ma nemmeno belli

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Ho appena finito di fare merenda con un abbondante piatto di fave e salame, sento la soddisfazione snob di Lisa al telefono mentre mi mette al corrente della sua dieta fedele alla tradizione locale, cose che mangi nei posti più radical chic del centro pagandole un occhio della testa mentre c’è gente che di specialità di risulta accompagnate con il vino acido dei poveri che ti spacciano come vermentino biologico non ne vuole proprio sapere. Me l’immagino seduta in quella specie di agriturismo in città mentre mi snocciola a uno a uno tutti i suoi commensali perditempo, e il tintinnare di posate e bicchieri si alterna all’inconfondibile suono elettronico dello scatto che mi ricorda quanto mi sta costando quell’inutile reportage. Lisa ha un telefono cellulare che è uno dei primi modelli immessi sul mercato, un mega-parallelepipedo di plastica con l’antenna che sembra un walkie talkie e non è tanto più piccolo della cabina telefonica da cui la sto chiamando. E dire che la conversazione è chiara come un programma radiofonico in galleria, sono in un bar affollato che ha un posto telefonico pubblico e c’è un bambino che sta strillando perché dice che gli è entrata una mosca in un orecchio, mentre sua sorella si sta lamentando a voce alta di una storta presa a causa della pessima manutenzione dei marciapiedi lì fuori. Per non parlare delle imprecazioni di chi sta giocando a biliardo in fondo e la macchina del caffè.

Nonostante ciò mi sorprendo della mia lucidità con cui cerco di tagliare corto, chiamare con una scheda telefonica un cellulare costa un’esagerazione e quando metto giù e controllo il credito sul display che qualcuno ha cercato di liquefare con la fiamma di un accendino torno a pensare a cosa non si fa a volte per amore. Cerco di ricordare un titolo di un film in cui si parla di una storia tra due fidanzati di classi sociali differenti per rincuorarmi con un paragone, ma a parte un musicarello con Albano e Romina in cui Albano fa il povero e alla fine prende a pugni il pretendente figlio di papà che si è messo di traverso tra le loro vite non mi viene in mente nulla.

Una volta Lisa mi chiama e mi dice se mi va di seguirli, lei, tizio e caio per una passeggiata. Io capisco quattro passi in centro e metto le scarpe della domenica. Lei intendeva invece una camminata sulle alture, ma giuro che non l’aveva specificato, così ho fatto la figura di quello che si mette in tiro per andare per sentieri. E il problema si manifesta in tutta la sua gravità qualche giorno dopo perché sono stato invitato ad accompagnare Lisa a un matrimonio di una coppia di suoi amici, gente upperclass con cognomi da editori e uomini politici conosciuti sulle spiagge in via di estinzione del nord della Sardegna. Ho solo un completo fuori moda e di cattivo gusto acquistato a caso su insistenza di mia madre e almeno di due taglie in più per un’altra cerimonia, le seconde nozze di mio cugino che, per farvi capire lo scenario, sono state celebrate dal leader di una nota blues band del nord Italia che al tempo era anche assessore, presumo e spero per lui alla cultura.

Quando mi presento sotto casa di Lisa lei non si sforza di nascondere il suo disappunto sul mio look e sulla scia di un litigio furioso  – “lo sapevo che avrei dovuto vedere prima cosa ti saresti messo!” – sto per salire in macchina per scappare da lì ma nel frattempo arriva l’altra coppia con cui faremo il viaggio. Non c’è scampo, sarò l’invitato messo peggio. La giornata è tutta in salita con i numerosi cliché del meno abbiente rozzo e inadeguato che si trova a condividere esperienze con l’alta società, avete presente quelle situazioni con l’etichetta, le posate, le smancerie, i nomignoli da animali domestici e i bicchieri da usare eccetera. Nel corso dei numerosi buffet e pasti che scandiscono un programma a sei zeri (siamo nell’era delle lire oltreché del doppino telefonico) mi rendo conto che la qualità delle portate non è proprio niente di che. Il vino invece merita. Ridono tutti, qualcuno inciampa negli abiti da sera, qualcun altro sbircia nel Rolex se si è fatto tardi, c’è anche la musica e le carampane sono le prime a cercare di muoversi a ritmo sotto lo sguardo standard  dei loro mariti ingegneri.

