mi han detto che ti piacciono le ragazze col ciuffo

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Nel 1983 o giù di lì convinsi un mio compagno di classe ad accompagnarmi nell’intrepida impresa di seguire una tipa, una liceale di cui mi ero invaghito perché vestiva di grigio e portava una acconciatura che allora andava molto di moda, un insieme che costituiva il mio ideale estetico. La tipa in questione stava facendo shopping con la sua mamma, io mi tenevo a debita distanza. Non avevo altra pretesa che inebriarmi un po’ della sua scia di beatitudine, sapete come succede quando si è giovani e imbevuti di quella sostanza psicotropa nota come Sturm und Drang corretta con una giusta dose di ormoni in subbuglio. La sessione di interruppe bruscamente quando madre e figlia entrarono in un negozio di biancheria intima, sbirciai la scelta di un reggiseno grigio ma mi trassi via imbarazzato, onestamente non ero ancora pronto a tanto. Ma non è di questo che volevo parlare, bensì di quel taglio di capelli che era un must all’epoca di chi aveva il diario farcito di ritagli di Ciao 2001 di gruppi New Wave tendenti al New Romantic. Un’acconciatura di tendenza che in Italia aveva avuto la sua massima esponente in Diana Est, la cui bellezza latin-brit potete verificare in calce a questo post. Oggi la pettinatura in questione, che non saprei come definire se non “a schiaffo” e che consiste in un lato rasato che sfuma in un ciuffo lunghissimo dall’altro, è tornata in auge. Se portate i capelli così e vi sentite seguite da qualcuno, fate attenzione. Potrei essere io.

planetario

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C’è il sole ancora caldo dietro, mancano un paio d’ore al tramonto, e già la luna cerea nell’azzurro terso davanti. In mezzo ci siamo noi tre, con le nostre ombre lunghissime sulla terra, una misura record sul sentiero, se alzo il braccio tocco il limite del parco. Che combinazione: una stella, un pianeta e il suo satellite anche loro. Ma noi senza gerarchia alcuna, tutti nelle orbite altrui a girarci intorno giorno e notte, rotazioni e rivoluzioni. E quando ci incrociamo ci prendiamo in giro e scoppiamo a ridere. Hai le macchie! E tu sei tutto rosso. E allora tu hai montagne alte sulla superficie che sembrano brufoli. Il giorno è lo stesso per tutti, la notte pure. Seguiamo lo stesso ritmo, in fondo conviene per l’equilibrio individuale e comune. Siamo un sistema con la sua forza di gravità, un paio di gatti che ci fanno il solletico, qualche scocciatura di quelle che si risolveranno fuori, un giorno, ma non ci fanno perdere nemmeno un istante del nostro ciclo completo. Tante stagioni quante ci pare e piace: oggi era ancora estate, stasera è già inverno inoltrato, domani decideremo dopo la sveglia.

alcuni audaci in tasca l’umiltà

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Non sapevo come fosse fare politica attiva nel 2011, dedicarsi a un partito oggi, in un momento in cui i partiti non se li fila più nessuno, che qualsiasi cosa categorizzabile nell’insieme della cosa pubblica viene bollata dalla spregevole generalizzazione di avanzo di casta, mannaggia a quei due che hanno lanciato la moda. Non capivo come ci potessero essere ancora persone che si incontrano per discutere, leggere le direttive del segretario, raccogliere idee e discussioni da portare alla direzione provinciale, poi regionale, poi nazionale. Vedersi per parlare anche di sé, in quella forma di associazione da extraterrestri, più che di persone di un altro tempo. Chiedersi quale sia la strada migliore per avvicinare le persone, attuarla per poi rendersi conto che non funziona, quindi ripartire da capo, ogni volta. La tenacia di costituirsi base attiva, andare in un senso mentre il vertice non si capisce bene dove si collochi. Verso il centro, verso la sinistra, verso dove porta l’emergenza nazionale o verso la coscienza di novant’anni di storia. E quando compiremo un secolo, chi ci sarà? Saremo più o meno di oggi, si chiedono, perché se oggi i giovani si contano sui gomiti, nel 2021 chi continuerà la nostra storia, chi si prenderà cura della nostra eredità culturale. Poi l’estate, la festa, i dibattiti e le salamelle, i volontari che partono per dare una mano a quella provinciale. Le raccolte di firme e i volantini, per far sapere le esigenze del territorio a chi non se ne preoccupa. Non ci si cura nemmeno delle esigenze del condominio, figuriamoci poi la città. Tanto la politica è un coprirsi di insulti in un talk show senza capo né coda, un eterno urlarsi senza moderatore fatto apposta affinché i contenuti siano ancora meno chiari. L’estetica dello scontro. Il potere del telecomando. La salvezza dell’oblio nella quotidianità. E fare politica attiva nel 2011, quella che ricostruisce nei circoli territoriali tutto quello che viene stracciato la sera dai responsabili nazionali alla TV, solo i supereoi possono arrivare a tanto. Individui affetti da indomabile titanismo, vedono speranza in un raggio di azione sempre più ristretto. Chissà se sopravviveranno anche all’ultimo attacco, il più feroce, più spietato anche del qualunquismo. Quello della rete. Aspettando, anche qui, l’arrembaggio dei Pirati. Fa davvero venire voglia di fare la tessera.

