in un lampo

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Ognuno sembra attendere a suo modo il temporale estivo e la città che già è semideserta si svuota, restano solo quelli che non li aspetta nessuno altrove e stanno con il naso all’insù tanto mica devono tornare anche se è quasi ora di cena. Di certo sta per succedere qualcosa perché nel giro di qualche minuto il sole che era lì è sparito. E chi viene da posti con le montagne alle spalle e il mare davanti si stupisce della varietà dei cieli in pianura, fino alla via taldeitali c’è sereno e da lì in poi ci sono gli strati più scuri di nuvole gonfie e in fondo si vede che piove già mentre di là ci sono ancora squarci di azzurro. Meglio decidere la destinazione a seconda della propria indole, cioè se hai voglia di bagnarti tanto è estate e male non fa e magari si riesce anche a vedere una striscia di arcobaleno vai incontro alla perturbazione, altrimenti puoi prendere una scorciatoia e scongiurare il peggioramento delle condizioni atmosferiche. Se sei a piedi non ti preoccupare troppo delle infradito, non è come nei vicoli che scendono e l’acqua sembra un torrente e chissà cosa si porta dietro. Qui è tutto dritto e basta fare attenzione.

Quelli seduti soli nei dehors dei bar tavola calda con cucina cinese e giapponese tirano tardi con la Peroni da 66cl davanti e per sicurezza scrutano sopra e si avvicinano verso il centro dell’ombrellone, uno per ogni tavolino e ognuno che commenta da solo con la sua lingua diversa dalle altre. Il temporale però profuma allo stesso modo ovunque, se c’è l’asfalto caldo e oggi è rovente, e l’odore che si impara a condividere è sempre quello. Passa lì a fianco una coppia in fase di scoperta reciproca, ciascuno con il proprio cane al guinzaglio. Due razze così diverse che tirano agli opposti come se volessero separare i loro padroni, dicono che gli animali hanno il senso per i terremoti e magari si intendono anche di compatibilità umana in proiezione. Ma i ragazzi vogliono comunque approfondire o forse sono in cerca di avventura e rimettono i cani in riga.

Si sente una donna impegnata in una telefonata di lavoro, anche lei osserva lo scenario che sta allestendo l’imminente rovescio preoccupata, ma continua nella sua relazione e usa termini che non ho mai pronunciato in vita mia, mi accorgo di invidiare il lessico di chi lavora ai vertici della pubblica amministrazione, e vorrei segnarmeli tutti e arricchire il mio vocabolario ma sono di fretta e così cerco di memorizzarne più che posso. Dice “capofila nel procedimento di negoziazione” e mi chiedo quando mi capiterà di scriverlo, perché a proposito di un temporale e della sua attesa non è molto attinente. La supero mentre parla e vedo che si rintana sotto il portico della libreria anche se non piove ancora, è palese che la sua trance linguistica le fa perdere il contatto con la realtà.

Io invece sono di corsa e il momento è di quelli così gravidi di attese che inizio a pensare a tutto quello che un temporale estivo imminente riesce a ispirare, quanti poeti e scrittori e artisti e musicisti hanno trovato un collegamento esistenziale con una situazione come questa, ma poi dentro di me la butto in caciara perché prevale solo il ricordo di un pezzo che parla proprio di acqua a catinelle scritto da gruppo di urlatori pugliesi e fatto in comunella con un cantante che si è messo di traverso in quella canzone con una coda di parlato che ci azzecca proprio, e se non fosse che un po’ mi vergogno a dire che magari quel brano lì lo sentirei proprio mentre aspetto il temporale a modo mio la potrei anche postare qui sotto. Ma no, meglio di no, tanto poi non è scesa nemmeno una goccia.

se ami qualcuno lascialo libero (almeno così dicono)

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Avete presente quando due si lasciano, e voi siete uno dei due, diciamo quello che è stato scaricato ma non necessariamente. E più del fatto di essere stati abbandonati non vi capacitate che il vostro ex partner si sia messo immediatamente dopo, o anche trascorso un periodo di tempo variabile, con una persona completamente diversa da voi. A me è successo e la prima naturale cosa che ho pensato e che pensano tutti è che l’ex partner non ne potesse davvero più di me per mettersi con uno agli antipodi. E agli antipodi di me, come potete immaginare, ci sono quei tipi rozzi e ignoranti che leggono Libero, guidano Smart o gipponi o le mini modello olgettina, praticano sport estremi e si ricordano a memoria le battute de “Il signore degli Anelli”. Fermo restando che ci vorrebbe una legge a tutela della dignità dell’essere umano tale che gli ex, terminata l’esperienza che li ha resi ex di qualcuno, non instaurino nessun rapporto successivo con nessuno altro per qualche decade, proprio per non ferire l’altrui ego con inutili comparazioni. Ma questa è un’altra storia, perché quello che succede è che analoghe dinamiche si sviluppano anche negli ambienti dei gruppi musicali.