La dinamica del ricevimento, organizzato in un castello con cappella annessa nei dintorni di Milano, culmina con il taglio della torta. Lo sposo e la sposa con le mani giunte sulla mannaia, il tavolo imbandito all’esterno, la musica di “Via col vento”, i fuochi d’artificio e le colombe, lì per lì li ho scambiati per piccioni, che vengono liberate sulla testa dei due sposini a loro rischio e pericolo. Lisa si è ammorbidita poi durante il giorno come le spalline del mio vestito, voglio dire tutto sommato io ero anche una delle cose meno kitsch viste in giro ma non lo si poteva dire. Comunque meglio non sistemarsi vicini in auto. Lei dietro con l’amica e io davanti con il marito, che avvia una conversazione difficile da seguire per via del suo alito che con tutto quello che c’era a disposizione ne è uscito fortemente penalizzato. Lui mi parla e non riesco a voltarmi dalla sua parte – per ridere dico spesso che avendo un naso di dimensioni spropositate ho anche un’ampia superficie destinata alla percezione sensoriale –  ma questo non costituisce un deterrente alla sua voglia di chiacchierare. Poi dietro le ragazze si addormentano e poco dopo anche io. Mi cade la testa. Ogni tanto mi sveglio e la tiro su, un rallentamento o uno scossone della station wagon durante un sorpasso, e anche se ho perso il filo di quello che mi sta dicendo mentre guida cerco di arrivarci da me e di rassicurarlo con qualche parola attinente e messa nei punti giusti.

tutto su mia nonna

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A mia nonna stava antipatico Nando Gazzolo. C’era un motivo: la sua sovraesposizione mediatica come protagonista di sceneggiati sugli unici due canali disponibili ai tempi unita allo scarso indice di gradimento per l’Amaretto di Saronno erano decisive. In percentuale, non era difficile trovarselo davanti almeno una volta dopo il telegiornale. Non essendo muniti di telecomando non è come ora che ti sposti di un programma in più o in meno comodamente dalla poltrona quando c’è qualcosa che non ti va. Ed era un fattore di forma mentis. Dotati ancora di quel tipo di intelligenza sequenziale, prima che Internet e tutti i passatempi digitali ci forzassero a compiere un doloroso quanto gratificante adattamento all’intelligenza parallela che poi è quella che nei più piccoli mettiamo all’indice come causa di deficit di attenzione e di dislessia, disgrafia, discalculia e disgrazie infantili varie, era facile fare altro per i minuti in cui il noto attore icona della tv in bianco e nero (almeno nel mio immaginario collettivo, e ho volutamente scritto sia mio che collettivo) assaporava una bicchierino di Amaretto di Saronno perché c’era la capacità per i telespettatori di versarsi nel frattempo un goccio – nel nostro caso non di Amaretto di Saronno – o di versare un goccio di pipì in bagno e tornare permeabili e ben disposti davanti agli apparecchi catodici una volta terminata la parentesi commerciale e sgradita.

Come vedete, non sussisteva nemmeno un problema di pigrizia. Mia nonna era abituata a ben altro. Si sparava cinque piani di scale a piedi più volte al giorno anche carica di spesa, parte della quale composta dalla focaccia che mangiavo a merenda sfogliando un Topolino. Una volta era volato giù in cortile un pallone da un poggiolo, lei era scesa a recuperarlo e poi anziché restituirlo al proprietario nostro vicino di casa lo aveva dato a me. Oppure mi sfidava a correre nei boschi per vedere chi arrivava prima, quando trascorrevamo insieme le estati nella sua casa di campagna. Conosceva tutti i posti migliori per trovare i funghi e tornava sempre con cestini pieni zeppi di esemplari di tutti i tipi, non solo quelli facilmente riconoscibili come sani, ma anche le specie meno note ma che sapeva per esperienza essere commestibili. Le persone di campagna sono così, ci sono quelli che si costruiscono le case da soli, quelli che fanno i muratori fino a quarant’anni e poi da un giorno all’altro si mettono a fare i panettieri e quelli che trovano porcini di dimensioni record e vincono contest locali con l’esemplare in vetrina presso il verduriere del centro.

