non è un’opinione

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A volte mi chiedo con tutti questi numeri che senso abbia usare ancora le parole. E per fortuna che non è più come una volta che quando si doveva fare una telefonata bisognava cercare il nome nell’agenda, ruotare il disco cifra per cifra con uno sforzo di concentrazione oggi impensabile e anche quando qualcuno ti chiedeva da cambiare una banconota da mille in gettoni oppure ti capitava l’occhio su qualche messaggio osé intagliato sul metallo della cabina, con tanto di contatto indicato, non si verificava mai alcun conflitto di informazione. L’ultimo giro riportava gli occhielli a posto e si attendeva speranzosi il suono di libero. Ed era facile che a furia di chiamare la stessa persona il suo numero lo si ricordasse a memoria, anche perché se quella persona era speciale e il suo numero non te lo ricordavi rischiavi grosso. Poi sapete cosa è successo ed è inutile ribadirlo qui. Fatto sta che se sono in coda al supermercato e sto per digitare il pin del bancomat e la cassiera mi avvisa del totale da pagare anziché indicarmelo sul display, sono finito. Occorre cercare il telefono, ricordarsi il finto nominativo segreto a cui ho associato ciò che mi consentirà di tornare a casa con la spesa quindi procedere, deluso della mia memoria e della modernità stessa.

Ma oggi ce la faremmo con tutti i numeri che dobbiamo tenere a mente? Io no, e parlo per me. Nel mio piccolo però ricordo benissimo il mio primo numero di telefono fisso e ricordo anche quando mio papà entrò in casa con passo trionfale per comunicarci quella fondamentale evoluzione tecnologica della nostra famiglia. Ricordo la targa della prima automobile che ho avuto, e a dire la verità non so il perché. Mi sono ricordato qualche giorno fa persino del mio numero di matricola che avevo all’università. Non ci credete? Eccolo. 1235643. Eppure, quando sento le persone parlare tra di loro, sembra che si esprimano in una sorta di linguaggio macchina composto solo da cifre, e badate, con le droghe ho smesso da tempo. Gli amici si comunicano solo le chiavi WEP e i codici per attivare ricariche telefoniche, i figli ricordano ai genitori solo le password per recuperare i loro dati da qualche parte, i morti si rivolgono ai vivi in sogno prevedendo quaterne e cinquine. No, questo purtroppo no, o per lo meno non a me e se mi succedesse dubito che avrei la prontezza di svegliarmi e annotarmi la sequenza sul taccuino che porto sempre con me per metter per iscritto appunti che talvolta sviluppo anche qui. E da svegli sembra di vivere in una eterna prova teatrale, dove le parti non hanno importanza e gli attori dicono cose come tremila seicentocinquanta quattro, ventuno? Novantasei settemilaedue quaranta! E c’è pure chi sostiene che ci sia poesia nella matematica. Può darsi. Io non la vedo né la sento. Tutti che ti chiedono dati a supporto, percentuali e delta, indirizzi IP e taglie di scarpe e pantaloni. Altezza, lunghezza, profondità, temperatura, pressione, perimetro, area e volume. Stop. Basta. Facciamola finita, anzi, iniziamo il conto alla rovescia.

golb

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Ho pensato che anziché scrivere io di voi potremmo fare una cosa al contrario. Mettetevi d’accordo e create un sito e pubblicate on line tutte le foto che avete in cui ci sono io e delle quali non ricordo l’esistenza. Magari avete immortalato vostro figlio al mare e sullo sfondo in un angolo a sinistra mi avete riconosciuto mentre leggo un libro sdraiato sulla sabbia. Oppure, molto più semplicemente, ci frequentavamo dieci, venti, trent’anni fa e vi sono rimaste istantanee di noi insieme che non mi avete mai fatto avere. Non c’è la scusa dei negativi che non si trovano più, basta un passaggio sullo scanner e il gioco è fatto. Quella volta in gita. Quell’altra volta il book per l’uscita del cd, tutto in bianco e nero. Quella festa di laurea quanto la neo-dottoressa dalla postazione del dj si è tolta le mutande e le ha lanciate al pubblico e io ero lì a lato perché c’era il solito logorroico che mi monopolizzava in ogni occasione per parlarmi dei suoi progetti teatrali. Siete avvisati. Un tumblr può andare bene, un blog fotografico con un unico lettore – io – che tanto a ognuno di noi interessano solo le storie che lo riguardano. Il successivo step, per scalare la classifica delle imprese anti-social, sarà twittare sempre lo stesso messaggio sgrammaticato a cadenza da decidere.

