isolazionismo

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Non c’è nulla come questo posto, quello da cui sto scrivendo qualche ora prima di prendere la nave per tornare a casa, che mi dia l’idea della vacanza. Nulla. E mi dispiace non poco farmi sentire dai nativi di questo posto, vittime di una delle tante diaspore di cui la storia d’Italia è piena, migrazioni nazionali, internazionali e intercontinentali che hanno portato gli abitanti di questo posto un po’ ovunque nel mondo, e adesso che quasi per un principio di Archimede una eguale massa di gente viene qui perché laggiù, ovunque laggiù sia, non ci sono più sufficienti risorse, e loro non immaginano che non ce ne sono per tutti nemmeno qui, ma qui arrivano lo stesso e noi non solo non siamo pronti ma nemmeno vorremmo esserlo.

Dicevo, mi dispiace perché magari loro, i nativi che da qui sono stati costretti ad allontanarsi, vorrebbero che questo fosse considerato non solo un posto di vacanza, un paese dei bengodi in cui da tutto il mondo si viene a spendere il budget familiare dedicato alle ferie, ma anche, che so, un luogo di lavoro, un terreno per l’imprenditorialità sana, una regione normale tra regioni che normali certo non sono.

E scusatemi ancora, autoctoni, ma questo è il posto di mare più bello del pianeta, e mi dispiace per gli altri. Anche perché qui c’è un fattore decisivo che fa la differenza. Intendo dire che mi dispiace per le altre regioni e altre aree del nostro Paese di mare votate al turismo, ma che da sempre sembrano incompiute. Voglio dire, c’è chi proprio per l’accoglienza non è portato, storce il naso per il turismo del weekend e si lamenta se gli tagliano i ponti, e poi è pronto a rifilarti a caro prezzo stanze vergognose arredate con i mobili della nonna perché comunque è il posto in riva al mare più vicino. Che poi vi sfido a trovare un metro quadro di spiaggia libera, tra stabilimenti balneari affidati a gestori con concessioni vergognose che occupano da intere dinastie tutto il litorale, o almeno quello che ne rimane tra un sito industriale desueto e arrugginito ma rimasto lì, un’autostrada che ti passa sulla testa e un campeggio con i bungalow allestiti anche sugli scogli.

Ci sono altri lidi, dove però non sei mai a tuo agio, c’è il parcheggiatore abusivo, la casa volutamente incompleta a ridosso del bagnasciuga, le informazioni turistiche che smerciano materiale vecchio di dieci anni solo perché sono state stampate troppe brochure nel 2003 e poi è successo che sono finiti i soldi, gli scontrini fiscali questi sconosciuti, il conto preparato sul mini bloc notes a quadretti della prima elementare. Posti dove vai a visitare la riserva naturale taldeitali, lasci l’auto nel parcheggio e quando torni il vetro è rotto e la valigia non c’è più. Anche l’auto a fianco, targata Olanda, ha subito lo stesso trattamento. Ecco il migliore spot per chi vorrebbe tornare a essere una perla dell’accoglienza europea. Sì, lo so, un aneddoto non fa testo. Ed evito di soffermarmi sulle riviere con il mare marrone. Organizzatissime, per carità. Ma il mare marrone proprio no.

E lasciatemi dire, qui è tutto incantevole e ti senti ovunque a tuo agio, magari non proprio ovunque, ci sono aree colonizzate da tempo dal peggio del peggio della nostra società, baie presidiate da ferri da stiro galleggianti su cui risplendono labbra rifatte e pettorali depilati. Ma si tratta di una piccola parte di questo posto, e se fai finta che quella piccola parte sintetica non esista, tutto il resto non perde di un grammo il suo valore. Mare, cultura, aria, natura, cibo, tutto. E soprattutto qui, dicevo, c’è un fattore decisivo che fa la differenza: i sardi.

p.s. facciamo finta però che l’affaire Soru non sia mai accaduto.

se vale la candela

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Ebbene si, lo confesso: ho provato l’ebbrezza del branco. Tutto è nato così, un po’ per caso, succede quando sei in un gruppo di persone e sorge quello stato d’animo che è un insieme di compiacimento tra pari, campanilismo e desiderio di sfogare la difficoltà nell’imporsi attraverso la logica dell’unione fa la forza, il tutto applicato a un piano tutto sommato diabolico. Perché sei lì con la mente fresca e libera dal logorio del lavoro e della routine, quindi lasci spazio a stimoli viscerali che altrimenti le convenzioni sociali relegano magari non proprio al basso ventre ma comunque a livelli infimi della tua natura. Che non è una natura competitiva, anzi, vivi forte dell’orgoglio di distinguere il momento in cui è opportuno farsi da parte, tu che tra la gioia della vittoria e l’amarezza della sconfitta preferisci continuare a non partecipare. E così, per una volta, quando vedi che effettivamente con il lavoro di squadra è possibile emergere o addirittura primeggiare, il tuo equilibrio va a quel paese e il passo verso il tirarsela e il bullarsi è breve.

