le vibrazioni

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[suoneria con uno dei millanta riff degli ac/dc tutti uguali]
– sono in galleria, non so quanto riesco a parlare
– […]
– Si, ti dicevo, sabato ho fatto quel lavoretto di cui ti avevo accennato, ti ricordi? La festa in piscina
– […]
–  No, quello era la festa della birra
– […]
– Esatto. No, qui dovevo fare tipo la presentatrice, fare un po’ di annunci dal palco, oltre a ballare e fare un po’ di pierre e le solite cose
– […]
– Sì. No ma senti. Mi chiama il moroso della mia amica e mi dice se ero libera per fare una comparsata a questa festa in piscina, vestirmi da metallara perché è una festa di bikers. Figurati, ogni tanto qualcosa di diverso, il compenso è buono, c’è il gruppo che suona e devo presentarli, non ho capito se poi c’è una specie di gioco a premi e devo dire le cose al microfono… Va beh, non c’è problema. Insomma che il posto è bello, pieno di ragazzi e ragazze ma anche gente di una certa età, sai i motociclisti come sono. Hai presente il cantante dei Motorhead? Tutto in tema Harley Davidson, nel parcheggio ce n’erano centinaia bellissime, dentro vicino alla piscina c’era il gazebo con la birreria e la tipa metallara che spillava medie e a non finire.
– […]
– Non ne ho idea, sicuramente il posto è grande e merita. No ma senti. Ero con Grazia e ci siamo fatte un giro, la musica era altissima, ma a un livello assurdo. Poi mi chiama l’organizzatore e mi da un foglio, con il nome del gruppo. Vado a presentare il gruppo, il digei toglie la musica, prendo il microfono e faccio l’annuncio. Non ho fatto caso ai feedback, un po’ perché ero emozionata, un po’ avevo appena bevuto una birra.
– […]
– Nono, eehh… un sola, mica…
– […]
– Purtroppo mi ricordo. Vabbè, dicevo, non ho fatto caso subito ai feedback della gente, ma sentivo che c’era qualcosa di strano. Insomma, il gruppo suona, e mentre prima la musica la metteva il digei e non c’erano pause tra un pezzo e l’altro, questi suonano e i pezzi finiscono. E quando finiscono i pezzi c’è un silenzio strano, ma ancora non ci faccio caso più di tanto, ero con Dani e…
– […]
– Sì proprio lui, si chiama Dani. Insomma il gruppo finisce di suonare, nel frattempo il tipo mi chiama sul palco per fare un po’ di ringraziamenti. Così mentre i musicisti mettono via gli strumenti, urlo un “e ora facciamo tutti un grande saluto agli Hell’s Angel di Novara”. Vedo tutti che si sbracciano, qualche applauso, ma pochissime voci. Lì mi sono preoccupata, vado nel panico e guardo l’organizzatore. Ma vedo che non ha capito perché mi sto preoccupando. Vado con un altro saluto, stessa scena.
– […]
– Ma no, eehh magari, peggio. Cioè peggio, è incredibile. Senti. Scendo dal palco, e vedo un tipo che parla a gesti con un’altra, e lì mi viene il dubbio. Mi guardo intorno. Tutti si esprimono allo stesso modo, fanno gesti e parlano solo con le espressioni del volto. Uno addirittura vedo che si interrompe, fa un’espressione di meraviglia di fronte a una ragazza che lo sta raggiungendo, e fa l’inequivocabile gesto di quando non vedi un amico da secoli. L’organizzatore viene vicino. “Non ti avevo detto che era un raduno di bikers sordomuti”?

una splendida giornata

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Sottotitolo: il post definitivo (mio, e chi mi credo essere…) su Vasco Rossi e sul suo ritiro.

Sei un fan di Vasco? Sei un mio amico e sei fan di Vasco? Allora questo post non fa per te. Nel primo caso, non puoi essere sufficientemente obiettivo da condividere il mio parere. Nel secondo caso, potresti essere tentato di farne una questione personale e, chiunque tu sia, sappi che personale non è. Cerca di non riconoscerti tra queste righe, e se cogli qualche riferimento privato parliamone, saprò convincerti del contrario. Inoltre, di alcune cose ne ho già parlato più volte in questo blog, ma perché non affrontare nuovamente il problema sfruttando la notizia del momento? Quindi, apriamo le buste. Tema: Vasco lascia le scene per manifesti problemi anagrafici, e non solo. Svolgimento.