della premura e della pressione

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Il primo è quello dentro che ci avvisa della situazione di emergenza, c’è qualcosa di estraneo al nostro stato di incoscienza che ci avvisa che dobbiamo attivare la stessa procedura che abbiamo messo in esecuzione un numero di volte che a calcolarlo ci si perde un po’, che è quella che impone al nostro organismo di svegliarsi e spicciarsi a premere il secondo pulsante della giornata per zittire la sveglia. Poi c’è la prima luce della giornata, quella del bagno e fatto quello che si deve fare c’è un interruttore uguale in cucina. I più temerari schiacciano anche quello della radio, a volte un pulsante altre è una manopola vintage da ruotare e altre ancora addirittura un tastino di un telecomando. Poi ci sono quelli abituati bene che hanno la macchinetta del caffè automatica ed è un altro bottone di accensione, a meno che non si tratti di uno di quei modelli programmabili che oggi sono molto di moda e che ti viziano soffiandoti l’aroma della miscela preferita fino in camera da letto.

Da lì si inizia a non contarli più perché a tirare fino a sera, fino all’ultimo che spegnerà l’abat jour sul comodino, tutto ciò che esercita una pressione su di noi ci induce ad esercitare una pressione su un pulsante o su una cosa simile da schiacciare. Quello per accedere al piano sottoterra nell’ascensore dove ci aspetta l’auto nel garage per portare i figli a scuola e poi cominciare la nostra giornata professionale, un viaggio breve solo in apparenza perché cela un vero e proprio allunaggio in un pianeta parallelo che ci allontana sempre più dalla nostra base sulla terra. Quello dell’autoradio che ci vomita addosso tutte le cattive notizie del momento. Il citofono dell’ufficio con un sistema automatico che ci dà il benvenuto alla nostra dose di produzione quotidiana.

Per non parlare di tutti quei tastini con lettere e numeri e funzioni e combinazioni che ormai le nostre dita conoscono alla perfezione. Per vincere la noia e sfidare noi stessi a volte chiudiamo addirittura gli occhi e le mani vanno da sole nemmeno avessimo fatto dattilografia alla scuola per segretario d’azienda che probabilmente non esiste più, chissà, e poi li riapriamo e controlliamo quello che abbiamo scritto e non troviamo nemmeno un errore ma attenzione, perché basta solo spostare di pochi millimetri la posizione delle mani sulla tastiera e mantenendo le stesse proporzioni si genera un vero e proprio sistema di cifratura come quel gioco che c’era sul Manuale delle Giovani Marmotte. Già. Il tutto su un computer che abbiamo acceso in qualche modo e che poi a fine giornata spegneremo probabilmente con lo stesso bottone. Nel mezzo abbiamo intanto smistato chiamate in arrivo sulla pulsantiera del telefono, abbiamo scelto il surrogato di caffè alla macchinetta optando per le relative condizioni. Lungo o corto o moccaccino (una parola che mette i brividi) e più volte premiamo il bottone e più diminuisce la quantità di zucchero. Insomma ci siamo capiti.