mio dio è pieno di stelle

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Ero una astronauta e stavo nuotando nello spazio, dalla Terra verso Giove, quando ho sentito un’esplosione. Mi sono voltata e visto la Terra che si stava distruggendo. Allora mi sono tolta il casco della tuta, per morire“. Ditemi che è la sceneggiatura di un film esistente, vi prego.

con la testa sulla porta (ma era un sogno)

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Non sono molti i dischi che mi piacciono per intero, intendo l’ascolto in sequenza di tutti i pezzi. Magari c’è quella canzone che mi annoia o che mi disturba, ma la lascio lo stesso perché sentire dall’inizio alla fine un album è un segno di rispetto per il gruppo o l’artista. La tracklist ha un senso e i pezzi devono essere ascoltati solo in quella direzione, ognuno a suo modo prepara il successivo, altrimenti il concept sarebbe stato pensato diversamente. Una visione un po’ integralista alla musica, direte voi, ma che ha un suo perché che può sfuggire considerando l’odierno approccio random su migliaia di pezzi, con l’effetto Virgin Radio che ne deriva, che lo ha reso superato. D’altronde l’aver messo in discussione il supporto e il mezzo stesso di contenimento del prodotto musicale ha completamente cambiato le carte in tavola.

“The head on the door”, come sapete, è l’ellepi dei The Cure che ha aperto la strada del successo pop alla band di Robert Smith. Non a caso i puristi al massimo arrivano a The Top, l’album precedente. Addirittura c’è chi si limita al solo periodo new wave del gruppo inglese, dagli esordi alla triade che si chiude con Pornography. Io non la penso così. “The head on the door” è un album che ha costituito la colonna sonora del mio primo vero upgrade, perdonatemi il termine, una serie di pezzi piuttosto facili considerando la categoria di appartenenza del gruppo in questione, che però hanno la rara caratteristica di rappresentare tutta la gamma degli umori, tutta la scala degli stati d’animo ciascuno con il suo ph, dal più depresso al più frizzante. Se non siete d’accordo, almeno provate a vederlo, anzi, ad ascoltarlo con le orecchie di un diciottenne. Ma bollori adolescienziali a parte, almeno ne si riconosca la straordinaria varietà di atmosfere, dal fill di batteria di “In between days” fino al delay con cui si inabissa “Sinking”, nel ronzio di un ascolto a volume smodato. Insomma, non c’è un solo pezzo che stona, non credo di averne mai saltato uno né in quel 1985 né ora, mentre sta per iniziare il riff di “Push” in questa seduta di ascolto pomeridiano. Un disco da meditazione, come quei liquori da gustare nei bicchieri appropriati, sufficientemente larghi da inalarne lo spirito. Un suono da notte in autostrada, da solo sulla strada del ritorno. E una manciata di canzoni da guardarsi in faccia e sorridersi, perché abbiamo capito che cosa è stato inutile dirsi.

Post Scriptum: prima di acquistare il disco, un caro amico me ne fece una copia su cassetta, gli ellepi costavano non poco e un ascolto preliminare all’investimento era d’obbligo. Ma il suo disco saltava su “A night like this”, quindi omise la traccia otto dalla registrazione senza avvertirmi. Ho consumato quella cassetta convinto che tra “Close to me” e “Screw” non ci fosse nulla. Oggi credo che “A night like this” sia una delle canzoni più belle dell’album, spero converrete con me. Allora non andò proprio così, anzi rimasi interdetto: un solo di sax in un pezzo dei Cure, che sacrilegio!

le macchie d’erba non vanno più via

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Stavo stirando un paio di pantaloni rosa di mia figlia con una vistosa chiazza verde sul ginocchio che è rimasta tale e quale malgrado il passaggio in lavatrice. Nulla di grave: qualche giorno fa al parco giocando a pallavolo con le amiche, lo slancio e la posa per un bagher sono stati fatali. Ma si tratta di un capo estivo, oramai non lo indosserà più e l’anno prossimo sarà sicuramente troppo corto e stretto, visto il ritmo con cui i bambini crescono. Ho pensato che le macchie d’erba non vanno più via e ho riso tra me, perché poteva essere benissimo una metafora. Sapete tutte quelle cose catastrofistiche che i genitori dicono ai propri figli riguardo le droghe leggere che fanno perdere la memoria. Ridevo da solo mentre continuavo a colpi di stirella, quindi ho cercato di mettere a fuoco la prima volta in cui ho fatto un tiro da una sigaretta di tabacco mescolato alla marijuana, comunemente detta spinello. Ho provato a ricordarlo, ma vi giuro che non ci sono riuscito.