È facile identificare il momento in cui ci siamo accorti che Vasco Rossi era diventato un qualcosa di più che l’ennesima rivelazione emersa da un sottobosco di rock italiano ancora fermo alla generazione precedente e che per nulla riusciva a rappresentare il nuovo modello di giovane di allora: disimpegnato, non tanto tossico quanto sconvoltone, ai tempi si diceva “sballato”, un aggettivo così anacronistico da farmi vergognare di averlo scritto, poco raffinato ed equidistante sia dai Clash (per non parlare del post-punk italiano, nemmeno preso in considerazione a questo livello) che da un qualsiasi cantautore dell’epoca che iniziava ad essere fuori luogo, più che fuori tempo.

Quel momento è stato quando abbiamo incontrato un amico chitarrista vestito e pettinato tale e quale a Vasco Rossi. Siamo nel 1982. Tanto che negli ambienti della cultura giovanile di allora, come l’ARCI, indossare una maglietta con l’effigie della copertina di Siamo solo noi era oltremodo disdicevole, ed era un attimo a prendersi botte di “stronzo borghese” (cit.). Quasi più rischioso che sfoggiare spencer dalle spalle imbottite e spacciarsi New Romantic.

Insomma, per farla breve, Vasco Rossi piomba in una generazione senza anticorpi e in effetti, se non ci pensavi più di tanto, il genere così un po’ rock con qualche pezzo addirittura reggae ti poteva trarre in inganno. E come biasimarci. Le parole in un italiano così diretto come nessuno mai era riuscito a scrivere hanno scardinato trasversalmente un po’ tutti. Passa poco tempo, ed ecco il manifesto del pensiero rossiano, la vita spericolata a rischio ritiro patente per etilometro, che dalla vetrina di Sanremo spicca il volo per raggiungere una vetta senza ritorno, a cui, nemmeno oggi a distanza di vent’anni, nessuno, nemmeno Ligabue (ecco forse quasi avrei preferito si fosse ritirato lui) è arrivato.

Non mi piace Vasco perché ha catalizzato, monopolizzato e gestito in modo poco proficuo, per lo sviluppo e la crescita di almeno 3 generazioni di giovani, energie positive e costruttive con le quali si poteva tranquillamente fare altro che una rivoluzione. Ma mi sarebbe bastato una presa di coscienza, qualche parola su qualcosa che andasse oltre le sue tematiche standard. Che poi magari bastava solo una parola sbagliata o un pezzo sul piacere della cosa pubblica anziché la monotonia del vivere chiusi nel proprio guscio di periferia (qualcosa di più di cosa succede in città, sia chiaro) ed ecco che ti giochi un parte del tuo bacino di consenso. Che poi, a dirla tutta, secondo me, una volta che hai fatto innamorare di te così tante persone ti seguono ovunque vai. E allora, diamine, e dì qualcosa di sinistra anche tu.

you were a kindness: the national

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Quando la giornata inizia così.

che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

ti copro io

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Se G. dichiara di non vedere la TV non è perché rientra nelle file degli intellettuali di sinistra, categoria antropologica alla quale appartiene in quanto elettore del PD o, “vediamo come vanno le cose“, di SEL, oltre a dichiararsi assiduo cultore di letteratura, sociologia, comunicazione, musica, cazzatine nerd/geek, lettore di Repubblica e via dicendo. G. non vede la tv con regolarità dal 1996, anno dell’indipendenza e della conseguente dichiarazione delle priorità, ovvero quello che ci si può e non ci si può permettere con poche (ai tempi) lire. Meglio possedere un televisore o un frigorifero? A voi la scelta. G., sappi che nessuno ti biasima per questo. Food for thought, c’era scritto sul primo album degli UB40. Ma, prima di tutto, a pancia piena si sta meglio. E si pensa meglio. Si, lo so. Metto troppi punti. Troppe frasi brevi. Ma già so che G. apprezza. Fa figo. Andiamo avanti.

saturday at the village vanguard

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Il 25 giugno 1961 il Bill Evans Trio – una delle più grandi formazioni jazz di sempre – suonò al famoso Village Vanguard di New York, il locale del Greenwich Village. Era domenica e il trio aveva a disposizione sia l’esibizione del pomeriggio che quella della sera. Bill Evans, morto nel 1980 a 51 anni in conseguenza degli abusi di droghe e di una salute debole, è considerato tra i più importanti pianisti della storia del jazz. Con Bill Evans, che quel giorno aveva 31 anni, in quella formazione del 1961 suonavano il bassista Scott LaFaro e il batterista Paul Motian. Scott LaFaro morì a solì 25 anni in un incidente stradale appena dieci giorni dopo quel giorno, e due giorni dopo aver suonato con Stan Getz al festival jazz di Newport. (Il Post)