Poi ogni tanto litigava con qualcuno in famiglia e si trasferiva da sua sorella finché qualcuno non le andava a chiedere scusa, anche in questo una volta le persone di campagna erano così. Suo fratello non ha mai rivolto più la parola a lei e ai loro genitori per una striscia di terra contesa, è morto così, vecchio e senza aver mai più salutato i suoi parenti più stretti. La gente contadina è strana. Mia nonna sapeva preparare una specie di pane cotto nella stufa a legna il cui impasto prevedeva l’uso di latte cagliato, si svegliava prestissimo per prepararlo e farmelo trovare caldo a colazione da farcire con la Nutella e poi a merenda con il salame. Una ricetta probabilmente semplice ma che nessuno ha mai imparato, e soprattutto difficile da replicare senza forno a legna, tanto che quando è morta quel sapore è sparito con lei. Già, a un certo punto lei, che aveva già perso il marito e un figlio, oltre ai genitori, sì è ammalata in quel modo in cui ci si ammala senza ritorno. Un pomeriggio, qualche giorno prima che fosse ricoverata per l’ultima volta, l’ho vista seduta in vestaglia sul bracciolo della poltrona rivolta verso la finestra, probabilmente non guardava fuori ma guardava dentro di sé, sapeva dei giorni contati e non riusciva a capire esattamente quanto mancasse, si aspettava comunque che la malattia le chiedesse scusa, a volte tra la gente in campagna si fa così.

laptop dance

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Non saprei dire quando è stato che abbiamo iniziato a sentire l’esigenza di portarci addosso oggetti e dispositivi e di conseguenza a sentire la necessità anche di contenitori adeguati a un agevole trasporto degli stessi in mobilità. Quando abbiamo smesso di muoverci liberamente e con naturalezza per strada per bilanciare il peso del fardello che il mercato e quell’accezione di acquistare il superfluo che va di moda ora, la consumerization, ci hanno imposto, limitandosi a lenire solo in superficie le infiammazioni muscolari dalle posture anomale a cui tali contenitori ci costringono. Abbiamo iniziato a portare con noi il walkman prima, che non era tanto il peso del dispositivo in sé quanto delle cassette o dei cd dopo, poi il cellulare al collo e il portatile sulla schiena, e la camicia tutta sudata dietro era tutto sommato un compromesso accettabile, almeno così ci convincevamo nascondendo la chiazza arrivati in ufficio, appoggiandoci alla sedia. E lo zaino con la bretella solo su una spalla ha costituito la prima tappa involutiva verso l’asimmetria vertebrale aggiunta a tutta quella serie di disturbi alla nostra posizione eretta così faticosamente conquistata che terminano con il suffisso in -osi. Ma le stesse tradizionali ventiquattrore che una volta contenevano incartamenti e dossier, oggi celano elaboratori da asporto fatti e finiti in aggiunta a tutto il resto, e trovarsi a trenta o quarant’anni incuneati a destra o sinistra come simboli del maggiore o minore viventi non ci fa onore (per non saper né leggere né scrivere consiglierei comunque di tendere sempre a sinistra). Camminare con la zavorra ci impone di auspicare nel semaforo rosso per spezzare il percorso in tappe di riposo, quando possiamo approfittare di muretti o panettoni stradali per scaricare a terra il peso specifico del progresso sempre che qualcuno non se ne approfitti, di cotanta tecnologia abbandonata a sé stessa, e con atletici gesti di chi si vede che la povertà ha negato il passaggio allo stadio di homo interconnexus ci separi dai nostri ricordi digitalizzati. Capita no? Appoggi la borsa in mezzo alle gambe alla fermata dell’autobus, passa uno in moto che ti chiede qualcosa e ti costringe a fare un passo in avanti perché non hai capito bene e il compare dietro, altrettanto motorizzato, se ne va con tutti i tuoi giga di dati. Un danno meno costoso ma altrettanto fastidioso lo provoca il tascapane porta-pc da mettere a tracolla, quello che ti lascia la banda diagonale di sudore davanti e dietro in estate che quando te lo sfili la maglietta che indossi sembra quella della nazionale di calcio peruviana. Ma anche lì, a seconda della spalla su cui scarichi il peso del tuo cespite la schiena ne trae le dovute conseguenze e l’andatura stessa ne risente, un po’ di qua o un po’ di la. Roba da fisiatra, insomma. Ma questo e molto altro, pur di non rinunciare al kit di sopravvivenza sociale. Anzi, social.