L’uomo dà il peggio di sé quando è in branco, e quando il branco in cui si riconosce è coinvolto in una specie di concorso nel luogo in cui sta consumando le vacanze estive. Il concorso è una sorta di trivial pursuit, domande di varie discipline su livelli di difficoltà crescenti, da quello base ai quesiti molto complessi. C’è un maestro di cerimonie, un presentatore lì davanti, un simil-fiorello che spiega le regole e le modalità. Noi ci si dà uno sguardo complice, diamo anche un’occhiata agli altri gruppi che ci stanno intorno e che hanno deciso di mettersi in gioco; perché no, ci diciamo, e uno del branco si fa consegnare il diabolico strumento per dare le risposte. Un telecomando con cinque pulsanti, occorre premere quello corrispondente alla risposta esatta e nel minor tempo possibile. A quel punto siamo nel momento ludico, ma il momento ludico si trasforma subito in gara, e la gara in desiderio di vittoria a tutti i costi. Perché il primo premio comprende un sacco a pelo, e il sacco a pelo è la cosa più preziosa che un campeggiatore può possedere.

In tutto partecipano una trentina di squadre, ma noi siamo determinatissimi e cattivi. Che pessimo esempio per i bambini, i nostri figli, gli stessi ai quali insegniamo, durante i restanti mesi dell’anno, a non essere egoisti, a rispettare il prossimo, alla sconfitta come frutto inevitabile da assaporare prima o poi, al fair play. Mentre ora siamo lì, con quello strumento in pugno e stiamo dando il peggio di noi stessi. Già, man mano che il gioco procede, il nostro punteggio aumenta, diamo sempre la risposta corretta in tempi sufficientemente brevi. Dileggiamo gli avversari. Ci diciamo che contro squadre così dobbiamo vincere a tutti i costi. Viene a galla il senso di superiorità. Facciamo nostre le domande più difficili, geografia, storia, letteratura, e cadiamo solo sugli argomenti su cui siamo poco informati, la nazionalità di Sissoko, il protagonista della fiction dell’odiata Mediaset.

La boria aumenta, la vittoria è vicina, uno di noi dice che dobbiamo assolutamente farcela. E quando il count down della classifica finale svela il nostro numero identificativo confermato alla prima posizione, esultiamo come i peggiori individui, quelli che la nostra presunta superiorità morale ci impone di mettere all’indice in tutte le altre occasioni e che, chiusa questa parentesi aperta per necessità, la necessità del sacco a pelo nuovo di pacca, tornerà a farci lanciare anatemi e condanne su chi parcheggia in doppia fila, su chi si riempie di tatuaggi, su chi si compra il macchinone e via dicendo. Il capo branco ritira i premi, c’è anche una sedia da spiaggia, tutta rossa con la bandiera della Sardegna, e a colpi di cinque e di pacche sulle spalle rientriamo in tenda. Mia figlia mi tiene per mano, tutta contenta, ed ecco che mi vergogno un po’, perché mi sento snaturato di fronte a lei. Papà, mi dice, papà sono felice perché è la prima volta nella mia vita che vinco un premio. Anche io tesoro, le dico, anche io.

suvvia

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Io poi questa cosa delle automobili proprio non l’ho mai capita. Cioè, capisco che l’uomo abbia un enorme attaccamento innato al proprio mezzo di trasporto, e penso all’uomo e al suo cavallo, al suo asino, l’animale che gli allevia la fatica del lavoro ma soprattutto dello spostamento fisico, l’animale che gli permette di macinare chilometri senza sforzo. Perché la velocità in fondo è potere, l’idea dromocratica che controllare fisicamente posti distanti sia in qualche modo affermazione e presenza sul territorio, la condizione più prossima all’ubiquità, il sogno dell’umanità intera vecchio quanto il genere umano stesso. E chiaramente maggiore è la velocità, più elevato è il potere di sorveglianza. La visione del chi tardi arriva male alloggia, appropriarsi per primi sugli altri, chi lo sa. O comunque, se il tempo è denaro, meno ne perdi per gli spostamenti meglio è.

Se sei ricco ti puoi permettere il mezzo più potente, il cavallo o l’automobile più veloce. In più c’è il fattore apparentemente identificato con la sicurezza. Cioè se oltre ad andare il più veloce possibile l’automobile mi garantisce la minore possibilità di rischio, tanto meglio. Il che si traduceva in prestanza fisica del cavallo, probabilmente, e oggi è reso con la robustezza e le dimensioni stesse del veicolo. Anche il confort, chiaro, gli optional, la sella e l’abitacolo. E la maneggevolezza, più facile da cavalcare o da guidare, ma se un tempo dovevi essere sufficientemente abile a domare un animale, oggi la forza non conta più, grazie al servosterzo, suppongo. Chiunque può possedere un Suv, sempre che se lo possa permettere, ovviamente. Anzi. E se il mezzo di trasporto fosse il completamento dell’individuo, l’ennesimo avercelo più grosso possibile. Più grosso non significa solo abbastanza imponente da spaventare gli altri. Ma si intende anche occupare più metri quadri possibili dinamicamente, nello spazio mentre si è in movimento. Mi sposto ma fai attenzione, guarda che sono sempre ingombrante, guarda che ho costantemente bisogno di questo territorio intorno sia che mi trovi qui, o lì, o laggiù.