Vi faccio un esempio. Corteggi per qualche anno un bassista che guida una vespa con un adesivo dei Joy Division. Avete letto bene. Un bassista che non te la mena con Jaco Pastorius o con Sting o con Tony Levin e i suoi bassi assurdi a tre corde da suonare con le bacchette ma che strattona quel meraviglioso strumento sufficientemente da cani e con il plettro per poter accompagnare una band aspirante post-punk. Il colpo di fulmine è inevitabile. Trascorri qualche anno nell’idillio sonoro e poi le cose finiscono come da copione. C’è il cantante che vuole fare il solista, il batterista che tra i suoi quindici gruppi in cui milita decide che per te non ha più tempo perché occupi la sedicesima posizione, il chitarrista ritmico che ruba la fidanzata al chitarrista solista eccetera eccetera, insomma i cliché dello scioglimento di un gruppo. Vi faccio solo notare che dei tastieristi non si può dire nulla, da sempre sono le persone più serie e vi sfido a trovare un addetto alla macchine elettroniche testa di cazzo.

Comunque la fine della band in questione è segnata e il bassista rimane così traumatizzato che entra in una formazione di gente che fa cover dei Doors e dei Deep Purple e gira con le Harley Davidson tarocche. E si fa crescere pure i capelli. Poi ti chiama perché nel gruppo in questione nessuno è in grado di metter per iscritto una nota su un pentagramma ma ha bisogno di depositare una manciata di pezzi originali alla SIAE e tu in virtù degli antichi fasti ti offri di occupartene. Ti metti al lavoro a trascrivere le canzoni e ti rendi conto che non si può fare, non hai mai sentito una musica così di merda.

Non so, è come se – tornando alla metafora della storia d’amore – incontri la tua ex dopo un anno e la trovi dipendente da una droga potentissima e in pericolo di vita e così pensi che è un segno del destino e devi salvarla. Devi rapirla e portarla in un luogo sicuro e farla tornare pulita come prima. Così decidi di mettere in salvo il tuo ex bassista, che nel frattempo si è messo anche a studiare sodo per diventare uno che te la mena con Jaco Pastorius e Sting e Tony Levin, e ti presenti al concerto del suo nuovo gruppo mescolato tra la folla. Ed ecco cosa succede. Intanto c’è la folla, che ai vostri concerti post-punk non c’era mai. Poi l’abbondanza di pubblico femminile non depresso, idem come sopra. Non ti è chiaro quale sia il vero bene per lui, e pensi sia meglio prendere una birra e pensarci su. Magari dopo aver fatto quattro salti su Roadhouse Blues.

sei fuori, amico

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Che casino, gente che parte e gente che arriva e non si capisce nulla perché i lavori di ristrutturazione della stazione ferroviaria giustamente è meglio farli in estate quando oltre agli utenti ordinari ci sono quelli dis-ordinari per non parlare delle famiglie che vengono ogni giorno al mare e alla sera rientrano, perché nemmeno una pensioncina possono permettersi e un abbonamento dal profondo del Piemonte costa molto meno. Così nella confusione non ho nemmeno afferrato il tuo nome, l’hai pronunciato con la sigaretta accesa stretta tra le labbra e io era già sulle difensive per il tuo aspetto dimesso e per il fatto che non so se parti o se arrivi e in ogni caso non hai niente con te. Nemmeno un giornale. Nemmeno un libro. E il sacchetto che reggi con due dita contiene il tuo bagaglio il che è strano. Intanto usi una borsa di nylon per la spesa come valigia e poi è strano che c’è così poco dentro e mi immagino qualunque cosa ci sia la tirerai fuori tutta stropicciata, no?

