poi ci troveremo

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Ā«si puĆ² essere cosƬ dispiaciuti per la morte di una persona lontana, di uno che nemmeno si conosce?Ā» la risposta ĆØ sƬ. sono piĆ¹ dispiaciuto per la morte di clarence clemons di quanto lo sia stato per la morte di alcuni parenti che non vedevo da ventā€™anni, e con cui nei precedenti dieci avevo avuto relazioni che potrebbero essere annoverate, se esistesse, in un guinness dei primati della distaccata cordialitĆ . Ā«ma non ĆØ una cosa tremendamente stupida?Ā» cosa? anteporre un affetto sincero, quello per la musica di clemons, o di un qualunque altro musicista, a una ā€“ quella sƬ ā€“ stupida semplificazione che ti vorrebbe distrutto e in lacrime per la morte del cugino di terzo grado di tuo cugino di quarto grado, o per la morte dellā€™amorevole vicina di casa che, quando eri ragazzino, aveva ideato un sistema infallibile per impedirti di giocare a pallone nei dintorni del suo giardino, aprendo il cancello e liberando un cane, tanto attratto dal tuo tango di cuoio appena rubato al compagno di classe ricco? no, non ĆØ stupido, ĆØ la cosa piĆ¹ sincera e umana che si possa provare. mi dispiace che clarence clemons sia morto perchĆ©, dā€™ora in poi, sarĆ  un mondo senza di lui. il mio mondo, quello che conosco come tale dal millenovecentosettantacinque, comprende tutta una serie di persone che potrei ordinare in caselle: /famiglia /amici /calciatori /attori /registi /scrittori /musicisti. il fatto che non abbia mai avuto rapporti con il novanta percento degli incasellati, che non ci abbia mai bevuto insieme ĆØ del tutto irrilevante. tutte le obiezioni sulla assoluta immaturitĆ  di un simile atteggiamento ā€“ quasi fosse un lutto adolescenziale, degno di essere annotato sopra una smemoranda consunta ā€“ vengono seppellite dal fatto che la nostra vita di questo ĆØ fatta. la nostra vita ĆØ fatta di cose e di persone, che spesso non conosciamo, e che esercitano unā€™influenza decisiva sulle nostre scelte e sulle nostre azioni. libri, musica, film. ci sono cose e persone, e tra le cose ci sono le parole, i suoni, i rumori e la musica, e tra le persone ci sono quelli che la musica la fanno. cediamo loro uno spazio enorme delle nostre vite, gli apriamo le porte delle nostre camere da letto o quelle di case che ci ricordiamo a malapena, ma di cui ricordiamo stanze in cui abbiamo fatto un pezzo della nostra esistenza, luoghi in cui abbiamo fatto le cose peggiori (e a volte migliori). in quei luoghi reconditi, in quegli spazi nascosti, abbiamo lasciato entrare poche persone selezionate e tantissima musica, e quegli spazi, quelle stanze, quella musica, non sono altro che un fotogramma di una progressione disordinata di eventi che, incidentalmente, si trasformerĆ  nella nosta vita, in cui cā€™erano clemons, springsteen, i beatles, i cure, gli smiths, i depeche mode, i pink floyd, mentre del cugino di quarto grado del cugino di terzo grado, nessuna traccia.

Una versione di chamberlain. La mia famiglia di origine, ultimamente, ĆØ fatta cosƬ, vero zio Miles?