Ma c’è un problema, proprio legato all’ingombro. Vi è capitato di vedere affiancate due automobili, una moderna e una di qualche tempo fa? E non mi riferisco a un Suv che sorpassa una bianchina, ma basta solo un’auto qualsiasi di quelle alla portata di tutti, una monovolume come la mia uovomobile parcheggiata vicino a una Fiat Uno, per esempio. C’è almeno un metro quadrato di superficie in più occupata. Se lo moltiplichi per il numero di automobili in circolazione, che magari dal tempo delle Fiat Uno è – boh – diciamo quadruplicato? Decuplicato? Prendi tutte queste auto e disponile insieme, una dopo l’altra, su questa autostrada, anche su tutte e tre le corsie che magari ai tempi delle Fiat Uno ce n’erano solo due. In più, aggiungici la variabile dei trasporti commerciali provenienti dall’est, persone con i loro tir che ai tempi della Fiat Uno non li lasciavano nemmeno uscire dal loro Paese, figurati dal patto di Varsavia, tantomeno per trasportare cose e merci nel cuore di Babylon.

Voglio dire, fa prestissimo a crearsi una coda costante e fastidiosa sul tragitto che devi compiere, lo stesso di cui io e la mia uovomobile siamo un piccolo trattino, l’anello più povero probabilmente di una catena di mezzi di trasporto euroquattro o eurocinque o eurovattelapesca. Una distesa di lamiere di lusso arroventate, il popolo dei cavalieri che portano chissà dove, con le loro scatolette di latta per le quali si sono magari indebitati, i loro cari prendendosene allo stesso tempo cura. Eccoli, i cavalieri con le loro macchinette aziendali da trenta o quarantamila euro che usano anche per andare in vacanza, tanto poi si consegna la scheda carburante al commercialista perché c’è un uso in percentuale promiscuo, si può scaricare. Si può scaricare. Ecco, anche questa cosa qui delle automobili io non l’ho mai capita.

ragazzi immagine

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C’è una coppia di belloni da programma di Maria De Filippi tendenti al Lele Mora, usciti freschi freschi dal centro estetico per l’ultimo ritocco prima di mettere in moto la Smart e partire per le vacanze. Li ho notati a cena, nel ristorante pizzeria del campeggio. Lui ha le sopracciglia che sembrano disegnate e i contorni degli occhi nero scuro come i disegni dei Fantagenitori. Il resto sembra scolpito e nulla del suo look è lasciato al caso. Lei ha la pettinatura che hanno tutte le ragazze in tv e il seno palesemente rifatto, lo si evince dal fatto che tende verso l’alto e sfida le leggi di gravità come le azioni dei pallavolisti o dei calciatori dei cartoni animati giapponesi, che per portare a termine una schiacciata o una rovesciata impiegano metà episodio. Voglio dire, si muove per prendere l’olio o per estrarre l’iphone dalla borsa e lui, il seno, resta sempre lì al suo posto semiscoperto sotto la canottierina attillata. Una supposizione confermata il giorno successivo, sotto l’ombrellone. Anzi, fuori dall’ombrellone, sotto il sole nelle ore più calde e fanculo ai pericoli dell’esposizione ai raggi solari, l’importante è tendere al colore che hanno quelle persone che dovrebbero però tenersi quel colore a casa propria. La cute di lui non si differenzia molto da quella di lei, non hanno un pelo nemmeno a cercarlo. Chiaro, i tatuaggi sono diversi.

E quando il sole cala dietro la pineta a ridosso della spiaggia, lui tira fuori dal borsello una reflex da qualche mila euro, equipaggiata con tanto di obiettivi, e inizia a fotografare lei, il mare rosa sullo sfondo che si confonde con il cielo, la sabbia color sabbia. Prima in costume, solleva le gambe, ecco cerca di contrarre le cosce, sdraiati e avvicina le ginocchia al petto, no dai che mi riempio di sabbia il costume, dai poi facciamo la doccia insieme, ih ih ih. Ora metti il pareo, mettiti di profilo e chinati leggermente in avanti, ora proviamo senza pezzo di sopra e con il pareo. Insieme osservano con attenzione il primo take, questi si, hei guarda come sei rimasta bene qui, no questa no dai guarda come ho tenuto la pancia, cancellala, la cancello poi da pc, no dai cancellala subito per favore. Poi lui cambia l’obiettivo e scatta un po’ di primi piani, aspetta allora che mi trucco, no dai proviamo così al naturale, ma scherzi, almeno fammi controllare come sono i capelli. Dai che sei bellissima. Si vede che lui la ama, almeno quanto se stesso. Vi prego, però, astenetevi dal procreare.