Tutto questo schiacciare che contraddistingue la nostra giornata ha in sé un significato, ed è qui che volevo arrivare. Tutto questo attivare o arrestare processi automatici aumenta la nostra consapevolezza oramai scontata che tutto funziona e tutto ha un meccanismo che non si inceppa mai. Spingi e via. E poi? Ogni cosa sembra essere a portata di clic, e lo si impara da piccoli. Facevamo un gioco, io e mia figlia, tempo fa, quando non sapeva ancora leggere e toccava a me accompagnarla nel sonno narrandole una storia tratta da uno dei suoi libri preferiti. Sapete come sono i bambini, fosse per loro passerebbero il tempo ad accendere e spegnere interruttori, qualunque essi siano, perché per loro dev’essere qualcosa di magico. E i grandi si inventano minacce tipo basta che si rompe, si fulmina la lampadina, prendi la scossa, si può generare un incidente nucleare e via dicendo. Così mia figlia si divertiva proprio con la lampada del comodino. Accesa e spenta. Accesa e spenta. E il gioco era che io leggevo con la luce accesa e interrompevo il racconto non appena premeva l’interruttore. A quel punto la storia si perdeva un po’ e lasciava spazio a quel sistema surreale di approvvigionamento energetico verso gli essere umani narratori. Che si possono attivare e disattivare a comando. E il bello era che potevamo andare avanti anche mezz’ora, se la lampadina si brucia chi se ne importa, pensavo. Che poi non è mai successo. Lei si divertiva e va bene così. E chissà cosa le è rimasto di quel potere che presumeva di avere, perché si arrivava a un punto in cui dovevo rompere l’incantesimo. Parlavo anche al buio e dicevo ora basta, dai, dormiamo. Ma la magia riprendeva la sera successiva e poi quella dopo e c’era sempre da sbellicarsi dalle risate, vi giuro, sia io che lei ridevamo fino alle lacrime. Ecco, tutto questo avviare dovrebbe meravigliarci ogni volta, l’incantesimo delle cose che vanno nel verso in cui abbiamo premuto il pulsante. In avanti, verso il dopo, verso la luce che si accende, perché al buio c’è quasi sempre qualcuno che ci tranquillizza.

il guaio è se pensi di essere a buon punto e invece hai appena incominciato

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Che poi a forza di non uscire più uno perde il senso della realtà, come sono fatti gli uomini e le donne, quali giacche siano in voga e che moda vada per la maggiore in generale. Come sono diventate le automobili, sapete che pian piano la forma cambia per tutta una serie di fattori che non stiamo qui a elencare. Di cosa parli la gente quando si incontra per pranzare insieme seduta ai tavolini sui marciapiedi di fronte a quelli che invece cercano di fare la colletta per mangiare ovunque, quale sia l’età media che distanzia le coppie in via di formazione, clandestine e no. Chi siano i clienti degli alberghi anonimi che danno sulle vie del centro con portoni che potrebbero sembrare qualunque cosa ed è forse proprio per quello che continuano ad avere clienti malgrado le catene di hotel che si vedono ovunque. Si può entrare come se si facesse ingresso in un qualsiasi palazzo e nessuno vi fa caso. Che musica ascoltino le ragazze che prendono il sole di fine estate sulle panchine e che lavoro facciano tutti quanti. Così si giunge alla conclusione che il momento migliore per iniziare a scrivere una storia è proprio il mercoledì pomeriggio, che poi quello era proprio l’istante da cogliere che uno è anche pronto a cogliere ma poi alla fine non si presenta mai, e lo si cerca ovunque. Dentro sé stessi, nella rete, tra le pagine del blocco degli appunti, sugli scaffali delle librerie con le novità. Poi cammini e ti supera un ragazzo con una borsa da donna sottobraccio, incroci un informatico con un completo dell’Oviesse, vedi un jeans che costa più di cento euro e input dopo input ecco che emerge tutta la trama che sapevi esistere da qualche parte ma di cui ne scorgevi solo qualche vetta affiorare in ordine casuale. E così eccoci qui, che ci vien voglia di dire che questa è una riflessione che prima era solo uno spunto che poi è diventata un nuovo spunto per tornare a essere una riflessione e poi chissà cosa sarà, il tutto senza perdere mai di vista il titolo che in realtà è stato l’inizio del tutto.