economie di scala

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Per scherzo dico spesso che l’unico modo per ammortizzare i costi di un’uscita al ristorante è quello di spazzolarsi tutto e non lasciare nulla nel piatto, è un mio cavallo di battaglia per rompere il ghiaccio alle cene con sconosciuti. Succede che qualcuno non coglie il sottile nonsense della battuta ma nella maggior parte dei casi tutti pensano che sagoma questo plus1gmt. Si tratta comunque di un approccio molto microeconomico che non va affatto bene nei locali eat-all-you-can in quanto è impossibile quantificare il reale corrispettivo in cibo del prezzo forfettario, voglio dire non puoi imbibinarti con tutto quello che c’è sul buffet fino a star male.

Stesso discorso per la comune pratica dell’apericena, un neologismo di cui avremmo fatto tranquillamente a meno. C’è un bar che si chiama come uno dei più importanti registi italiani di sempre dove vai e paghi quattordici euro e scegli l’aperitivo che preferisci e poi ti allenti la cintura dei pantaloni perché puoi riempire i piattini fino a scoppiare. Io non ci sono mai stato ma l’ho sentito raccontare proprio così e, sapete, laddove uno percepisce esperienze altrui che possano essere degne di divulgazione perché non scriverle nero su bianco. Quattordici euro e alla fine esci che hai già cenato perché mangi qualsiasi cosa, anche i risotti ci sono oltre agli altri avanzi dei ristoranti della zona che anziché gettare il superfluo lo rivendono ai bar insieme agli scarti salvati dai piatti a fine serata. Dicevano anche che il problema è se poi finisci quello che hai preso da bere e ti viene di nuovo sete. Sapete quanto hanno chiesto a un amico di quello che consigliava il locale che si chiama come un regista italiano famosissimo per una bottiglietta d’acqua naturale da mezzo litro? Cinque euro. A quel punto ha detto che si sarebbe piuttosto bevuto una birra. Va bene, vuoi la birra? Dieci euro, con i palmi delle mani spalancati e rivolti verso di me, cinque dita aperte sulla destra e altrettante sulla sinistra. Meglio tenersi la sete, a quel punto no?

È che viene da darsi le dritte e farsi le confidenze, solo così ci sembra davvero di avere una vita in back-end, come si dice tra informatici, anche se non la si ha e quando siamo con il front-end attivo, cioè c’è qualcuno che ci sta consultando, dobbiamo far vedere qualche risultato. Ci sono quelli che ti danno addirittura particolari piccanti sulla loro vita privata che tu non glieli hai nemmeno chiesti, ma si dice che sia una caratteristica tutta maschile quella di millantare le prodezze sessuali. Non so, saranno le mie frequentazioni ma devo proprio risalire alla notte dei tempi per ricordare qualcuno che raccontasse a vanvera di essere stato in intimità con questa o quella, e a dirla tutta trattandosi di maschi alfa quattordicenni o giù di lì è facile che si trattasse di racconti letti su giornalini zozzi e fatti propri per apparire scafati agli altri. Ripensare a tutte le idiozie altrui a cui abbiamo dato credito nella nostra vita ti dà il senso del tempo perso nella vita sociale, per un totale di giorni settimane o mesi che nessuno ti ridà più indietro e pensi che cavolo, se anziché uscire con gli amici fossi andato al cinema oggi sarebbe tutto diverso. Saremmo tutti enciclopedie Mereghetti.

Ma non è del tutto vero. Qualcuno più grandicello che vuole condividere con te la sua ars amandi lo trovi, e si tratta per lo più di svitati. C’era un cameriere del bar dell’università che, malgrado la confidenza che si possa avere con uno che ti impiastra la superficie del cappuccio con disegni che vede solo lui, a tutti costi ha voluto raccontarmi della vicina di casa quarantenne – ai tempi non si chiamavano ancora MILF, il porno su Internet non era ancora stato inventato e ci si divertiva da soli ancora con il cartaceo e tutto quello che può comportare quel tipo di divertimento con materiale cartaceo, non so se mi spiego, soprattutto scambiandolo con terzi, anche questo è una sorta di digital divide ante-litteram – che lo invitava a casa sua quando il marito era in negozio. Io seguivo la dovizia di particolari con accondiscendenza perché non volevo deluderlo, lui ci teneva così tanto e io, come sapete, considero il sacrificio alla felicità altrui un po’ come una mia missione. Sono un ottimo ascoltatore, non dimenticatelo mai.