esterofilia canaglia

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Nella piazzola qui a fianco, al posto dei torinesi con la tv e i figli con gli asciugamani di Ben 10, è arrivata una famiglia di tedeschi. Madre e padre hanno la mia età, grosso modo. Lui è in formissima, e in quattro e quattr’otto ha messo in piedi un vero e proprio campo da bivacco super-attrezzato completo di gazebo di ogni tipo e amaca. La mamma, malgrado le cinque gravidanze, è un fuscello. Già, cinque figli. Con sè ne hanno quattro, tra i dodici e il più piccolo che ha poco più di un anno, inutile sottolineare che è già autonomo e sa indossare correttamente nel giusto verso il costumino da bagno. Poco più in là c’è il figlio mancante, sui diciott’anni con un Wolkswagen Transporter tutto suo e la tenda montata a fianco, viaggia con la fidanzata ma ha comunque scelto il campeggio con i genitori e il resto della famiglia.

Alle sette del mattino il padre e una delle figlie sono sulla sdraio a godersi l’alba, entrambi abbiamo la piazzola fronte mare. Quindi rientra nel camper, dal cui ventre estrae un kit per l’allestimento di un campo regolamentare da pallavolo. Pali componibili dotati di tiranti per la perfetta messa in verticale, rete, nastro da fissare sulla sabbia per delimitare l’area di gioco. Poco dopo è tutto pronto e arriva uno dei figli piccoli, si mettono a giocare e si vede anche da qui che devono essere giocatori praticanti, voglio dire il bambino batte già da sopra (la palla è quella rigida) e schiaccia che quasi non riesce a prenderle nemmeno il papà. Si divertono alla grande, e penso chissà se il campo sarà a disposizione del resto del campeggio. Non a caso, cessate le ore più calde della giornata, i nostri nuovi vicini coinvolgono altri campeggiatori sulla spiaggia e organizzano un mega torneo di beach volley a squadre. Durante ogni incontro tutti gli altri, giuro che ci saranno una trentina di persone tra adulti e ragazzi, siedono ai bordi del campo in attesa del loro turno e seguono la partita, applaudendo e facendo il tifo. Tra i giocatori ci sono anche il figlio maggiore con la fidanzata, appena rientrati da una giornata di cicloturismo dedicato alla visita dei nuraghe della zona.

Al termine del torneo, tutti insieme smontano la rete e la ripongono ordinatamente nel contenitore, probabilmente non la si può lasciare montata di notte, e la famiglia tedesca rientra nel camper, per la doccia e la cena, alla fine della quale il padre ha estratto un enorme telo bianco e lo ha appeso sulla corda tesa tra gli alberi che delimitano le nostre piazzole. Forse si è sentito osservato.

due volte saluti

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Le gradinate dell’area spettacoli del campeggio sono ancora gremite. Ma anche quest’anno la stagione gradualmente volge al termine, è un dato di fatto che emerge anche dal rendimento degli animatori, ogni sera che passa sempre meno attenti nel suggerire i passi giusti nei balli di gruppo. Come biasimarli, così professionali in un lavoro del quale sfuggono i contorni, perché li vedi sempre all’opera, dall’acqua gym della mattina all’intrattenimento serale, passando per tutta la serie di attività dedicate ai più piccoli. La differenza tra il campeggio e il villaggio turistico in Italia è sempre più labile, da questo punto di vista, tanto da consentire a chi usufruisce dei numerosi pacchetti all inclusive argomenti fondati per commenti maligni sull’unica differenza vera, il prezzo; ma è vero che il campeggio è il villaggio vacanze dei poveri? Tsk.