sorpresa, è tutto finito

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Alla grande è un modo di dire roboante, che può farmi ridere se lo dice un comico anni ottanta, ma qui in pochi hanno più voglia di slogan pubblicitari da gelati confezionati. Un esempio? Ci si lascia un bel giorno con il proposito di ritrovarsi dopo le ferie per riprendere alla grande. E questa è una cosa che non capisco. Intanto una visione così sbilanciata su quello che già è un dato di fatto, lavorare come bestie per maturare un giorno di ferie ogni dieci giorni e rotti, lascia a intendere che stare in panciolle con moglie e figli sia una sorta di anticamera per la stagione lavorativa alle porte, quegli autunni che ogni anno sono sempre più caldi ma che ultimamente portano solo inondazioni e bizzarre quanto pericolose anomalie atmosferiche in un’area geografica che un tempo era il numero uno per il sole e le mozzarelle e oggi sembra di stare ai tropici con i lavorati latticini che tendono al blu. In secondo luogo, se la situazione era di merda anche prima non è che in queste due o tre settimane un team di fatine colorate si è dedicato a risollevare le sorti dell’economia locale girando azienda per azienda, senza far squillare allarmi dato il loro status di incorporeità, risanando bilanci, coprendo buchi, immettendo liquidi nelle casse, richiedendo commissioni, domandando preventivi, riconfermando contratti, ricostruendo lungimiranza imprenditoriale e risollevando umori a vari livelli. Quel giorno, quello dell’amara constatazione che nella vita il riposo è solo un di cui e che per molti è oggi, riaccendiamo computer ritrovando la stessa situazione di merda che è rimasta in stand by anche se abbiamo scollegato dalle ciabatte i dispositivi per evitare improbabili conseguenze da temporali ferragostani. Per questo nessuno ha intenzione di riprendere alla grande, perché è un modo di dire da sbruffoni che pensano che fare coraggio al prossimo sia solo una questione di modi di dire standard. Io alla grande non ho nessuna voglia di riprendere, e invito voi che oggi siete tornati in ufficio e come prima cosa siete venuti qui a leggere queste poche righe a fare mente locale che non c’è una virgola che si è spostata verso il meglio, in tutto questo tempo. Mandate a quel paese alla grande chi vi vuole sul pezzo con entusiasmo, non sta a voi far riprendere il tutto diversamente da come l’avete lasciato.

un elenco non esaustivo dei quali comprende:

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Alla fermata dell’autobus in un quartiere di ville, all’ombra di un monumento all’eroe dei due mondi, mollemente sdraiato su un divanetto in velluto rosso a ritmo di un gruppo pop tedesco. In un letto matrimoniale, su un carro da fieno ma senza fieno, tra il primo e il secondo tempo di una partita di basket. Poi a bordo di una decapottabile con la capotta difettosa, al bar, sotto casa. Vicino ai fornelli, davanti a scuola, nello stesso posto della sera prima. A Roma e in una località sciistica poco rinomata, sugli scogli proprio dopo un ghiacciolo, sotto una palma, appena consumata una cena indiana. E, uno dei più belli, appena uscito dall’orale della maturità. Spesso è il contesto a fare la differenza.