dimmi perchƩ

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Di ritorno dal paesello, che poi paesello non ĆØ per numero di abitanti, ma che ĆØ peggio per molti altri motivi ai quali, prima o poi, dedicherĆ² un intero capitolo di scritti ma che ora tengo in stand by. Un posto per raggiungere il quale, se sbagli orario, puoi anche viaggiare alla media di venti all’ora per 200 chilometri, partendo da qui. E quando pensi di essere arrivato, c’ĆØ l’ultimo pezzo di strada litoranea in cui la coda ĆØ ferma, perchĆ© c’ĆØ anche il traffico locale. E quando hai superato quello che speravi fosse l’ultimo livello ecco la vera sfida finale, il parcheggio, perchĆ© oltre il traffico locale ci sono gli abitanti che usano l’auto anche per muoversi di un paio di isolati. E i parcheggi che lasciano per muoversi di un paio di isolati sono presi immediatamente dal traffico locale che era pronto, lƬ, in seconda fila. Per i ritardatari solo giri a vuoto. Poi tutti in marcia, con l’asciugamano sulla spalla, per fare il bagno con le navi mercantili che ti fanno ciao ciao al largo. E ogni volta mi chiedo il perchĆ© di tutto questo. PerchĆ© si sopporti la coda e un’accoglienza tra le peggiori del mondo per stendersi sul terriccio spacciato per sabbia, i piĆ¹ benestanti anche pagando profumatamente l’ingresso in stabilimenti con concessioni scandalose, per vedersi le navi mercantili che ti fanno ciao ciao davanti. Io ho deciso che non voglio fare piĆ¹ il bagno lƬ, e giĆ  ho smesso, e che non voglio andare mai piĆ¹, a questo ci sto lavorando. Intanto preparo il libro dei perchĆ©. Ho giĆ  pronta la copertina.

visto in tv

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Mi ĆØ capitato solo tre volte nella vita. La prima, ero in giacca, camicia e cravatta fresco fresco di un trenta in grammatica latina o giĆ¹ di lƬ, in fase post-adrenalina da esame superato alla stazione di Genova Principe. Ero in attesa del localissimo per tornare a casa e vantarmi del successo accademico con mamma e papĆ . Ingannavo l’attesa sfogliando distrattamente l’ultimo numero di Rockerilla, nella hall pre-ristrutturazione, probabilmente infastidito dalla voce metallica che, un tempo, era il costante sottofondo di chi aspettava pazientemente notizie sul binario di arrivo del proprio treno. La voce metallica, sƬ, chi abita a Genova sa di cosa sto parlando. Ma questo non ha importanza, ero lƬ tenuto d’occhio come al solito dalla Polizia Ferroviaria in borghese, agenti che si riconoscevano lontano un miglio per via del marsupio e delle camicie improbabili, io ero il sospetto a causa del mio capello lungo e ordinatamente trasandato, quando mi si avvicina il maschio di una coppia sulla cinquantina in attesa come me, e con fare discreto, guardandomi negli occhi attraverso un paio di lenti bifocali, mi approccia chiedendo: “Scusi se la disturbo, ne stavo parlando con mia moglie, ma lei per caso ĆØ Luca Barbareschi?“. Era il 92, non so che programma televisivo facesse il futuro parlamentare berlusfiniano. Mi schernii incredulo, l’agente Polfer seguƬ la scena pensando che il curioso fan fosse in realtĆ  un cliente della partita di droga che il suo fiuto investigativo immaginava nascosta chissĆ  dove nei meandri del mio corpo.

La seconda, non in ordine cronologico ma solo narrativo utile a lasciare il posto finale a quella che leggerete tra poco come climax di questo post, dicevo la seconda ĆØ di qualche anno fa. Era il tempo della prima stagione di X-Factor, e un gruppetto di studentesse del liceo di fronte al portone del mio ufficio, vuoi la distanza – loro erano alla finestra del secondo piano e io per strada -, vuoi per alcuni elementi effettivamente analoghi quali basette, mosca, capello sale e pepe, forma del viso, insomma una di loro mi chiamĆ² da lassĆ¹: “Morgan!“. Io mi voltai, piĆ¹ incuriosito per vedere dove fosse l’ex leader dei Bluvertigo e magari incontrarlo da vicino, che vittima consapevole di un equivoco da post-lettrici di Ragazza In. Fatto sta che le liceali presero la mia reazione come la prova della mia identitĆ  ed emisero un gridolino di giubilo, presto smorzato piĆ¹ dalla delusione che dai modi sbrigativi di una bidella curiosa quanto loro.