Così mi dici che non arrivi e non parti, in realtà sei a metà e devi solo proseguire verso ponente, tornare a casa, e senza che te lo chieda mi dici da dove vieni. Vieni da una prigione e sei uscito poche ore fa e in realtà non sai nemmeno chi troverai e se troverai qualcuno al tuo paese, che poi non ti hanno nemmeno arrestato lì. Ma visto che hai voglia di parlare, non parli e posi il sacchetto e con un’altra sigaretta accesa tra le labbra ti tiri su le maniche della camicia, prima una e poi l’altra e così vedo gli interni degli avambracci e tutte quelle cicatrici orizzontali. Io non sono capace a rispondere agli indovinelli, tipo indovina quanto ho pagato queste scarpe e sparo sempre o troppo alto o troppo basso perché un po’ mi agito di fronte alla responsabilità di deludere chi vuole stupirmi con quella richiesta, e un po’ perché non ho quel senso pratico che a chi ce l’ha fa fare gli affari. Così provo a rispondere esattamente sull’origine di quei tagli e non credo si tratti di un tentativo di suicidio, perché non ci si taglia le vene così, giusto? Basta un zac netto sui polsi, non cinque o sei solchi orizzontali e paralleli, dalla mano all’incavo del gomito. Ma per fortuna la tua suona come una domanda retorica, in cambio della risposta te ne devo offrire un’altra di sigaretta, non c’è problema amico. Quei tagli sono la punizione extra, meglio da solo che fatti da qualcun altro per espiare una soffiata perché dici di essere stato debole. A occhio debole non lo sembri, io in prigione non ci durerei nemmeno un pomeriggio figurati un anno come te. Cosa diranno quando ti vedranno tornare? Non lo so. Intanto tieni il resto del pacchetto, posso comprarmene un altro e fai in fretta che arriva il tuo treno. Non ci vuoi tornare più al fresco, mi dai la mano e vorrei vedere ancora una volta le cicatrici ma ti sei riabbottonato le maniche sui polsi. Buon rientro e fila dritto, vorrei dirti una cosa così e quello è il senso ma non conosco il gergo della mala e non voglio fare brutte figure.

la prima volta ti fa tremare

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Come ci si rimane male – vero? – quando si è persone irreprensibili e l’unica occasione in cui si fa uno strappo alla regola si viene immediatamente colti sul fatto e puniti. Lasci l’auto qualche minuto in divieto di sosta al mattino presto perché non c’è parcheggio nei pressi della farmacia ma il fatto che sussista una condizione d’urgenza relativa e soggettiva – magari devi acquistare la tachipirina in supposta perché hai il bimbo con la febbre a 39 e sei preoccupato – non ti rende differente da chi non si cura della segnaletica e delle norme stradali con regolarità e chi interpreta la viabilità secondo il proprio metro. Di fronte alla legge in quel frangente si è tutti uguali, non c’è differenza. Perché magari tu sei uno di quelli che fa i cinquanta in città, che occupa sempre la corsia a destra in autostrada, che lascia attraversare anche i piccioni. Ma mentre insegui la vigilessa che notoriamente è un po’ stronza solo perché applica alla lettera (giustamente) il codice della strada e la chiami e le spieghi che eri entrato solo cinque minuti in farmacia e lei (giustamente) ti risponde che se c’è un divieto di sosta non bisogna lasciar la macchina lì, e se le chiedi in un impeto di irriverenza se te la può togliere perché te ne stavi andando lei ti risponde (giustamente) che non siamo al mercato. In quei frangenti, ci fosse qualcuno con la telecamera che poi ti fa vedere la sequenza di gesti e parole con cui elabori il tuo piano difensivo, ecco, ti vergogneresti di te stesso. E che bruciore alle terga della propria statura morale. Nel momento in cui si delinque il danno è fatto, può essere la prima, la seconda o la millesima volta ma quando ti beccano, e per la giustizia non è mai successo, non c’è differenza tra te e quelli che additi come nemici della convivenza civile. Così torni a casa con il tuo bollettino precompilato al quale devi aggiungere a penna solo i trentanove euro di multa, e magari sei uno che pranza con tre euro al giorno comprando solo i prodotti in scadenza al 50% o prendi il caffè alla macchinetta in ufficio quando i colleghi vanno al bar e poi quei piccoli risparmi te li vedi andare in fumo perché non hai avuto la prontezza di adempiere al tuo dovere di automobilista. Per vivere di espedienti bisogna esserci tagliati o, per lo meno, non essere proprio sfigati. A combattere contro la legge è facile perdere, e se hai la coscienza a posto probabilmente l’hai tenuta nel posto sbagliato, perché da fuori non si vede.