Chiudo questo siparietto a luci rosse con il signor Antonio, anziano compagno di degenza in ospedale in occasione di un intervento a cui mi sottoposi a vent’anni e rotti. Il signor Antonio era di Varazze e mentre sfumacchiavamo nell’apposita sala del reparto di chirurgia, ai tempi si poteva ancora fumare ovunque, alla prima occasione mi mise al corrente di alcuni episodi della sua giovinezza, quando un facoltoso commerciante suo concittadino lo pagava per aver rapporti intimi con mestieranti – quindi aggiungete anche il costo della controparte se volete farvi due calcoli sul budget dedicato all’entertainment di questo tizio – ma si limitava a osservare la scena e, come diceva il signor Antonio, a far da sé. Questo per dire che in realtà il commerciante voyeur non ammortizzava come fanno i giovani d’oggi che frequentano gli apericena di grido, cioè pur pagando due comparse in realtà lui si comportava come se fosse al cinema, dove di certo avrebbe risparmiato. Ma, come ci insegnano i tempi in cui viviamo, c’è chi per la lussuria non bada a spese. Il signor Antonio poi è stato operato prima di me, e la sera precedente all’intervento mi ha dato qualche gettone telefonico e mi ha chiesto di chiamare, non appena fosse uscito dalla sala operatoria, un suo conoscente. Il signor Antonio non era sposato, non aveva figli, non aveva nessun parente stretto, probabilmente il commerciante suo fornitore era già morto e lui, il signor Antonio, aveva soltanto un conoscente a cui telefonare per fargli sapere che l’operazione era andata bene.

casanova

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Quel tizio che conosco, quello che che sostiene di avvertire un calore particolare da parte delle persone che sono ben disposte nei suoi confronti (ci siamo capiti) e che gli accade tutt’ora di sovente. Se ne stava seduto in treno, o a studiare in biblioteca, o al tavolo di una pizzeria a celebrare una qualunque ricorrenza con gli amici, e dalla ragazza seduta alla sua sinistra o alla sua destra percepiva quelli che chiamava raggi di interesse, un segno chiaro e forte dell’esistenza di feeling tra di loro. E io pensavo chissà se quelle radiazioni non sono nocive, insomma non sarebbe bello contaminare qualcuno che non ha nessuna colpa se non quella di essere un oggetto del tuo desiderio. Voglio dire, non può pagarla solo per questo.

Perché poi accadeva che tentava pure un approccio partendo da quello, che è una cosa che mi ha sempre fatto morire dal ridere. Tu se un’ignara studentessa tutta presa dal tuo testo di Economia Politica e quello vicino che ti dice scusa ma non vorrei fraintendere eppure sento delle vibrazioni positive. Magari non in questi termini, semplicemente usava il suo sesto senso solo come tecnica di scoperta, una sorta di contatore Geiger, e poi le fermava fuori con la scusa di una sigaretta o che altro e stava a vedere cosa succedeva. A me era capitata una cosa opposta, invece, una tizia con l’aria maledetta che mi aveva approcciato in un locale per maledetti dicendo “sento qualcosa che mi negativizza”. Avrei dovuto prenderlo come un complimento, ma lì per lì mi sono spaventato e ho usato la scusa del disco orario da cambiare.

E, tornando a quello dei raggi dell’amore, non era l’unica tecnica di seduzione che sfoggiava. No no. Sosteneva che fosse un metodo infallibile quello di studiare al limite della stalking tutti i movimenti della preda in modo da farsi trovare “casualmente” sui suoi passi. Che combinazione, anche tu qui e così via. Non so, a me sembrava una strategia troppo aggressive per i miei standard, io che ero così discreto e aspettavo anche mesi l’occasione migliore. Forse era anche un grande amatore, questo non lo potrò mai sapere, di certo sapeva far capire quanto ci teneva a una o all’altra partner. Nel corso di una delle sue relazioni più lunghe, durata anni e consumata anche sui sedili di un treno locale quotidiano da e verso la comune facoltà universitaria, durante quelle trasferte lo ricordo rinunciare anche a far pipì per passare il maggior tempo possibile con l’amata. Aspettava la sua discesa – era un paio di stazioni prima della nostra – perché sosteneva di non voler sprecare tempo. Poi l’accompagnava alla porta pregandoci di tenergli occupato il posto e si salutavano lui dal vagone e lei sul binario fino a quando il treno non partiva. Così ogni giorno per settimane, mesi, anni. Poi tornava al suo sedile, non prima di una meritata sosta alla toilette.