La terza, invece, ĆØ un episodio simpatico, vi sfido a provare il contrario. Su un inserto di Repubblica che si chiamava Musica, correva l’anno 1996, uscirono un paio di foto della band in cui esercitavo il mestiere di addetto a synth e campionatori, all’interno di uno speciale sulla nuova musica italiana dei tempi. E l’influenza del nostro manager fu tale che una di queste, a presentazione del servizio che era il principale di quel numero, fu stampata in copertina dell’inserto. Naturalmente ne comprai una dozzina di copie, una delle quali tenni aperta, in bella mostra, la mattina stessa recandomi in treno in sala prove. Il messaggio era chiaro: guardate tutti, quello lƬ non ĆØ che mi somiglia, sono proprio io. Si, sono in prima pagina di Musica di Repubblica. Ehm. Probabilmente la foto era davvero piccola, fare notare la coincidenza ai passeggeri intorno era troppo per la mia riservatezza. Nemmeno lo studente a fianco che mi chiese se poteva dare un’occhiata se ne accorse. Solo mio cugino, qualche giorno dopo, mi chiamĆ² per congratularsi. Beh, dai, avrei potuto mentire e inventare un finale diverso, almeno questo me lo riconoscerete no? E va bene. Mi ĆØ capitato solo due volte nella vita. E mezza.

i principii dei poveri

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Non guardo la tv perchĆ© non mi va di essere bombardato di spot. Per lo stesso motivo impongo, quasi sempre senza essere ascoltato, il diktat ai miei congiunti. Con mia figlia, che ha accesso solo a un paio di canali per bambini del digitale terrestre, il compromesso ĆØ che a ogni interruzione per i consigli per gli acquisti deve cambiare canale. PerchĆ© ĆØ piĆ¹ facile essere poveri se non si guarda la pubblicitĆ , in un momento in cui i parametri di scarsa agiatezza sono piuttosto flessibili, ultimamente sempre piĆ¹ aleatori. Le code in cui ci si imbatte in ogni fine settimana da e verso Milano danno una scarsa percezione del potere d’acquisto della classe media. Stesso discorso per l’elevata percentuale, non vorrei esagerare ma almeno uno su due, di persone che si trastullano con cellulari da centinaia di euro in mano al mio fianco sul treno dei pendolari. E mentre stavo acquistando il mio nuovo telefonino, un innovativo modello che oltre a telefonare consente di inviare messaggi sms ad altri, del costo di 5 euro – unico motivo che mi ha convinto a cambiare il mio vecchio Nokia solo perchĆ© a seconda di come lo posizionavo si spostava la SIM e dovevo intervenire manualmente – la coppia servita al mio fianco da un altro commesso del negozio contemplava in fibrillazione la procedura di attivazione dei loro iPhone nuovi fiammanti, uno a testa, che si stavano regalando per l’anniversario di fidanzamento. Entrambi sulla trentina, italiano lui (ha scelto il modello nero) e caraibica lei (ha scelto il modello bianco), mezzo titolo di studio in due, con in mano un rotolone di pezzi da cinquecento (euro) per portare a termine quell’accordo commerciale, ansiosi di inaugurare la multicanalitĆ  delle loro conversazioni a distanza con chissĆ  quali contenuti, multimediali e non. Ammetto che ĆØ ancora piĆ¹ facile essere poveri se non si esce di casa.

metro-politan

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Milano, linea rossa, direzione Duomo. Non ĆØ l’ora di punta, si trova ancora qualche posto a sedere; il tragitto, una decina di fermate in tutto, non ĆØ brevissimo, posso dedicarmi al mio libro, l’ennesima storia di squallore nella provincia statunitense. La temperatura ĆØ torrida, l’aria ai limiti della respirabilitĆ , il sedile bolle sotto il mio abito poco indicato alla stagione. Si chiudono le porte alla stazione successiva a quella in cui sono salito io, ormai sono in trance, immerso nella lettura. Il convoglio riparte, e sento che c’ĆØ qualcosa che mi disturba, come un’interferenza che mi riporta alla realtĆ . Qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. L’intrattenimento musicale sotterraneo ĆØ una forma espressiva piuttosto comune, un trend in crescita, se cosƬ lo si puĆ² definire, multiculturale e trasversale. In taluni casi rasenta il meltin’ pot, capita infatti di assistere a esecuzioni di brani della peggio tradizione melodica italiana, o sole mio, per fare un esempio, per violino solo con ghirigori e abbellimenti esotici. Il risultato non ĆØ male. Ma, per dirla tutta, la maggior parte delle volte la tecnica dei strumentisti non ĆØ granchĆ©, oggettivamente. Capisco che l’intento di questi spettacoli itineranti sia la massima resa con il minimo sforzo, suonare Paganini per otto ore nella ressa di folla che si sposta sottoterra potrebbe essere impegnativo. E io mi sono imposto di versare un obolo – non piĆ¹ di un euro, duemila lire, non dimentichiamolo – solo se la qualitĆ , la tecnica, l’estro, la fantasia vanno oltre l’improvvisazione free jazz (la categoria che mi sembra piĆ¹ attinente) per strumenti ad arco o melodica a bocca.

