorritori con la barella. Saperne di più. Incontrare un infermiere che volga un ultimo sguardo e condivida la sofferenza, e che magari alzi il braccio verso l’orizzonte, a voler indicare una inesistente via di salvezza. Ma ecco, tra lo stridore dei freni, il 18.08 per Saronno, su cui G. von A. trova posto lontano dall’esecutivista e dal suo fidanzatino, in modo da continuare la lettura in pace. Da Thomas Mann è tutto, a voi studio”.

 

il lavoro rende liberi di aspettare

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Sotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.

L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).

Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.

Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.

Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.

Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.

sunday morning (praise the dawning)

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Non vorrei passare per presuntuoso nel citare me stesso, ma anche oggi, in quanto domenica, non sembra esserci via di scampo. <ironic mode on>E il programma sembra essere dei migliori<ironic mode off>: festa del paese, temperatura sotto i 6 gradi, un bel controsoffitto grigio tangenziale a ripararci dal cielo (chissà di che colore è).  Ma stemperato in una settimana che (sembra) sarà composta da più domeniche, non per la festività quanto per il mood, meglio iniziare con il piede giusto.

fashion weektims

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Te ne accorgi a causa della presenza degli alieni in città. Presenza che probabilmente è costante anche in altri periodi dell’anno, ma se ti guardi un po’ in giro è più facile incontrarli. Si mischiano in mezzo a noi nelle ore del giorno; li vedi mentre vai al lavoro sui mezzi, li incontri per le vie del centro e no, con un rettangolo nero di pelle sottobraccio, da soli oppure in piccoli gruppi, modalità con cui risaltano ancora di più. Magari ho ragione io, e c’è stato un nuovo sbarco, l’ennesima astronave che li ha portati in visita qui a Milano, grazie alla Fashion Week 2011, in una specie di gita sociale interstellare. È encomiabile il loro tentativo di passare inosservati, tra noi terrestri, usando gli abiti che normalmente indossiamo, frequentando gli stessi bar in cui consumano sostanze di uso comune: caffé, cappuccini, cornetti. Ma come per i bambini del villaggio dei dannati, c’è sempre un particolare che li tradisce. Il modo di camminare, per esempio o, più di ogni altra caratteristica, la statura. Da un decennio circa, i loro tratti somatici sono sempre più simili alle nostre etnie caucasiche dell’est europeo, soprattutto per il genere femminile. Probabilmente si tratta di una processo evolutivo. E quando li incroci e non riesci a non guardarli, loro spesso abbassano gli occhi, consapevoli e pudici della loro diversità e del loro patetico tentativo di far finta di nulla, magari con le borse della spesa in mano. Ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo proprio questa mattina, sarà per via della settimana della moda. Metropolitana, linea rossa, ora di punta. Impiegati che vanno al lavoro e universitari diretti in facoltà, persone normali insomma. In mezzo alla carrozza, in piedi raccolte attorno all’apposito sostegno verticale, quasi a catalizzare di più l’attenzione, tre aliene – due chiarissime dai capelli biondi e una dai tratti fortemente orientali – con una mappa in mano a guardarsi tra loro, sicuramente spaesate in quell’accozzaglia di capelli bruni, stature mediterranee, persone normali. Noi terrestri sicuramente fuori forma, loro extraterrestri sicuramente fuori luogo.

manco a farlo apposta

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Qui si parla davvero di aneddoti dal futuro. Cronaca vera da pausa pranzo. Milano, poche ore fa, in una tavola calda in zona Porta Venezia, facce più o meno note e avventori abituali. Come H. e L. e come me, nel tavolo vicino. Munito di registratore e di rilevatore mnemonico-labiale.