la vita è un trekking

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A essere irragionevoli nessuno vorrebbe mai privarsi della compagnia dei propri figli per lunghi periodi, cosa che in estate è facile che accada. Anzi si spendono fior di quattrini per sottrarre i bambini all’afa delle città organizzando per loro vacanze, campi e soggiorni vari per consentirgli di godere appieno dei mesi estivi precedenti alla vacanza ufficiale, quella di agosto con mamma e papà. Si paga per allontanarli da noi ma è per il loro bene. Ora non so voi ma a me l’idea che domattina mia figlia parta per una settimana di montagna con un gruppo organizzato di coetanei mi pesa non poco, vuoi perché è piccola o almeno io la vedo tale perché di anni ne ha otto e proprio piccolissima non è. E sono certo che magari un po’ di malinconia le verrà anche perché è solo la seconda volta che capita, però poi tutto andrà liscio. E se attivo il filtro della ragionevolezza sono contento, sarà un’esperienza edificante e si divertirà. Mia moglie ed io invece difficilmente ci abitueremo, né questa volta né quelle future e lo so che sbagliamo e che un giorno nostra figlia avrà una vita indipendentemente da noi. Ma ora, finché si può, pensiamo che sarebbe bello stare sempre insieme e non staccarci mai perché un po’ di ricchezza c’è, in tutto questo. Diventiamo tutti un po’ più completi perché è dalla crescita millimetrica quotidiana dei nostri figli – quella che non ti fa accorgere che crescono se non guardando le vecchie foto – che ricaviamo tutta quella piacevolezza che altrove si fa presto a smarrire, basta trovare sulla propria strada qualcuno che si è messo di sbieco e si deve rifare tutto da capo, insomma avete capito a cosa mi riferisco. Invece a fare il genitore con i suoi alti e i suoi bassi – voglio dire, anche i genitori di Pietro Maso erano genitori – comunque qualche soddisfazione la ottieni e non solo perché ci hai messo del tuo ma perché c’è del miracoloso – non saprei come altro definirlo – in quella materia che pensa e che parla e fa i capricci e che porta a casa la pagella ed è una variabile da riempire giorno per giorno con un valore diverso, fino a quando a riempirla non sei più tu. Quindi ci si controlla perché a essere irragionevoli i figli ti prendono per matto, e si effettuano i bonifici per le settimane di distacco, i giorni prima ad attaccare le etichette adesive sui sacchetti con gli indumenti da mettere nello zaino, la borraccia da un litro o quella da mezzo e così via. L’allenamento, il mio per le assenze future, è appena agli inizi.