nemmeno un’uscita di sicurezza

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Ieri sera ho visto Detachment, poi sono rientrato a casa e mi sono accorto di aver dimenticato la speranza al cinema.

in percentuale

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E poi ci siamo noi, quelli che parlano e parlano e poi alla fine si comportano esattamente come tutti gli altri e fanno massa. Programmiamo le partenze nei week-end con il bollino rosso e poi ci lamentiamo che siamo troppi al mondo. Ci spazientiamo stendendo l’asciugamano nell’unico rettangolo a disposizione della spiaggia che è su tutte le copertine delle riviste turistiche. Ci mettiamo in coda cinque minuti prima dello spettacolo serale del sabato e ci chiediamo perché all’estero tutti fanno i biglietti online e solo qui in Italia nessuno si fida a usare la carta di credito in Internet. E dall’alto della nostra superiorità morale rimaniamo esterrefatti dalla quantità di fauna in libera uscita a Milano, nel quadrilatero del commercio al dettaglio (dire il quadrilatero della moda sarebbe ingiusto nei confronti degli operatori del settore), il primo sabato pomeriggio di saldi estivi. Voglio dire, se ci sono eventi e luoghi la cui densità di frequentazione balza persino in testa ai titoli dei telegiornali, un motivo ci sarà.

Mettiamola così e cerchiamo un lato positivo dell’esperienza: solo i negozi veramente low profile sono impraticabili. Quelli in cui i prezzi al venti o cinquanta per cento precludono comunque acquisti di più di un capo a testa sono scarsamente frequentati. Si entra, si legge la cifra su un paio di cartellini, bella quella borsa, e ci credo che è  bella, scontata costa centosei euro, e la si rimette giù. Poi vai nella bolgia dei veri affari, provi a fartene piacere un’altra che di euro ne costa nemmeno venti ma è chiaro che qualche differenza nella manifattura la trovi.

Le commesse non hanno un minuto di pace e mi chiedo come facciano a raccapezzarsi in quella baraonda di capi femminili provati e da risistemare, che poi le collezioni estive sembrano tutte uguali a noi profani e mi incanto a osservare la velocità con cui ristabiliscono l’ordine di taglia e di colore e di modello, mentre tutto è contro di loro. La musica a palla. I clienti che le scontrano con le borse passando. Quelli che chiedono se c’è la quarantadue di quella gonna marron e la risposta standard “tutto quello che c’è è esposto”. Poi arriva la commessa chiamata a giornata che domanda dove si deve posizionare, ha ricevuto via sms dalla corporate un codice da presentare alla direttrice delle vendite ed è a quel punto che mi viene in mente una cosa un po’ banale, che siamo tutti un numero che qualcuno più in alto di noi nella gerarchia sociale ci assegna al reparto donna o uomo per dieci ore, il turno dalle dodici fino alle ventidue perché è il primo sabato di saldi nel quadrilatero commerciale.

Finalmente poi ritrovi la persona che stai accompagnando, e non vorrei cadere nei luoghi comuni svelandone il genere di appartenenza, perché a noi dell’altro genere al terzo negozio iniziano a indolenzirci le gambe e a un certo punto smettiamo di seguirla e ci limitiamo a osservare gli altri. Magari siamo in grado di correre per ore, ma pochi minuti di stop&go continui possono essere letali. E al primo negozio siamo pure collaborativi, meglio questo di quest’altro, vedi è un colore che puoi sfruttare di più. Ma dopo seguiamo come robot senza carica la persona che stiamo accompagnando, deambuliamo alla mercé della ressa intontiti dalle luci, dall’aria condizionata, dalla techno che esce dalle casse e dallo sforzo nel cogliere le sfumature tra una camicetta e un’altra, una raffinatezza fuori portata per la nostra grettezza. Dicevo che a un certo punto la la persona che stiamo accompagnando riemerge con decine di capi in mano e si consuma il rito della prova nei camerini, una volta superata la coda, dove però non fanno entrare e così noi accompagnatori ci mettiamo in punta di piedi all’ingresso oltre la fila e attendiamo che la persona che stiamo accompagnando si faccia vedere e ci chieda a distanza con l’espressione del viso il nostro parere che noi, sintonizzati su quel linguaggio tutto di mimica, restituiamo un po’ frettolosamente perché ormai il senso critico pulsa come le caviglie.