Oggi era sabato, ma di Bill Evans e di quel live ce ne ricordiamo sette giorni su sette.

manifesto rancore

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Q.: Dottore, temo di aver causato una frattura insanabile nel rapporto con i miei genitori.
A.: La fermo subito. Le ricordo che anche lei fa parte della categoria.
Q.: Sì, lo so, ma preferirei continuasse a trattarmi da figlio. Li odio. Odio il fatto che siano vecchi e siano diventati individualisti, egoriferiti, poco affidabili, sempre bisognosi d’aiuto. Sperperano per loro e sono avari con me. Non si interessano delle cose che faccio, parlano solo di cibo. Così vivo costantemente nel senso di colpa: da una parte mi sento di dover amarli in quanto padre e madre, dall’altro cerco di evitarli e ogni volta che accade di dover passare tempo con loro vado in ansia. Detesto la loro casa piena traboccante di cose che continuano ad accumulare. Cose inutili, libri, riviste, giornali, vasi, piatti, soprammobili. Non gettano le cose rotte, non gettano le cose che non servono più e che continuano a giacere pieni di polvere in ogni cassetto, o in bella vista su ripiani, librerie, tavolini. La mensola sul camino, murato da quando mia mamma scoprì che vi entravano i topi dal tetto, è sommersa da orologi. La sveglia della casa di campagna della nonna, la paccottiglia cinese comprata a un euro, il finto pendolo rotto da secoli. Le pareti sono nascoste da piastrelle, stampe kistch e quadri di nessun valore.
A.: E nella sua ex-cameretta?
Q.: Gli stessi poster che avevo appeso da ragazzo. I Cure, Morrissey, i Depeche. Alcuni sono stati sostituiti da vecchi calendari dozzinali.
A.: Si ricorda i poster che sono stati sostituiti?
Q.: Avevo una gigantesca riproduzione della celeberrima foto di Che Guevara. Sparita.

evergreen

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Io uccido, il best seller di Giorgio Faletti, è stato pubblicato nel 2002. Da allora, sono pronto a scommetterci, non credo di aver trascorso più di 2 o 3 giorni senza incontrare qualcuno con una copia di quel tomo, e tutto il suo pondus in senso stretto, lato e traslato, in mano. Così se leggo o sento parlare di novità, di rivoluzioni, di cambiamenti, nuovi cicli, cose che mutano, e poi vedo persone assorte in quella lettura in treno, con tutto il materiale leggibile pubblicato nel frattempo al mondo, mi sento prigioniero di un incantesimo. A quel punto cerco solo una risposta: sogno o son desto? E, in preda a un attacco di ansia, mi guardo intorno. Il mio dirimpettaio risalta per i capelli lunghi dietro raccolti da un codino, mentre per il resto è praticamente calvo, e sfoggia una maglietta dei Guns. Di fianco, una tipa mingherlina veste minigonna di jeans e ballerine. Siamo vittime di uno stallo. E pare ci sia ancora gente che scrive sui blog.

a chi lo dici

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L’Uomo Che Parla Da Solo barcolla cambiando piede di appoggio alla fermata del tram, in maglia a righe orizzontali e bermuda sintetiche, la fronte imperlata dal tasso di umidità record. E parla, a volte concitato, a volte sorridente, a volte serio, alternando stati d’animo talmente ordinari da passare inosservato. Già, venti anni fa l’Uomo Che Parla Da Solo sarebbe stato scambiato per un matto; solo uno psicopatico potrebbe colloquiare con un interlocutore immaginario, un coniglio invisibile o, peggio, un fantasma. Oggi, di uomini e donne che parlano da soli sono piene le vie e le piazze, i luoghi pubblici, le stazioni e le aree di servizio in autostrada. La differenza è che si rivolgono a un minuscolo microfono ubicato su un filo che pende dalle loro orecchie, collegato a un telefono cellulare a volte ostentato, se di ultimo modello, a volte occultato chissà dove. E parlano, ridono e si arrabbiano, urlano o compongono baci e parole con la bocca ora fissando un punto qualsiasi, ora passando in rassegna quello che hanno intorno, quasi a voler condividere con la persona che hanno in linea il panorama del posto da cui stanno chiamando, attraverso un paio di avveniristiche webcam installate nei bulbi oculari. Nessuno fa più caso a questa variante del teatro di strada, ma sarebbe davvero utile fermarsi un momento ad assistere ai loro monologhi come si fa con le statue o con i giocolieri, e lasciare loro una moneta per l’emozione che ci hanno fatto vivere. Utile per far rendere loro conto del talento e delle potenzialità degli spettacoli che involontariamente sono in grado di offrire. Nessuno, oggi, così fa più caso all’Uomo Che Parla Da Solo, in bermuda e maglia a righe, che cambiando piede di appoggio barcolla sudaticcio alla fermata del tram, e che si rivolge a un auricolare invisibile collegato a un telefono cellulare immaginario, e parla con un interlocutore inesistente grazie a un contratto tutto compreso ricaricabile sicuramente vantaggioso e senza scatto alla risposta.