alle radici degli smiths

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A distanza di quasi dieci anni ho capito finalmente che canzone mi ricorda The Seed 2.0, il pezzo di Cody Chesnutt poi rifatto nel 2003 insieme ai The Roots. Magari è cosa arcinota, o si è trattato di un tributo e non lo sapevo e e non mi sono documentato prima di scrivere e ci faccio una figura di “compost” (chiedo il parere più autorevole di Fdl), ma non ditemi che la somiglianza dei ritornelli la colgo solo io.

The Roots: The Seed 2.o

The Smiths: Rush and a push and the land is ours

campioni del mondo

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Attenzione: post per addetti ai lavori, si tratta di speculazioni da musicista nerd. Astenersi chitarristi (a parte SpeakerMuto, so che mi capisce.)

Avete presente, immagino, la relazione che sussiste tra la pressione di un tasto qualsiasi della vostra tastiera, ammesso che non siate ancora passati al touch screen e mi stiate leggendo su un iPad (cosa di cui sarei onorato, visto il periodo) e comunque anche in quel caso avrete pulsanti da premere per far accadere l’evento che fa partire l’azione che genera una conseguenza, no? Apri una pagina, chiudi una pagina, fai partire un video e così via. Nella mia idea di tastiera elettronica, nel senso di strumento musicale, quella che in parole povere si suona e che assomiglia al pianoforte che avete in salotto ma non riproduce alcun suono a meno che non sia allacciata alla rete elettrica o, in taluni casi, non sia collegata ad un ampli o, i più evoluti di voi, non sia connessa via usb al pc. Quella che la moltitudine indotta (nel senso latino, da indoctus) chiama volgarmente pianola. Dicevo, la mia idea di tastiera elettronica è più simile a una componente di un pc più che a un pianoforte. Una periferica composta da tanti tasti funzione – F1 F2 eccetera, quelli che stanno in alto e che nessuno oramai usa più – assegnabili a una nota, a un suono, a un rumore, a un loop a discrezione dell’utente. Dodici tasti bianchi e neri per ottava, ma non necessariamente note in scala (do do# re re# ecc…) ma programmabili a seconda delle esigenze.

Questo preambolo incomprensibile ai più, mi serve a introdurre il sampler, in italiano campionatore. Il sampler è stato per anni la mia passione perché ha dato vita alla perfetta materializzazione di quanto detto sopra. Quando tramontò temporaneamente l’era dei sintetizzatori analogici, siamo a metà anni 80, furono immesse sul mercato tastiere che emulavano i suoni reali (piano, chitarra, fiati e così via) con una fedeltà a dir poco esilarante, ma a noi tastieristi non si richiedeva più di emettere mooggiti (bella questa, nevvero?) e inviluppi con tanto di portamento (anche questa non è male), bensì di fare la parte degli ottoni e degli archi, oltre a un ritorno a piano e organo. E già io non ci stavo dentro.

Poi ecco il campionatore, che c’era già. O meglio, esisteva il Fairlight ma potevi barattarlo con un appartamento, tanto costava, e poi senza appartamento non avresti saputo dove posizionarlo, perché intrasportabile. Furono immessi sul mercato, finalmente, sampler abbordabili, sempre a seguito di contratti capestro e rate impietose, chiaro. Però ci si divertiva a registrare i rumori e a trasformarli in suoni talvolta improponibili e difficilmente utilizzabili se non per il proprio autoerotismo melodico. Assoli di trapano, incidenti stradali con il pitch a meno quarantotto, componenti ritmiche da adattamenti di fragori di dubbia provenienza. E poi il loop, il ritmo lo faccio io e tu, batterista, se vuoi ti metti il clic in cuffia e mi segui, altrimenti faccio a meno di te. Tanto più che posso prendere i pattern scoperti dai cd, registrarli e riprodurli in eterno così, senza passaggi e rullate e sterili virtuosismi. Ma la cosa rivoluzionaria era che le mani non necessariamente dovevano suonare accordi o melodie, era come pilotare una console di comando di un universo sonoro che ora è passato di moda, fortunatamente grazie al ritorno dei mooggiti di cui sopra. Quindi, per fare un esempio, anche effetti già intonati all’esecuzione del pezzo assegnati al tasto più comodo a seconda delle altre parti di tastiera. Insomma, c’era davvero da divertirsi e si è trattato di una tecnologia musicale innovativa che ho sfruttato alla grande.