C’è poi la tappa al bagno, molti di quei grandi esercizi commerciali ne hanno uno che tengono però segreto per evitare che la gente entri con il solo scopo di servirsene, ma quelli a cui poi serve veramente si ritrovano nell’unico negozio che non ne è provvisto, o magari nel giorno dei saldi c’è troppo via vai e la commessa a cui l’hai chiesto ti dice che no, loro non ce l’hanno, ti conviene andare qui di fronte. E uscendo scopri che il qui di fronte corrisponde al Burger King che è un altro di quei posti sulla tua black list e hai fatto pure vedere a tua figlia “Supersize me” tanto che lei rifiuta gli inviti alle feste di compleanno organizzate al Mac Donald’s perché ha paura di mangiare e sentirsi male, un terrorismo psicologico che comunque dà le sue soddisfazioni. Così ecco un’altra coda in quel concentrato di nuove povertà, d’altronde è l’accessibilità del junk-food il vero intermediatore culturale, a ogni tavolo un’etnia diversa ma lo stesso tipo di merenda scelta per i figli.

Il sipario sui saldi cala con il rush finale, gli ultimi due-tre negozi dove però non si trova nulla ma solo perché le energie di tutti, potenziali acquirenti e accompagnatori, sono in rosso. Ogni tanto addirittura sembra di avere un sacchetto in meno, e ci si spaventa ma poi ci si ricorda di aver accorpato i più piccoli dentro i più grandi. Ma il bottino, al netto della giornata, è ugualmente scarso. La qualità e lo stile imperante scoraggiano anche i portafogli meglio disposti, e comunque è meglio andarci piano con i soldi. Non si sa mai quello che può succedere, ci diciamo rientrati a casa, controllando gli scontrini proprio come tutti.

la virtù sta nel mezzo

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Le riforme del mondo del lavoro sembrano avere come focus i giovani e facilitare il loro ingresso nel mercato. I sindacati vivono grazie ai pensionati iscritti e mirano a tutelare i loro stakeholder più attempati, il caso della SPI-CGIL è eclatante. Sono quelli equidistanti tra i due poli che non se li fila nessuno, ed è quello che mi preoccupa visto che mi trovo proprio lì.

venerdì santo

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“Non posso essermi sbagliato, ne sono arcisicuro”. I due ragazzini stanno davanti alla tv, il padrone di casa armeggia con il telecomando del videoregistratore per far avanzare velocemente una cassetta, fino a quando preme play e fa partire un noto adattamento televisivo della passione di Cristo, si vede la processione di guardie romane e gente comune salire verso la vetta del Golgota e in mezzo il condannato a morte con la sua croce sulla schiena. Poi sappiamo tutti come è andata, tanto che il ragazzino schiaccia ancora l’avanzamento veloce fino al punto in cui gli amici più stretti del defunto tolgono i chiodi e lo depongono giù. Ed è quello il momento decisivo. “Sono sicuro di aver sentito l’odore delle ferite”, dice mettendo il fermo immagine e indicando le future stimmate e i tagli nel torace causati dalle lance dei soldati per accelerarne il decesso. “Tutti questi buchi, una volta aperti, devono aver per forza emesso un odore”. L’altro fa di sì con la testa e si appresta a provare la stessa cosa, anche se ammette che difficilmente il nastro di una vhs possa registrare e riprodurre odori. “Probabilmente l’hai sentito solo tu e una volta sola”, gli dice poi al termine della proiezione, che non ha avuto l’esito sperato. “Un miracolo non si ripete a comando”.

l’odore della storia

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Nel giro di qualche isolato ce ne sono parecchi, a mente ne conto una decina, ed è un fenomeno che non mi spiego. Capisco al limite l’esistenza di un distretto della ceramica, una valle del silicone e un’intera provincia che pullula di mobilifici, ma non una via degli antiquari e il perché di una concentrazione in qualche centinaio di metri di così tante cianfrusaglie. Si crea una sorta di economia consortile? Si sfrutta la presenza naturale di materie prime? Si condividono infrastrutture e un polo logistico tale da abbattere costi altrimenti insostenibili da realtà medio-piccole? Si genera indotto a vantaggio comune? Non saprei, ma a naso direi di no.