saturday night in the city of dead

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C’è un punto in cui è facile entrare nel piccolo cimitero di L. Non è necessario nemmeno scavalcare il cancello, c’è solo una rete da sollevare e si è già dentro. Il kit della notte bianca tra le tombe è distribuito tra tutti: il riproduttore di musicassette, birre, i plaid per stare al caldo sul marmo gelido, un paio di torce. Non è facile distinguerli mentre si inoltrano tra i cipressi, la luna è nuova, e sono tutti rigorosamente vestiti di nero. Si siedono sulla tomba che ricorda la copertina di Closer, che poi è una foto scattata al cimitero monumentale di Staglieno. C’è una lapide orizzontale, sulla terra, sovrastata da un angelo affranto. Si stendono i plaid, qualcuno stappa una birra, qualcun altro tira fuori una canna preparata prima dove c’era un po’ di luce. Per la musica sono tutti d’accordo sui Bauhaus, perfettamente in tema.

Il gruppo è formato da un paio di coppie a cui si aggiungono 2 ragazze e 3 ragazzi, uno dei quali tende sempre a esagerare, è convinto di avere un canale prediletto con l’oltretomba, ma in quel frangente, sono tutti in odore di reato e basta un niente per passare la notte in caserma e finire il giorno dopo esposti sulla cronaca locale al pubblico ludibrio, è bene stare tranquilli e limitarsi alla bravata di moda. La nottata fila via liscia. Le coppie si limonano, 2 ragazze e 2 ragazzi flirtano sulla voce di Peter Murphy, il quinto, quello che tende a esagerare, ogni tanto si eclissa nel suo canale privato con l’oltretomba. Poco prima dell’alba, si rimette tutto in ordine e ci si prepara per tornare alle rispettive abitazioni. Un paio di loro, e non sono meno gotici degli altri, si sono addormentati. C’è qualcuno che ha passato il giorno a lavorare, anche se sembra poco nobile per una creatura della notte.

E quello che tende a esagerare, si scopre che ha esagerato ancora. Dal tascapane militare nero spunta una lunga croce di acciaio, dentro ci sono anche un paio di lumini, tutto materiale trafugato, dice lui, dalle tombe meno curate. Una delle ragazze, una delle più carine che sembra uscita da un video dei Banshees, gli aveva chiesto se gliene procurava una. Per lui è stato quindi un piacere doppio, una prova di amore, una sfida all’aldilà. Ma Sara, la darkina tutta eyeliner e smalto nero, a casa però un po’ si vergogna di appendere quella croce funerea sulla parete, i genitori ne chiederebbero la provenienza. Per il momento il lugubre pegno d’amore finisce nascosto nell’armadio. E qualche ora dopo, addormentata, ed è praticamente mattino quasi inoltrato, ecco i rimorsi palesarsi attraverso l’inconscio in un sogno tendente all’incubo fin troppo nitido.

Da una tomba a loculo, nel sogno, Sara sente una voce straziante lamentarsi: “Saraaaaaaaa, lasciaci dormireeeeeeeee in paceeeeeeeeeeeee”. Ora, vabbè essere amanti del gotico, ma quello è troppo. Appena si sveglia, è il primissimo pomeriggio ed è sola in casa, in poche ore si veste con i pochi abiti colorati che possiede dalla precedente vita, quindi sale sull’autobus, la linea che porta al cimitero, all’ingresso del quale – sarebbe troppo rischioso cercare la lapide con la croce mancante, e se poi la lapide fosse uguale a quella del sogno è sicura che non reggerebbe il colpo – lascia il corpo del reato, e triste nella sua tristezza gotica perpetua rientra a casa. A rivestire gli abiti neri.

Il giorno successivo, nella prima pagina della cronaca locale, la principale notizia recava il titolo “Vandali devastano il cimitero di L.”, ma il giornalista parlava di semplici balordi, con molta probabilità tossicodipendenti.