il giorno in cui la differenza di età si riduce

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Non c’è molto da dire e questo è un vero peccato. Per me che ho la certezza che il tempo non debba mai essere utilizzato standosene zitti si tratta una vera disdetta, così continuo a fare domande e a ottenere risposte fino a quando il dialogo si estingue perché il gioco passa di mano e toccherebbe a me essere l’oggetto dell’interrogatorio, ma a quel punto gli argomenti si sono esauriti. C’è una frattura lunga venti, addirittura trent’anni dopodiché l’interesse dello scambio tra adulti, quando ci sono adulti anziani genitori da una parte e adulti figli di mezza età dall’altra, si limita a cose molto contingenti e lo stare insieme si riduce a un pranzo e una cena e poi un pranzo ancora, e in mezzo un sonnellino perché è un diritto di chi ha una certa età, lo so, e poi c’è la notte e dopo si parte per ritornare. Ci sono molte cose sottintese, forse, ma a me piacerebbe che qualcuno me le sbattesse sul muso, una volta per tutte, possibilmente almeno prima della penultima visita, così da avere un po’ di margine per rifletterci su e dedicare l’ultima a tutto quello su cui ci sarà da ridere insieme.

nati liberi

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Io che sono a tutti gli effetti un uomo del novecento considero la mia naturale collocazione storica come metro di giudizio per distinguere ciò che ritengo friendly e ciò che ritengo apocalittico, l’opzione che non a caso tra me e me definisco da fine del mondo, una cosa che facevo anche prima di venire a conoscenza dei Maya e delle scie chimiche che lasciano al loro passaggio. Da sempre ci sono gli uomini più pavidi che temono l’avvento delle modernità, quindi evitate di biasimarmi perché so di essere in buona compagnia. Vi faccio qualche esempio. Un ambiente di lavoro grande quando il mondo, fatto di persone che parlano una lingua straniera individuata come lingua comune dove chi la sa meglio occupa i posti migliori e sa farsi abbindolare di meno, questo che è un aspetto che i più considerano friendly io dal basso della mia piccolezza lo vivo come un elemento della fine del mondo. E mi viene in mente qualche giorno fa quando ho visto una coppia di rumeni, padre e figlio, che si sono fatti beccare dai Carabinieri del paesello in cui vivo perché sono entrati nella discarica comunale scavalcando il cancello in orari di chiusura per rifornirsi, suppongo, di pezzi di elettronica di consumo di ricambio, magari da rivendere in qualche modo. E si sono fatti beccare perché all’ingresso c’è un cartello grande come una casa con su scritto in italiano che l’area è sorvegliata tramite telecamere, così quando li ho visti con l’espressione di chi non si capacita di una macchina così efficiente come quella della sicurezza pubblica, ho pensato che probabilmente non conoscessero bene la nostra lingua. Se avessero letto, avrebbero capito e non si sarebbero esposti a un rischio così grossolano. Questo per dire che nella società globalizzata non è scontato capirsi, se non ci si capisce non si concludono affari, l’economia ne risente, addirittura perdi il lavoro e l’indiano che ti dà supporto al telefono sul database centralizzato che utilizzi dall’Italia difficilmente sposerà la tua causa, ammesso che capisca il tuo inglese. Nemmeno sa chi sei.

Per non parlare della tecnologia che permette tutto questo, una piattaforma in cui si parla dentro a microfoni, ascoltandosi tramite cuffiette da call center e ci si vede tutti nei sistemi di videoconferenza e il giorno che non paghi la bolletta e ti staccano la linea del telefono o la corrente elettrica stessa che non puoi nemmeno ricaricare la batteria puoi dire addio a tutto questo. Non oso pensare a come reagirei se capitasse a me. Ma non è solo questo. Ci sono le complessità che sono sempre più pressanti e che se non ti sai adeguare sei fuori dai giochi. Saper scegliere tra i contratti, i prodotti, i servizi, oggi che la moltitudine di offerta e di persone impegnate nella vendita è a dir poco invasiva, questa è una componente della nostra vita tutt’altro che friendly. Perché bisognerebbe fare calcoli e simulazioni, leggere pagine su pagine di note e modulistica e disclaimer, il tutto quando hai già un lavoro che ti impegna e ti stressa e poi arrivi a casa e c’è tutto il resto delle cose quotidiane da gestire. E poi ancora tutti i servizi informatizzati, che sono a metà tra il friendly e l’apocalittico. Il check-in tramite Internet e il pagamento del F24 sullo smartcoso, i primi due esempi che mi vengono in mente, sono friendly se tutto va in porto ma se c’è un bug o qualcosa non ti fa concludere l’operazione da che punto devi ripartire? Poi c’è il call center, un altro indiano, e si ritorna alla casistica di cui sopra. Anche imparare a pilotare aerei di linea per poi schiantarsi su un grattacielo è un modo di pensare la cattiveria da fine del mondo, oltre a progettare l’apocalisse tout court. Anche gli annunci di ricerca personale pubblicati da aziende come Google non sono da meno.