Dicevo, qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. E l’interferenza cattura la mia attenzione perchĆ© ciĆ² che percepisco ĆØ piuttosto distante dalla cultura gitana cui siamo avvezzi. Alzo lo sguardo dal mio libro e noto un uomo sulla settantina, forse meno, molto distinto, in camicia a maniche corte di lino bianca dentro un pantalone jeans cartonato tipico da persona agĆ©e e mocassini. Capelli corti bianchi e barba rasata di fresco. Con la mano sinistra si regge all’apposito sostegno verticale, la destra ĆØ stretta in un pugno a tenere un invisibile microfono rivolto verso la bocca. Ha il capo leggermente chino e gli occhi socchiusi, una perfetta interpretazione di quello che sta cantando: “Strangers in the night exchanging glances, wondering in the night what were the chances, we’d be sharing love, before the night was through“. Leggo un po’ di imbarazzo nei volti delle persone che stanno condividendo con me l’esibizione di quel crooner della Martesana, nessuno potrĆ  negare una mancia di fronte a cotanta miseria urbana. Ecco l’ennesimo pensionato che non arriva a fine mese, che prova ad arrontondare mettendo sotto i piedi (e sotto terra) la propria dignitĆ  facendo quello che sa fare, cercando di vendere alla bontĆ  del prossimo il suo orgoglio e piuttosto che chiedere l’elemosina fuori dal supermercato di quartiere perlomeno di impegna a guadagnarsi onestamente un pasto. Questo ĆØ il domino di banalitĆ  che assumono le sembianze di punto interrogativo sopra la mia testa e si uniscono al pensiero unico che si va formando piĆ¹ o meno all’altezza della fermata di Loreto. Io scendo tra due, metto mano al portafogli ed estraggo il mio gettone da un euro (duemila lire, non dimentichiamolo mai). Ma a Loreto il convoglio si ferma, si aprono le porte e il nostro Frank Sinatra esce, continuando la strofa dello slow con cui ci stava dilettando senza chiedere nulla. Il convoglio riparte, lo vedo dal finestrino infilare la scala mobile, non lo sento piĆ¹ ma osservo le sue labbra intente nell’allungare la vocale dell’ultimo verso, accompagnato da un ispirato e languido movimento del capo. Sorrido al mio vicino di posto, che non ricambia, ripongo il libro in borsa, rimetto l’euro in tasca e mi appresto a scendere, fischiettando il refrain di Strangers in the night.

it’s not time to make a change

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A scuola finita, la mattina inizia in modo meno concitato. C’ĆØ addirittura il tempo di sedersi sul letto, a fianco di mia figlia, e osservarla qualche minuto prima di svegliarla, ancora vulnerabile nei suoi sette anni, ancora bambina mentre il resto del mondo lĆ  fuori fa di tutto per farla crescere piĆ¹ fretta. Sporadicamente ancora con il dito in bocca, oggi poi con il pigiama del suo eroe, Charlie Brown, cerco di isolare quei pochi momenti prima che la sveglia faccia ripartire il tempo, il tempo la faccia crescere, la crescita la faccia diventare grande. E io e mia moglie, di conseguenza, piĆ¹ vecchi. Non c’ĆØ il manuale operatore per il programma “Cresci la tua prole”, ma posso confermare che, tra alti e bassi, finora ce la siamo cavata in modo dignitoso. Almeno, noi siamo soddisfatti.