Noi campeggiatori sappiamo benissimo non essere così, diamine, c’è un abisso che separa le due correnti di pensiero. Poi è chiaro che una piazzola e preparare pasti così così su fornelli al riparo dal vento costa molto meno rispetto alla paccottiglia disponibile presso i vari club in riva al mare, almeno io non potrei permettermelo, ma nella nostra superiorità morale che ci arroghiamo e che ci avvicina, solo in questo frangente, alle più sobrie popolazioni europee sappiamo – il soggetto è noi rudi campeggiatori – che solo i dolori della schiena che riposa quasi sulla nuda e umida terra danno il vero senso della vacanza, sanciscono la reale rottura con la routine degli altri mesi dell’anno, fatta di materassi ortopedici e di bidet la cui mancanza genera idealizzazioni a veri e propri oggetto di culto. Ma è indubbio che c’è qualcosa che sta cambiando, e non si tratta di un aspetto che poggia su motivi infondati. I gestori dei campeggi italiani pensano, giustamente, che anche i figli dei turisti meno abbienti come me abbiano serie difficoltà nel divertirsi con il gioco destrutturato, dopo aver trascorso il resto dei mesi dell’anno ingabbiati in agende serrate costellate di impegni e parcheggi vari. Eh, bella scoperta, se entrambi i genitori lavorano. Quindi l’extra a cui nessun italiano vorrebbe rinunciare è l’intrattenimento dei propri pargoli, soprattutto se la sua mancanza è in grado di precludere l’effetto benefico della vita all’aria aperta, imponendo agli adulti il senso di colpa di dover comunque lenire la noia dei più piccoli. Un concetto che si basa su un fondamento errato, perché il campeggio esiste da quando esistono i turisti rough, e i figli rough dei turisti rough si divertono anche lanciare sassi nel mare. Falso, obiettano i ds-addicted. Schiavi del consumismo, ribattono i paladini della vita outdoor.

Tutto questo, comunque, ci riconduce qui, sulle gradinate dell’area spettacoli all’interno di un campeggio italiano che, tra gli extra, offre ai suoi ospiti l’animazione per i bambini, che alla sera assume le sembianze della baby dance. Genitori ustionati e lucidi di crema che sorridono di fronte alle mossette dei loro bimbi, uno o più intrattenitori i quali, spalle al pubblico, suggeriscono i passi a tempo con una playlist piuttosto standard, i nostri figli, rivolti verso di noi, nella loro scoordinata ingenuità a riprodurre la giusta sequenza di mosse che li conformizza una volta di più, non rimane più nulla di libero, nemmeno il ballo che probabilmente non saprebbero fare, una nuova cosa da imparare, d’altronde imparare a essere come noi è il loro mestiere, il loro destino.

La scaletta della baby dance, dicevo, è quasi sempre la stessa ovunque. Ma tra un gatto puzzolone e un mi piaci se ti muovi evidentemente estratto dal video scaricato da youtube, vista la pessima qualità di bitrate che il deejay tenta maldestramente di occultare improvvisando una cassa con la voce, ecco l’evergreen, la colonna sonora del divertimento danzereccio transgenerazionale, secondo solo a Disco Samba: il mitico (a detta di tutti) Gioca-Jouer. Il ballo a comando per eccellenza, base marcia militare shuffle con voce di kapò che impartisce gli ordini sul movimento da eseguire. Ora non è il caso che lo descriva qui, è un brano che conoscono tutti.

Ma dopo anni di ascolto forzato, la dimestichezza acquisita con la sequenza dei passi da riprodurre mi ha concesso di soppesare maggiormente il testo, traendone una profonda speculazione filosofica. Al termine del primo giro di movimenti, Cecchetto rompe la barriera della finzione aristotelica e si rivolge direttamente al pubblico, anticipando che a breve riprenderà la lista dei comandi. E, soprattutto, ordina di fare attenzione alla differenza tra camminare e nuotare. Ora, mi sono chiesto, camminare e nuotare sono due azioni a dir poco opposte. Due condizioni difficilmente interscambiabili, soprattutto perché fondano su elementi diversi, la terra e l’acqua, e coinvolgono arti differenti in sforzi non uguali. E anche nel simulacro del Gioca-Jouer, come pure nello schema illustrato sul retro della copertina del 45 giri, è evidente. Quindi perché dovrei stare attento a una differenza così palese? Si tratta semplicemente di parole gettate lì a caso come riempitivo per consentire il completamento del giro armonico, o sussiste una volontà didascalica? Camminare e nuotare, diamine, la differenza la sanno pure i bambini.

piccoli omicidi tra concittadini

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Non so né il come né il perché, ma quella mattina avevamo deciso di fare una gita ad Aci Castello. Oramai Catania l’avevamo vista tutta, l’aereo del ritorno partiva la mattina dopo, ci può anche stare, aveva pensato mia moglie che allora non era ancora mia moglie, un giorno di itinerario casuale, proviamo Aci Castello, d’altronde anche la guida ne parla. E così a metà mattina siamo lì, nella piazzetta antistante la fortezza sul mare, il gusto del caffè e del cornetto ancora sul palato, i denti pelosi, come li chiamava una mia amica, quando fai colazione fuori e non hai con te il necessario per lavarli.

Mia moglie chiama una collega, dopodomani si torna in ufficio dopo questo ponte tra il venticinque aprile e il primo maggio del 2003, un saluto e qualche dettaglio su quello che succede in ufficio. Io mi guardo un po’ intorno, ci sono mamme con bambini in triciclo, anziani a spasso, gente normale. Due amici stanno seduti su una panchina ubicata all’ombra di albero, nel centro di un microgiardino, e mentre chiacchierano noto un tizio che si affretta verso di loro, un po’ concitato, ha in mano qualcosa di scuro e lo punta contro uno dei due. Non ci faccio subito caso, ma sento due colpi piuttosto forti. Uno dei due uomini seduti inclina di colpo la testa in avanti, come se si fosse addormentato sul colpo, l’altro resta immobile. Forse ho capito: qualcuno ha sparato a qualcun’altro.