Addirittura sono riuscito a individuare musica da fine del mondo, armonie e arrangiamenti talmente moderni che davvero sembrano non di questa era e uno si chiede da dove possano giungere ispirazioni del genere se non da luoghi e tempi a noi sconosciuti, e quelli un po’ ignoranti come me che fanno fatica a misurare l’incommensurabile (che invece è commensurabile visto che ci sono tag e categorie per ogni cosa anche se ci sforziamo a non crederci) mettono tutto nel calderone dell’apocalisse, come nel medioevo si liquidava con roghi e scomuniche tutto ciò che non era interpretabile con la fede e tramite le scritture. Ma questo è un gioco rischioso, questo della paura di ciò che non si conosce appieno, e noi professionisti di media cultura occidentali dovremmo assumerci la nostra responsabilità e illuminare le zone d’ombra che il progresso lascia sotto di sé. Una amica, che lavora presso un’agenzia di assicurazioni, mi ha riferito di un suo cliente senegalese convinto che i terremoti siano opera di Allah indispettito dal fatto che il progresso comprenda anche la possibilità che uomini vogliano accoppiarsi con altri uomini. E non so dove voglio arrivare, non ho una teoria e una boutade per concludere questa riflessione con ironia. È solo che non potendo coprire l’esigenza di fare chiarezza con l’ignoto con una fede o una superstizione, non so proprio come procedere. Ditemi voi, sono aperto a consigli. Ah, dimenticavo, una colonna sonora da fine del mondo potrebbe essere questa qui.

melodie inutili a milano

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Il problema dell’evento il cui nome suona come un acronimo del presente titolo è che è molto difficile per gli organizzatori mettere insieme una scaletta credibile con tutto il rispetto per le decine di alternativi che si alterneranno su quei palchi, e lo so che è un po’ da trombone e poco da chitarra elettrica brontolare prima di sapere le cose ed è qui che voi lettori mi smascherate e potete capire quale sia la mia vera età. Così ogni anno sono tentato di fare una capatina, in quest’edizione poi ci sono pure gli Offlaga Disco Pax che comunque potrò vedere da soli senza interferenze al Carroponte di Sesto a fine luglio. Questo è un buon motivo per evitare e lagnarmi da remoto. Ma quest’anno ho deciso di lanciare una sfida a me stesso. Mi ascolto con cura le svariate decine di brani che formano il nastrone dei partecipanti, che trovate su quel sito a me inviso e non lo linko perché nell’era delle reti non è possibile illudere di fare sistema in un ambiente in cui si alimenta una competizione che nasce con le individualità stesse, tanto che alla fine non è altro che un fattore che anziché avere l’ics davanti ha la e con il trattino. Perché non è vero che esiste un marketshare, ragazzi siete tutti abbondantemente sotto il quattro percento quindi anche voi come i gruppuscoli di sinistra mettete da parte la vostra coscienza di genere e compattatevi, schiacciate chi vi usa solo per generare traffico sul proprio sito, fate una confederazione o un sindacato o un partito o non so che ma non pestatevi i piedi e imparate a vicenda. Ho perso il filo. Ecco, dicevo che ora ho scaricato la compilation di tutti quelli che suoneranno lì e vi prometto che se ne trovo almeno dieci (sono un totale di sessanta) che mi piacciono li recensisco qui e vado almeno a una delle giornate del suddetto festival. Gli ODP sono ovviamente esclusi dalla competizione.