Attenzione perĆ² a non utilizzare le competenze acquisite all’esterno, applicare cioĆØ metri di giudizio ad altri contesti famigliari, perchĆ© fare il genitore ĆØ una qualifica professionale del tutto soggettiva. Se tentiamo di implementare le procedure che a casa propria funzionano alla grande altrove, sarĆ  facile riempirsi di boria. Se poi le compariamo con chi ha compilato il codice della nostra vita, chi ha messo in produzione noi stessi nella release 1.0, la boria lascia il posto a un sentimento che la buona creanza ci impedirebbe di provare per i propri genitori. Soprattutto perchĆ© ĆØ difficile prevedere per quanti anni lo saranno ancora, e non ci va di sprecare il tempo con il risentimento. Ma, a volte, e parlo per me, vengo messo a dura, durissima prova.

Ieri sera mia mamma (74) al telefono mi racconta che lei e mio papĆ  (82) sono in procinto di cambiare la cucina. E non essendo del tutto autosufficienti, hanno contattato il negozio presso cui avevano comprato 35 anni fa la cucina che hanno avuto finora e che, secondo lei, non ĆØ piĆ¹ in condizioni accettabili. Hai voglia a dirle che nel frattempo il mercato, la tecnologia e prezzi sono cambiati, che esiste l’Ikea, che posso occuparmi io della pre-selezione, farle avere un po’ di preventivi. Nella loro testardaggine di liguri (anomali, perchĆ© scialacquano senza ritegno) anziani mediamente poveri e molto semplici non se ne parla, si fidano del rivenditore (che nel frattempo ĆØ il figlio di quello a cui si erano rivolti) a cui probabilmente ĆØ comparso un bel simbolo del dollaro sopra le pupille appena compreso la portata dell’affare. PerchĆ© ci sono Ā rubinetti e Rubinetti, maniglie e Maniglie, marche e Marche. Insomma, e prometto che appena questo blog supererĆ  una certa soglia di contatti non racconterĆ² piĆ¹ urbi et orbi i cazzi miei, quello che potrebbe costituire una base economica di supporto per l’universitĆ  di mia figlia, per esempio, finirĆ  nelle tasche di un mobiliere del basso Piemonte, in cambio di una cucina da enne (a due cifre) mila euro. Ora, sappiate che l’obiettivo principale mio e di mia moglie ĆØ quello di fare di tutto per agevolare il futuro della nostra creatura, come secondo noi ĆØ giusto che sia, mettendo da parte quanto possibile. Questione di punti di vista?

Mentre penso a tutto questo, mia figlia apre gli occhi e si stiracchia nel suo pigiama di Charlie Brown. E con una punta di presunzione, ma solo una punta eh, penso che sia una bimba molto fortunata.

l’ora delle decisioni irrevocabili

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Non puoi pretendere da una folla esasperata di mantenere la calma. E guarda, non sto parlando di quanto successo prima della guerra, che giĆ  lƬ ci sarebbe materiale per mandare in bestia chiunque. Il punto ĆØ che tra il 43 e il 45 era tutto molto, ma molto piĆ¹ complicato. Chi stava di qui o di lĆ  rischiava la vita. Sempre. Poi c’erano tante, troppe persone che stavano in mezzo ad aspettare. Ma chi si sbilanciava, magari anche a fin di bene, per sopravvivere, perchĆ© minacciato, faceva rischiare la vita agli altri. E non c’era modo di perdonare. CosƬ qualche giorno dopo il 25 aprile, lo hanno preso a casa sua. Era il barbiere del paese, andavo da lui quando il mio vicino, che me li tagliava gratis, non poteva. Sono andati in gruppo e armati. Il barbiere aveva fatto arrestare un po’ di gente, e a causa delle sue delazioni alcuni ci avevano rimesso la pelle. Subito o in Germania. Aveva potuto decidere di farlo, e l’aveva fatto.Ā Lo hanno preso, e da casa sua, a calci nel sedere e schiaffi, in mezzo alla folla esasperata, tra chi aveva visto uccidere i propri cari dai fascisti e chi morbosamente era incuriosito dalla scena, lo hanno spinto verso il cimitero. Non ricordo se sia arrivato lƬ ancora vivo, o in che condizioni. Ma a quel punto la condanna ĆØ stata eseguita a mitragliate. Era la guerra, non era ancora finita, e ci sarebbe stato ancora qualche strascico, almeno per i successivi sessant’anni. Non puoi pretendere da una folla esasperata di mantenere la calma.