Oggi molti tastieristi usano il Mac collegato alla tastiera (nel senso di pianola): il computer può contenere infatti sia i sintetizzatori virtuali, che i campionamenti, che le tracce già pronte su cui suonare. Insomma, come avviene per gli altri ambiti in cui è utilizzato, è un unico strumento che fa tutto. Ma il rischio, che per l’Apple è più raro ma che comunque sussiste, è quello di dover interrompere un concerto e annunciare di dover riavviare il sistema. Per questo, anche se ho smesso di suonare ma non si sa mai (ehm), io ho ancora in cantina un vecchio Yamaha A3000 con 128 mega di ram, che fa ridere, ma collegabile via SCSI (che fa ancora più ridere) a uno Zip (qui ci sbellica letteralmente) a un Jaz o un lettore cd, da cui caricare ogni volta i banchi di suoni campionati necessari. Memorie su cui ho campionato tutto il campionabile, tanto quelli, i sampler, non crashano mai.

more blur

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La grandezza di una azienda la si misura in base a quante targhe automobilistiche e quanti volti le persone che vi lavorano hanno occultato, usando un filtro di Photoshop, sui miliardi di immagini che vanno a comporre quel sistema di riproduzione virtuale di tutte le strade del  mondo (o quasi) che si chiama Google Maps, anche se in realtà dicono che a fare tutto ciò sia stato un algoritmo intelligente. Ma io non ci credo.

lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite

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In Italia lasciare i bambini fuori dalla Chiesa, dai sacramenti e dal catechismo non è cosa semplice. Nella classe di mia figlia sono in cinque, lei compresa, a non essere battezzati per esempio, ma tre sono musulmani. Quattro di loro fanno un’ora alternativa all’ora di religione, noi abbiamo pensato invece che comunque avrebbe potuto essere interessante per nostra figlia sapere di che si tratta, darle strumenti affinché possa decidere da grande, se vorrà, come comportarsi con la religione. Non si è rivelata una scelta oculata, perché non abbiamo tenuto conto del fatto che preparare la comunione, seguire i riti, i canti comandati, studiare la mitologia che sta intorno al cattolicesimo è oltremodo attraente per i bambini curiosi, categoria a cui mia figlia sembra appartenere. Tanto che più di una volta, e poche ore fa si è consumata l’ultima, ci ha chiesto perché non è stata battezzata e ci ha confessato che le piacerebbe seguire catechismo e preparare la comunione.

La motivazione ufficiale è che si trova in minoranza nel gruppo dei pari. Sono convinto non sia giusto forzare i piccoli a sentire la diversità come un valore, perché per loro è difficile sviluppare una maturità emotiva adeguata. O magari la sviluppano, ma i compagni di classe non sempre la capiscono. A noi sembrava peggio estrometterla dall’ora di religione, era come rimarcare in modo più accentuato una differenza culturale, tuttavia il problema si presenta con una certa ricorrenza.

Ma devo ammettere che parlare molto chiaramente, non mentire sulle proprie posizioni anche quando si pensa siano difficili da afferrare per i figli alla fine paghi. E non è stato nemmeno così complesso spiegarle perché non siamo credenti e praticanti, e soprattutto perché ci sentiamo così lontani da una comunità politica e spirituale che nega i diritti fondamentali alle persone omosessuali, portandole l’esempio di una coppia di amiche di famiglia, compagne di vita, che lei stima enormemente e che per lei sono più che zie. Perché vuoi far parte di una comunità che impedisce a loro di sposarsi, di adottare figli, di costruirsi una famiglia come la nostra, influenzando addirittura la legislazione e i poteri politici che potrebbero permettere tutto ciò? A sostegno della tesi le abbiamo mostrato gli esempi degli stati stranieri che, privi di un sistema di opinion leading interno come il Vaticano in Italia, possono difendere le coppie dello stesso sesso dai pregiudizi socio-culturali con l’informazione, con la cultura e, soprattutto, con la legge (ovviamente con terminologia adeguata all’età).

Non so, non nego che la cosa ci crei confusione, ma penso che sia un metodo vincente, alla lunga. Lei potrà comunque non privarsi dell’aspetto favolistico della religione, il Natale e tutto il resto, le feste che hanno un fascino indubbio e difficile da sostituire con un’alternativa altrettanto appagante. Ma se si ripresenterà il problema, sono certo che useremo gli stessi argomenti a difesa della nostra scelta. Per continuare la sana cultura cattocomunista di famiglia.