Mia moglie è tutta presa nei suoi aggiornamenti di lavoro, mi guarda come a dire che cosa vuoi. Non hai sentito? Hanno sparato, dobbiamo scappare da qui. Senti, ti richiamo dopo, dice alla collega. Hanno sparato, non so che succede. Il panico è generale. Le mamme tirano su alla svelta i bambini e i tricicli, i passanti si allontanano di fretta, il tizio con la pistola sempre puntata inizia a correre verso quello che avremo scoperto dopo essere l’ingresso del Municipio. Io e mia moglie, ovviamente, facciamo la cosa più stupida, saliamo le scale che portano alla fortezza, non pensando che se il folle che ha sparato decide di barricarsi in un posto sicuro, continuare il suo massacro o anche solo prendere ostaggi, saremmo stati a sua completa disposizione. Topi in trappola. Per fortuna il castello è chiuso, beati gli orari naif dei luoghi di interesse turistico, e così torniamo verso il luogo del delitto. Di corsa, come tutti.

Una signora apre le persiane di una porta finestra al pianterreno del palazzo di fronte e ci fa entrare tutti. Siamo una dozzina di persone. Arriva anche il figlio, era di là studiare, sarò uno e novanta per centoventi chili. Estrae una bottiglia di acqua dal frigo e inizia a versare bicchieri ristoratori per tutti. Ci scambiamo impressioni con i compagni di sventura, le madri sono le più spaventate, a differenza dei loro bambini che sembrano tutt’altro che preoccupati. La padrona di casa si lamenta ad alta voce, dice che non è mai successo una cosa simile in quel paese. Io e mia moglie, forti dei nostri pregiudizi, ci scambiamo sguardi interrogativi e preferiamo non approfondire la questione con le persone presenti lì, che capiamo essere tutte del posto.

Do un’occhiata fuori, vedo i vigili su luogo dell’omicidio, vicino alla vittima una donna in costume da bagno, un medico che era sulla spiaggia a prendere il sole, sta tastando il polso dell’uomo, ma si capisce che c’è ben poco da fare. Inizio a realizzare il fatto di avere assistito a un omicidio. Decidiamo che comunque è meglio andare via da lì. Arrivano di corsa due poliziotti con la pistola in pugno. Sì, andiamo via. Ci allontaniamo dalla casa rifugio e percorriamo il lungomare, nel frattempo è ora di pranzo. Troviamo un ristorante sul mare con dehor e tv accesa e il cameriere, prese le ordinazioni, ci fornisce un aggiornamento. L’omicida è un folle che dopo aver freddato l’uomo di fronte a me ha ucciso il Sindaco e altre persone e ora è fuggito e lo stanno cercando. Vediamo passare anche un elicottero dei Carabinieri, probabilmente impegnato a dar man forte alla ricerca.

Ci rendiamo conto, per la seconda volta, che non è salutare rimanere ad Aci Castello: se il killer è ancora libero e armato, potrebbe continuare a uccidere, e noi siamo lì. Ormai arriva il pesce, per di più sembra ottimo, mangiamo un po’ di fretta e senza nemmeno prendere il caffè paghiamo e andiamo. Lì a fianco c’è una fermata del bus per Catania, torniamo al bed & breakfast, che è meglio. In autobus ne parliamo ancora, ho visto uccidere un uomo, ho visto un uomo che ha sparato a un altro, gli ha tolto la vita. Meglio chiamare parenti e amici e rassicurarli.

un inglese, un tedesco e un italiano

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In coda per l’ingresso agli Uffizi, una coda lunga, estenuante, di quelle che ti fanno passare la voglia delle gite culturali nei giorni in cui tutti fanno le gite culturali ma, purtroppo, nel tempo organizzato dal sistema socio-economico non ci sono alternative. Ho dietro di me un anziano turista inglese che, probabilmente molto più avvezzo di me alle attese educate, legge il suo libro, controlla lo stato della fila di persone davanti, chiacchiera con la moglie. Mi viene naturale impicciarmi cercando di scambiare qualche battuta con il mio inglese so and so, ma per fortuna il suo italiano è molto più fluente della mia lingua straniera (se non del mio italiano stesso). La ciacola prende corpo, e il mio interlocutore si dimostra persona simpatica e brillante, molto colto e arguto, insomma, l’attesa della visita prende un’altra piega.