le famiglie degli altri

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Oggi, l’ultimo giorno di seconda elementare di mia figlia, mi vede reduce un po’ affaticato da un trittico di romanzi su saghe famigliari made in USA. Un totale di 1500 pagine circa, a quantificare la letteratura al chilo, per un viaggio nelle vicende altrui iniziato con Pastorale americana di Roth, da cui sono approdato a LibertĆ  di Franzen per arrivare al meno conosciuto, ma non meno intenso (una qualitĆ  della narrativa la cui accezione non sempre ĆØ positiva) La condizione, di Jennifer Haigh. La sensazione ĆØ quella di aver passato tanto tempo fuori casa, almeno un paio di mesi, immerso in drammi e soluzioni degli stessi in un viaggio su una limousine narrativa (brillante e appropriata metafora di Ipazia sognatrice), comunque scomoda e affaticante sulle lunghe distanze.

Ieri, mi si permetta un finalmente, ho chiuso l’ultimo capitolo di questo tour letterario peraltro casuale – leggo i libri a seconda di quando scatta il mio turno nelle prenotazioni in biblioteca – seduto nella platea di un teatro comunale, pronto a gustarmiĀ il piccolo saggio conclusivo di un laboratorio teatrale organizzato per le tre classi seconde dell’istituto scolastico in cui ĆØ iscritta mia figlia. La sala era gremita di nuclei famigliari, ciascuno con le proprie trame da romanzo, tragiche o grottesche, molto spesso a lieto fine. Genitori separati e supporter fino al terzo grado di parentela, padri dal passato burrascoso e madri lavoratrici tuttofare multipresenti.

E un padre, lƬ in mezzo, accaldato in giacca e camicia, che prima che si spegnessero le luci ripensava a una mattina di molti molti anni prima in cui, con un grembiule nero e un fiocco blu, aspettava irrequieto che la mamma finisse di pettinarlo per andare a scuola, era il giorno dell’esame che un tempo i bimbi sostenevano al termine del primo biennio delle elementari. “Come sei cresciuto, hai giĆ  finito la seconda” disse quella mamma, oggi nonna settantaquattrenne, co-protagonista di una saga famigliare dai risvolti tragici e grotteschi che difficilmente sarĆ  a lieto fine. Si ĆØ compiuto un ciclo, se ne compirĆ  un altro.

tracce di sƩ

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Tanto tanto tempo fa, quando la dematerializzazione poteva sembrare una disciplina tratta dalla trilogia della fondazione di Asimov e i computer, nell’immaginario collettivo, avevano le sembianze degli astrusi congegni animati nella sigla del professor Balthazar, il trasferimento di informazioni tra fonti analogiche avveniva per forza di cose in tempo reale. In parole povere, se un amico ti chiedeva di registrargli Supper’s Ready dei Genesis, non c’era copia e incolla che tenesse. Il processo durava tutti iĀ 22:58 della durata del brano (non che non facesse piacere riascoltarlo per l’ennesima volta), e un paio di secondi dopo la fine, onde evitare la registrazione del fruscio del vinile, dei solchi vuoti e del rumore la puntina a fine disco sulla cassetta, occorreva star lƬ pronti a premere il tasto pause del registratore.

Riversare un intero 33 giri su nastro era un segno di amicizia. La creazione di una compilation era invece una vera e propria prova d’amore. Promettere a una fidanzata o, meglio, a una prospect, anche solo una C60 con la colonna sonora della propria vita, una sorta di curriculum esistenziale in canzoni sparse, volto a fare breccia nel cuore dell’oggetto dei desideri, era molto piĆ¹ di un impegno. PerchĆ© l’attivitĆ  poteva anche occupare un pomeriggio intero, e nella maggior parte dei casi si trattava di un sacrificio non richiesto, uno spreco di tempo il cui prodotto finiva, mai ascoltato, nell’oblio di un cassetto del comĆ², pronto a essere mostrato con imbarazzo solo in caso di richiesta dell’amica del cuore o destinato al riciclo – ancora peggio – per ospitare il nuovo disco dell’Eros Ramazzotti di turno. Fermo restando che con una che ascolta Eros Ramazzotti non mi ci sarei mai messo (e viceversa, anzi piĆ¹ realistico il viceversa).