In realtà, non sarà un libro sul mio futuro“. La risposta di H. è uscita a fatica, passando attraverso un bolo di gulash, ancora più a fatica può essere percepita da L. Il ristorante è gremito come ogni giorno feriale, la maggior parte colleghi di L. L. ha davanti la solita insalata mista da 7 euro, un miscuglio di roba verde, gialla e rossa affogata nell’aceto balsamico. Acqua dalla temperatura inaccessibile per entrambi. Per il resto, l’aria è satura di curry, qualche tavolo già al caffè, dipendenti in piedi che salutano dipendenti ancora seduti, dipendenti ancora seduti che rispondono consapevoli del loro stipendio più alto dei colleghi ancora in piedi. Il turno delle 12.30 contro quello delle 13.00.
Non ho capito. Perché hai pensato a quel titolo allora?“.
H. ambisce a quella domanda, non fa fatica a giustificarsi. “Ho pensato a un uomo, il protagonista, che non ha chiuso i conti con, diciamo, i primi 40 anni che ha già vissuto. Prova una sorta di pudore per molte cose che ha fatto e non crede che raccontandole, o meglio confessandole,  espierebbe. Quindi pensa di narrare una storia per bocca di un figlio. Il discendente che si fa carico dei peccati del padre. Mi sembrava una buona idea, che dici?“.
L. percepisce che H. sta parlando in prima persona. “Ma il protagonista sei tu?“.
No“. H. beve un sorso di ghiaccio. “Sono solo il traduttore“.
Hai letto troppo Paul Auster“.
Può darsi. Ma stamattina ho pensato ad un vero aneddoto dal mio futuro. Ti va di sentirlo?
Vai“.
Ero in treno e stavo andando in ufficio. In piedi, l’ora era quella di punta. Ho pensato a me, sono alle soglie della vita, la vita vera, quella adulta cioè, diciamo verso i 25 anni. Il momento in cui, vivendo un momento storico perfetto dove una persona a 25 anni ha appena terminato gli studi e deve solo guardarsi intorno per capire o cogliere al volo cosa fare. È anche il momento in cui se vuoi puoi renderti finalmente indipendente o mettere su famiglia. Allo stesso tempo però sei ancora un po’ ragazzo, insomma sei sul confine per diventare serio ma non lo sei ancora. Una cosa che ora succede probabilmente altrove, ma non qui, nel nostro paese. Mi segui?
Come no
Bene. Ho 25 anni, e sono con mia figlia, anche lei venticinquenne, e mia moglie, pure lei ne ha 25. E abbiamo vinto il diventare vecchi, abbiamo vinto la morte, abbiamo vinto ogni motivo per essere tristi o malinconici e non piangiamo più. Stiamo ascoltando un pezzo pop-punk. Immagina un pezzo dei Ramones. In pratica stiamo quasi pogando, ci diamo un po’ di spinte innocenti. Ma siamo tutti e tre insieme e stra-felici“.
E…?
E nulla. Sono sceso dal treno. Mi sono voltato verso destra, mi stava superando un tizio con le cuffiette. Per un attimo mi è sembrato R., un vecchio amico che frequentavo più o meno a 25 anni. Non lo vedo da allora, credo. Così ho pensato che potremmo, ad un certo punto, scendere da un treno e conoscerci tutti, ritrovarci tutti, tutti stiamo andando al lavoro ed è mattina e siamo a metà febbraio”.
“Siamo a metà febbraio, infatti“.
Esatto. Poi ho sperato che la generazione di mia figlia torni ad essere come le generazioni dei nostri padri o dei nostri nonni. Adulti a 20 anni, pronti a vivere i successivi 70 da adulti. Meno cazzoni, in poche parole“.
Questa volta è H. a pagare il conto. Poca roba, che comunque finisce in nota spese.

ci sarà lo special guest?

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un collegio di sole donne per berlusconi

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Non si finisce mai di fare nuove esperienze.

quante feste nuove, quest’anno: il 17 marzo, il 6 aprile…

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…ovvero la data di inizio del processo a B. Tutti gli aggiornamenti su il Post.

mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?

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Dedicato a chi ha voluto distinguersi rimanendo a casa: una foto da Repubblica e un veloce resoconto dal blog di Gad Lerner.

piccoli fans

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Ho deciso che porterò mia figlia, ormai settenne, al concerto dei SubSonicA, il 13 aprile al Forum di Assago. Fatta eccezione per un live di Caparezza all’aperto nel 2007, e un frammento di una esibizione degli Offlaga Disco Pax al Carroponte di Sesto San Giovanni la scorsa estate (al terzo pezzo già si era dispersa in emulazioni di jocolerie varie. Ho dovuto anche inventarmi una risposta plausibile alla domanda “Papà, ma perché parla anziché cantare?”), questo sarà il suo primo concerto vero.

Vero perché, a furia di ascolti, conosce molti pezzi, si ricorda i testi a memoria – di certo più di papà e mamma – e si dimena su alcuni refrain fortemente (secondo la sua sensibilità) emotivi, come il solo di synth di Strade. Quindi per la prima volta non sarà una bimba coinvolta suo malgrado in un evento da grandi, ma una fan consenziente ad ascoltare, spero per intero, un live dei suoi/miei beniamini. Di certo non andremo sotto il palco. Non tanto per la sua età, quanto per quella dei genitori.