Dietro di lui, altrettanto ordinati e pazienti, una famigliola tedesca. Madre, padre, un paio di figli e una nonna. Anche loro chiacchierano, ma il padre ha un tono di voce lievemente sopra la media, ma è comprensibile, deve tenere a bada anche i bimbi che, come è nella loro natura, si annoiano costretti lì tra tanta gente. E ogni volta che il papà parla, noto una smorfia di fastidio nella faccia del mio compagno di coda, l’anziano inglese che stringe gli occhi e corruga la fronte. Lo guardo preoccupato, chiedendo implicitamente una spiegazione. “Ho combattuto contro i tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, per più di due anni in Europa e anche qui in Italia. Non dimenticherò mai il loro modo di impartire ordini, di rivolgersi agli altri, di parlare con militari e civili”. E a dirla tutta, mentre ascolto la sua difesa, nel mio emisfero ignorante trovo il pregiudizio per cui anche per me il tedesco è la lingua dei nazisti. Sono bastati film, documentari e libri a costruire un ricordo di cose che non ho visto e che non ho subito, e la cosa paradossale è che si tratta di un ricordo ancora troppo vivo. Il turista inglese si sistema il cappellino di tela, con una salvietta si asciuga il sudore, mi fa un cenno come a dire “ora mi passa”, e mentre ora ho attivato l’emisfero razionale, quello in cui c’è Angela Merkel, per esempio, osservo l’uomo tedesco che depone a terra uno zaino e si mette sulle spalle il più piccolo dei suoi figli.

giù il gettone

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Si vince facile a misurare l’evoluzione di un popolo dall’entertainment estivo “for the masses”. Animazione e spettacoli, quelli che campeggiano su manifesti sgargianti e organizzati per soddisfare il turista che arriva e l’abitante che è rimasto. Si uniscono i punti, si sommano gusti, età, estrazione, abitudini. Si dà un’occhiata al budget e si vede cosa c’è sul mercato. L’offerta pubblica ai tempi del patto di stabilità al massimo può garantire i balli di gruppo o il teatro dialettale. Chi è fortunato può contare sugli operatori privati, chioschi o locali o grandi eventi la cui portata è direttamente proporzionale alla spendibilità turistica del luogo. E solo a quel punto è possibile tracciare la riga e scrivere sotto il risultato, che per la mia cara amica Tinapica che è in vacanza a Gallipoli significa avere l’imbarazzo della scelta tra Subsonica e Caparezza, per me che mi trovo per un paio di sere al paesello natio è una roulette russa tra il concerto di Umberto Tozzi e il luna park.

Il tutto scoperto per caso, direi quasi subìto, altrimenti saremmo corsi ai ripari optando per una sana e antisociale programmazione serale tv con bollino verde, agevolata dal carnet completo dell’abbonamento Sky dei nonni a disposizione. E invece no: spinti da un eccesso di sregolatezza stagionale, ecco due fatal error, uno via l’altro, con un pizzico di imprevisto finale per un esito di portata tale da minare anni di sforzi volti a plagiare il senso estetico di una figlia.

Intanto il passaggio nei pressi della performance di Umberto Tozzi proprio durante il clou dell’esibizione: Notte rosa e Ti amo. L’area spettacoli gremita, un paio di maxischermo per chi non è riuscito a posizionarsi sotto il palco, gente di ogni età che ripete i testi e le rime baciate del pop sempreverde a memoria. “Papà, ma non mi piace questo cantante, che lagna.” Quanto hai ragione, cara. Poteva andare meglio, mi sarei accontentato di Stella stai o Zingaro voglio vivere come te, vere chicche per palati fini.

La seconda fatica è stata attraversare il lungomare occupato da giostre, autoscontri e calcinculo vari, più trabiccoli indistinguibili da un solarium, tanta luce emanano, e dispenser di zucchero filato e schifezze ipercaloriche varie. Ogni attrazione con il suo impianto hi fi, la canzone meno truzza alla fine risulta essere Loca di Shakira, ragazzetti con le mutande in vista e tripudio di polo con i colletti ritti su nudità varie e bruciacchiate.

Non c’è nulla di più deprimente di un luna park, vero? E allora via anche da lì, rifugiamoci in uno dei numerosi bar aperti, ma in quello scelto a caso ecco l’odiata animazione latinoamericana, i movimenti sexy e maracaibo, pubblico anziano che sorseggia chinotto Lurisia e beveroni a base di acqua tonica, umanità vestita di marche tarocche e gel con effetto bagnato in quantità spropositata, anche sui bambini in età prescolare.

Ho capito, è meglio tornare a casa senza consumare. Il rientro, per evitare il percorso tentacolare appena fatto a ritroso, si articola così attraverso un paio di vie dagli scorci tipici: muri scrostati tappezzati da annunci mortuari, insegne dei negozi scelte senza un minimo di criterio omologante, la gelateria con dehor in mezzo al parcheggio e le agenzie immobiliari tutte illuminate anche di notte, che quando abitavo lì non c’erano ancora.