La C90 era piĆ¹ vincolante di un anello con diamante, le C120 invece fuori gara: c’era il rischio di rovinare le testine e nessuno avrebbe anteposto una donna all’incolumitĆ  del proprio impianto stereo domestico. Ma anche solo una C45 implicava una serie di lavorazioni di tutto rispetto. Primo: la scelta dei brani e la scaletta. Cercare e radunare tutti i dischi, fare una cernita delle canzoni, sommare la durata complessiva, quali tracce escludere, valutarne l’impatto, equilibrare atmosfere, bpm e silenzi, dice piĆ¹ cose di me questo o quell’altro pezzo e cosƬ via. Alcuni, per puntare al massimo del risultato, baravano e mettevano le canzoni che sapevano piacere alla persona su cui fare colpo, vendendo l’anima al profitto. Questo si chiama marketing, ma per i puristi non era da prendere nemmeno in considerazione. Una storia d’amore non poteva certo iniziare sulla finzione, l’onestĆ  intellettuale imponeva che i brani fossero scelti secondo il proprio vissuto e di tracciare un profilo il piĆ¹ adiacente possibile alla propria sensibilitĆ . Fare sƬ che la persona bramata potesse sospirare nella solitudine della cameretta, mentre traccia dopo tracciaĀ si schiudeva la porta del cuore e si creavano i presupposti per un tragitto senza possibilitĆ  di ritorno. Come si chiama questo pezzo? E chi lo canta? Per questo era decisiva anche la copertina: i meno estrosi sfruttavano le righe e il dorso della label, il cheĀ consentiva l’archiviazione categorizzata, se non omogenea per marca, della cassetta. Rischioso, ma di sicuro effetto, il booklet autoprodotto e la scelta di un titolo creativo con cui sintetizzare lo spirito della compilation, da disegnare e colorare sul lato esterno con i titoli delle tracce, utilizzando cosƬ la parte interna per un messaggio personalizzato, rendendo il prodotto ancora piĆ¹ efficace. Ora, sarĆ² esagerato, ma ditemi: spostare giga di file mp3 da un hd a un altro ĆØ altrettanto romantico?

chilometri di giudizio

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Alla festa della scuola, i genitori si incrociano mentre i bimbi giocano, ed ĆØ naturale incontrare, conoscere, chiacchierare di tutto. Un ritorno al mondo reale, in cui i collaterals non sono nemmeno presi in considerazione perchĆ© talvolta mancano persino gli elementi base. Il lavoro, la casa, la serenitĆ  familiare: il primo livello. Accompagnare i figli a pallavolo, o il costo della scuola di musica: il secondo livello, e cosƬ via. La mia dimensione, in cui il massimo della difficoltĆ  ĆØ rappresentato da una errata configurazione di iTunes su XP a causa della quale il mio pc non riconosce l’ipod nano, non ĆØ nemmeno presa in considerazione. E ieri ho scoperto il livello zero. M., 40 anni, viene dalla Croazia ed ĆØ qui dal 92, quando grazie a un lavoro ĆØ riuscito a scappare dalla sua cittĆ  natale, Rijeka, dopo 2 anni di guerra al fronte. La guerra, in divisa e con un’arma in mano. Quindi esistono persone che hanno combattuto contro altri eserciti, hanno rischiato di morire, magari hanno ucciso, ed ĆØ possibile conoscerle. Non sono entrato nei dettagli, un po’ non mi sembrava corretto, un po’ ne avevo paura. A sera sono tornato a casa, e dopo aver smanettato un po’, ho sistemato l’errore di configurazione di iTunes, ho connesso l’ipod e il mio pc lo ha riconosciuto.