due nuove canzoni dei blur

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e

santigold – the keepers

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il popolo nella notte

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C’era un programma ieri su MTV in tarda serata dal titolo Movida o qualcosa del genere, un nome che lascia intendere inequivocabilmente l’argomento: vita notturna in alcune grandi città del calibro di Torino, Bologna e Roma. Forse c’era anche altro, non saprei, non l’ho seguito tutto. Il focus era la vita notturna intorno al cosiddetto nightclubbing, quindi non proprio gli impasticcati nella disco ma tanto tanto alcol e musica meno smaccatamente commerciale. Il vu-gei si accompagnava ad alcuni anfitrioni che gli mostravano i locali, i quartieri più vivi, poi tutti in casa dall’amico per un bicchiere e poi così via fino alla mattina e per chi non è ancora stanco c’è pure l’afterhours fino a mezzodì. Nella città più all’avanguardia di tutte, il capoluogo piemontese, addirittura una street parade con i carri techno e folle di ballerini di strada e un’esibizione dei Motel Connection ciascuno a un davanzale di un palazzo e sotto i fans saltellanti a ritmo. Poi le ragazze di Bologna che si rammaricano del fatto che la loro città non è più il centro della cultura giovanile come una volta, che non ci sono investimenti pubblici, che le istituzioni non favoriscono la street art ma anzi coprono i graffiti e via così, avete capito l’antifona. Chiaro che qualcuno dovrebbe avvertire quei ragazzi che in tempi di spending review, patti di stabilità e varie vicissitudini la cultura purtroppo finisce in posizioni infelici nella lista delle priorità degli enti locali. Ma non è questo il punto. Il più giovane degli anfitrioni intervistati se non sbaglio aveva 29 anni. Ho visto adulti di 31, 34, 38 anni preoccuparsi di questo o quel locale con long drink in mano e tirar tardi come se non ci fosse un domani, che poi è vero che un domani non c’è però ho pensato che ci sono posti dove fanno le stesse cose che ho visto fare in quel programma di MTV a Torino, Bologna e Roma, ma le fanno a 16, 18 o 20 anni. Poi li incontri in vacanza, perché è l’unica occasione in cui ti misuri con tedeschi e francesi, e i coetanei dei protagonisti della nostra movida portano in campeggio i loro due tre o quattro figli. Ho pensato a questo paragone che non ci rende merito, proprio no, ho spento la tv e ho detto a mia moglie che non mi riconoscevo più nella società. Ho reagito come avrebbe potuto reagire mio nonno nel 1977 di fronte a un punk con la spilla da balia piantata nella guancia. Ecco, mi sono sentito vecchio. E come se non bastasse stamattina ho incrociato una ragazza, una ragazza dai capelli grigi come i miei, che sfoggiava un vistoso tatuaggio sull’avambraccio con la scritta “proud to be vegan”. L’abbiamo presa bene, volevo dirle. L’abbiamo presa bene, in mancanza di alternative abbiamo tirato fuori l’orgoglio.

la cosa giusta

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Ci sono vari modi di fare le cose, alcuni dei quali danno molta soddisfazione e costano pochissima fatica agli autori, un po’ meno a chi gli vive intorno. Prendi per esempio quelli che dire di aver fatto una cosa corrisponde ad averla fatta per davvero, il semplice enunciare un’azione corrisponde ad averla eseguita il che è encomiabile perché significa che ci sono individui il cui verbo ha un valore ai limiti del divino, la creazione, la materia che si plasma sul tono della loro voce o, come è più facile, il solo prender corpo di un impegno attraverso l’evocazione dello stesso equivale per le loro coscienze al rimettersele a posto. Ma sappiate, voi che pensate di materializzar parole in un fumetto visibile ai più e che ciò che vi è contenuto corrisponda alla cosa in sé che purtroppo non è così, c’è un detto che addirittura vi  separa dal vostro obiettivo in potenza con l’apposizione nel mezzo di una distesa d’acqua salata, decisamente navigabile e alla vostra portata ma che scoraggia i più a imbarcarsi e partire.

C’è un altro modo poi molto diffuso, che è riassumibile nel concetto di adesso vediamo. Quello che vuol essere un deterrente all’impazienza altrui talvolta funziona come un dispositivo spargi-nebbia per confondere la visione sul futuro di chi ci vorrebbe attori a comando di volontà di terze parti, ma attenzione a non confondere i vapori della propria elucubrazione con i lacrimogeni della presunzione di voler fare sempre comunque secondo la nostra indole, quel fumo negli occhi che addolora il nostro prossimo che, invece, partecipando alla nostra manifestazione di intenti, ha bisogno di nient’altro che un intervento nell’immediato. L’adesso vediamo è un argine all’impeto dell’entusiasmo di altri che non siamo in grado di gestire se non tirando su un muro protettivo se non intere fortezze, che è un po’ perdere tempo mentre si cerca l’alternativa più plausibile e un po’ mascherare la nostra inadeguatezza al momento, la stessa che ci porta a minimizzare questioni che per altri necessitano di un ponte levatoio per essere superate.

Ecco, in entrambi i casi l’esito del nostro intervento va molto vicino allo zero assoluto, l’effetto non cambia nulla di quella che era la causa, ma nel frattempo abbiamo nutrito il nostro animo di sostanze immediatamente digeribili e smaltibili, che a noi non lasciano nulla ma a chi abbiamo di fianco causano irritazioni cutanee e non, ci lasciano leggeri apparentemente ma con un peso dentro, e a cercarlo è facile stimarne la massa e calcolarne l’entità, sedimenti che poi a nasconderli c’è gente che ci mette addirittura una vita intera e magari non ci riesce neppure.