E ora, prima di addormentarmi, ecco il consueto rituale del camion dell’immondizia rigorosamente indifferenziata e del lavaggio strade, giustamente schedulati per transitare nelle vie centrali della cittadina in piena notte, in estate, quando tutti dormono con le finestre aperte. Bel posto di merda, mi vien da pensare. Bel posto di merda.

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Gli aneddotti sugli stranieri in vacanza versus italiani in vacanza sono un tormentone estivo vecchio quanto l’unione europea, la libera circolazione dei cittadini comunitari o, almeno, la moneta unica. Ogni nucleo familiare ha i suoi, e sono certo ci siano quelli meno esterofili, che si concentrano sui sandali con i calzini, sulla pasta usata come contorno o sulle carnagioni che passano dal bianco latte al rosso prosciutto crudo senza tonalità intermedie. Ci sono quelli che invece sono più esasperati dai propri simili, un motivo per tutti è aver permesso, tramite il diritto di voto concesso indifferentemente, governi come gli ultimi eletti dal 94 a oggi, e si sentono, anche solo un po’, inferiori nei confronti di nazioni a caso che hanno integrato interi Paesi poveri da cui erano stati separati dopo la Seconda Guerra Mondiale e di averli assorbiti nel giro di poco tempo.

Per esempio, all’imbarco dei traghetti per la Corsica. Tu sei lì con la tua ovomobile stipata di trolley, giochi da mare in plastica, snack farciti di conservanti e coloranti, ma fiero delle tue Geox. Al massimo in tre, i genitori già over quaranta con un figlio/a sotto i 10 – spesso abbondantemente -, ti posizioni in una colonna di auto e scendi e, come prima cosa, ti stiri la schiena perché già tre ore di viaggio su quel cassone iniziano a farsi sentire. Ed ecco che arrivano loro, sul Transporter o sul Caravelle di colori sgargianti, almeno in cinque, genitori trentacinquenni con almeno un figlio/a di 12 anni seduto a fianco del padre alla guida. E sì, magari vestono in canottiera e sandali da scogli, però quando aprono il portellone del furgone dietro vedi il resto della famiglia. Madre, figlio/a di mezzo sugli 8 anni e terzogenito, intorno ai 4. Il furgone è ordinatissimo e dietro sembra un salotto, i sedili sono uno di fronte l’altro, in mezzo un ripiano con un gioco da tavolo, canoe sopra e bici legate dietro.

Sulla nave sembra che pochi di loro abbiano preso anche la cabina, allestiscono mini-campi sul ponte o nei corridoi completi di tutto, a differenza di noi che una notte senza un materasso può pregiudicarci il resto della vacanza. E non credo lo facciano per problemi economici.

In campeggio sono i primi a svegliarsi. Mentre stai convincendo tua figlia ad alzarsi, loro tornano dal minimarket con il pane fresco e il latte. I nonni rientrano dal quotidiano giro in bicicletta, bici da corsa con tanto di caschetto, il tempo di fare una doccia e sono già seduti a imburrare fette di pane da ricoprire con miele e marmellate, mentre noi si è ancora lì con caffelatte e biscotti. Prima di andarsene sulla spiaggia, i loro figli hanno la consegna di lavare piatti e stoviglie, a qualsiasi età, e si mettono in fila verso i bagni. Attività che invece, da questa parte, svolgo soventemente io, mia figlia è troppo occupata a leggere e non si può disturbare.

Arriva poi l’immancabile famiglia Bradford. Il furgone è più grande, e quando scendono capisci il perché: genitori e sei o sette figli, tra i 2 e i 14 anni, e quando fai amicizia con loro, il cui inglese, pur non essendo la loro lingua, è costantemente mille volte meglio del tuo, chiacchieri con la madre e ti rendi conto di cosa significhi avere un welfare e rispettarlo pagando le tasse. Nel frattempo il campeggio sembra già una colonia per bambini, la maggior parte non italiani. La sera si riuniscono tutti insieme, sono la metà di mille, e organizzano in quattro e quattr’otto – pur parlando lingue diverse – giochi nella natura. Un sera li vedi con le torce in un ibrido tra una caccia al tesoro e nascondino, in mezzo alla macchia all’interno del campeggio. La sera dopo sono ancora tutti insieme sulla spiaggia: i più grandi, ancora preadolescenti, stanno costruendo una capanna indiana con le canne che hanno trovato vicino agli scogli. C’è anche un telo abbandonato che viene subito riciclato come tenda. Qualcuno chiama il papà che accende un fuoco, e i bambini si mettono lì intorno a raccontarsi a gesti e a versi chissà quale storia di fantasmi. Ci sono solo un paio di ragazzini che non stanno giocando con loro, si sono fermati nella sala giochi insieme al padre, c’è una partita di calcio in tv, il padre per seguire in santa pace l’incontro gli rifila continuamente monete per i videogame. E sono gli unici. Indovinate un po’.