Forse il fatto che nel tratto di strada che calpesto da anni tra la fermata della metro e l’ufficio sia un susseguirsi di negozietti contigui di cose d’altri tempi è una strategia marketing pensata per attirare acquirenti che altrimenti si disperderebbero, trattandosi di clienti facoltosi quanto appassionati di prodotti di nicchia. I proprietari li vedo ogni giorno fuori dalle loro rivendite a chiacchierare e fumare sigarette e a scambiarsi valutazioni su questo o quell’altro pezzo. Cose d’altri tempi, già, ma si tratta di tempi remoti, non ricordo di aver mai visto nelle vetrine pezzi dal liberty in giù, quindi niente vintage o modernariato, pochissimo novecento ma solo un tripudio di tarme. Talvolta fuori da una delle botteghe c’è qualcuno che carica o scarica un comò, l’anima del mobile in un viaggio e poi tutti i cassetti ciascuno avvolto nella carta antiurto, quella con le bolle d’aria che ha diffuso nuovi esilaranti passatempi. Ieri un negoziante si girava tra le mani un cristo in croce ma senza croce, mentre un collega/aiutante misurava quell’opera incompiuta e doppiamente nuda – senza veli e senza sostegno – con un metro rudimentale per stimare la risoluzione del problema adattando una croce non sua.

Ma al di là del valore oggettivo dei quadri, delle cornici e dei putti che fanno bella mostra nelle vetrine, un valore che non saprei quantificare ma viste le cilindrate e il lusso delle automobili che i clienti lasciano in doppia fila per concludere affari è facile immaginare (è un mercato che malgrado la crisi sembra non conoscere flessione), mi colpisce l’odore inconfondibile di quelle rivendite di passato. I miei genitori mi mandavano a pagare l’affitto a casa delle proprietarie dell’appartamento in cui risiedono tutt’ora, due sorelle mancate da poco e vissute fino a più di cento anni. Ma anche trent’anni fa io me le ricordo già come vecchine piuttosto decrepite, e i sontuosi ambienti in cui mi ricevevano erano caratterizzati da un forte odore di chiuso che non saprei come altro definire se non da casa della nonna, perché in modo meno concentrato lo ritrovavo anche là. Poi c’era la sala prove in cui ho trascorso anni di sogni, uno scantinato privo di finestre con un tasso di umidità da foresta amazzonica e ricoperto di scarti di moquette che di quell’umidità era intrisa, in cui l’atmosfera non riusciva ad essere soverchiata nemmeno dalla concentrazione di musicisti e visitatori la cui compagnia, in quell’età in cui sviluppo ormonale e sudorazione si miscelano irrimediabilmente, non è delle più piacevoli.

Ecco, se potessi classificare la miscela d’aria che si respira all’interno dei negozi di antiquariato che si susseguono in quel tratto di strada, aria che è facile percepire passando lì davanti, direi un 60% di casa della nonna unito a un 40% di sala prove dopo due ore di rock’n’roll. Io gli antiquari li vedo spesso fuori a chiacchierare, la mattina e mentre torno a casa. E forse ho capito perché.

senza voce

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Ogni tanto i gruppi te li piazzano nella tracklist del loro ultimo album e un po’ ti trovi spiazzato le prime volte perché non capisci il senso di inserire un brano senza la voce quando il cantante spesso è tutto in una band. Mi riferisco ai pezzi strumentali. A volte ti lasciano quel sapore agrodolce di un’esperienza interrotta, l’impressione è quella che manchi qualcosa o addirittura si tratti di riempitivi per completare lo spazio a disposizione soprattutto un tempo, quando era necessario riempire i solchi del vinile. Poi gli strumentali sono diventati vera materia prima per i campionatori e i produttori di musica elettronica e rap, si potevano sfruttare parti già pronte all’uso per digitalizzarle, scomporle e ricicciarle per nuove canzoni. Ma gli originali i gruppi poi non li suonavano nemmeno dal vivo, o magari li utilizzavano come sigla di apertura. Ce ne sono molti ed è un’impresa ricordarli tutti. A me piace molto questo “Someone up there likes you” dei Simple Minds tratto da “New gold dream”. Atmosfere da pioggia in macchina, con i finestrini chiusi naturalmente, un bel giro di basso di bordone e poi un cambio-refrain per riempirsi di beatitudine e crogiolarsi in malinconia ad libitum.