c di campioni

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Per il terzo anno consecutivo quelli della sezione C si sono presentati alle gare sportive di istituto con quella maglietta, e ancora una volta non sono riuscito a fare una foto per documentare l’errore. Peccato perché non ci sarà più occasione. Mia figlia si accinge a concludere il suo cammino nella secondaria di primo grado e l’anno prossimo chissà in quali attività para-scolastiche sarà impegnata al liceo classico. Il certamen di Latino? Il lancio del vocabolario di Greco? Le olimpiadi della Matematica? Il torneo di volley degli istituti superiori? Non credo che, comunque, a quell’età si dovrà ancora indossare nelle occasioni ufficiali una divisa o un vessillo che provi l’appartenenza a una sezione. Ve lo immaginate? Passino le felpe di istituto (il liceo a cui si è iscritta la ragazza ne è provvisto, e sono pure belle) ma la t-shirt a colori con la lettera sul davanti spero proprio di no.

Alle medie invece è una prassi e, nel caso delle sfide di atletica, è anche utile per identificare il corso di appartenenza, per non parlare del caso della staffetta in cui i partecipanti possono identificare meglio il compagno a cui affidare il testimone. Vi siete riconosciuti? Allora leggete qui: se vi apprestate a suggerire alla classe di vostro figlia/a che cosa scriverci su vi do due dritte. Primo: non aggiungete la classe, oltre la sezione, così vi durerà per tutti e tre gli anni (ridendo e scherzando una stampa di quel tipo costa una decina di euro a capoccia). Non l’ho suggerito io alla classe di mia figlia, ma questa linea è passata. Certo, qualcuno nel frattempo ha cambiato la taglia dell’abbigliamento ma, tutto sommato, cercando di essere previdenti in prima, non si dovrebbero correre rischi e alla fine la t-shirt con la E davanti e il nome sulla schiena è andata bene anche stamattina.

Secondo, ma più importante: se volete aggiungere uno slogan, una frase simpatica o qualunque cosa che contraddistingua i ragazzi controllate bene il file prima di mandarlo allo stampatore. Sebbene sia un copywriter non ne faccio una questione di originalità: quelli della A hanno provato con miticA, e va bene. Ma quelli della C hanno toppato in pieno, volendo fare i pazzeschi. Così per il terzo anno consecutivo quelli della sezione C si sono presentati alle gare sportive di istituto ancora con la maglietta con su scritto “We are the Champion”. Proprio così, con “Champion” senza la esse finale. Non so chi sia il loro prof di inglese, o magari fanno solo francese ma non ci credo e in ogni caso che brutta figura per la scuola come istituzione. Passi non conoscere i Queen, passi la fretta per cui non si controlla mai il lavoro prima di consegnarlo (ogni mio post contiene in media almeno un paio di refugi, oops volevo dire di refusi) ma in tre anni qualcuno, oltre a me, se ne sarà accorto oppure no?

ragazzi studiate, che è meglio

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Il futuro sta nelle cose che non sono quello che dovrebbero essere. Un libro senza trama, un disco senza suono, una casa non abitabile, cibo che non si mangia e una sedia che non ti regge. Campanelli che suonano fuori dalla porta e dentro non si sentono, scoop che rivelano cose trite e ritrite, spot pubblicitari in cui si omette il nome del prodotto. “Compratelo!”, dicono gli attori alla fine. Ok, ma cosa? Sui social, in questo futuro così irriverente verso l’evoluzione dell’uomo, si fanno conversazioni senza capo né coda, si fanno richieste senza poi curarsi della risposta ottenuta. Persino i PC hanno tastiere mute che inviano input a cazzo al sistema operativo, una funzionalità che non sfigura tra abitudini come mangiare avanzi di cibo senza riscaldarli prima, parlare senza dire niente, mettersi in macchina e partire senza destinazione. Ci si ferma dove capita e si pernotta lì, nel primo albergo che si trova. Sempre che in questo futuro esista ancora il settore dell’accoglienza. Io credo che tra un secolo le uniche costruzioni sopravvissute al progresso saranno i Data Center, e sapete perché? Io, tu che stai leggendo, tutti voi abitanti del mondo mondiale che riempite l’Internet di roba a partire dai milioni di miliardi di mail su Gmail che non cancellate perché tanto il signor Google vi lascia trilioni di terabyte di spazio a disposizione e chi se ne importa. Da qualche parte tutte queste cose devono essere contenute, o pensate che il Cloud sia composto veramente dalle nuvole che vedete in cielo? Ecco, moltiplicate questo accumulo compulsivo per i miliardi di persone che ci saranno nel 2117 e provate a pensare a quanti armadi di server dovremmo avere a disposizione. Noi esseri umani vivremo nei sottoscala di questi centri di calcolo ma tanto, come dicevo prima, per noi esseri umani sarà indifferente.

Scusate la completa sfiducia nel prossimo, ma ieri l’altro ho partecipato a un’assemblea di classe con i genitori, la classe di mia figlia, intendo, e sembra che in terza media più della metà dei ragazzi si presenti regolarmente alle lezioni ogni giorno senza aver svolto i compiti, con l’avallo dei genitori o, comunque, senza che i genitori si oppongano alla loro negligenza. Moltiplichiamo questo comportamento per dieci, cento, diecimila, mille milioni di scuole al mondo e tentiamo una proiezione sulle prossime generazioni e poi vediamo se non mi darete ragione.

ciò che ci fa scegliere i posti in cui trascorrere il nostro tempo

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Teresa fa l’insegnante ma le manca un pezzo di polpaccio sinistro come se l’avesse morsa uno squalo o almeno come ce la immaginiamo noi una menomazione del genere, visto che in natura certi fenomeni sono rari almeno qui dove è vero che il clima è impazzito e si vedono specie animali sconosciute ma gli squali, per il momento, è meglio se se ne stanno a casa loro. Nella sua lettera al portale dedicato ai professionisti della didattica dice che molti genitori dei suoi alunni hanno scelto la scuola in cui insegna lei perché è molto grande. Dice che i ragazzini entrano per la prima volta, vedono tutto quello spazio e dicono a mamma e papà questa è la scuola che fa per me. La cosa ha colpito molti lettori, uno su tutti quello che nei commenti ammette quanto da piccolo ambisse invece a vivere in uno spazio ristrettissimo. “Il mio massimo erano le edicole e i confessionali, anche se la mia preferenza andava per i primi perché oltre a essere così contenuti c’erano un sacco di cose da leggere”, racconta.

Come si pronuncia la psicologia a proposito? Meglio piccoli o enormi? Luisa, in risposta ai commenti che ho citato sopra, rilancia sostenendo che la nuova scuola elementare che stanno costruendo al suo paese è stata pensata con i corridoi al minimo di legge. “I bambini hanno bisogno di posti in cui sfogarsi dopo tutto il tempo che trascorrono da seduti”, afferma con tanto di punti esclamativi. Ma qualche commento più sotto, in un battibecco con qualcuno che dimostra di essere a conoscenza della faccenda, viene fuori che Luisa è tutt’altro che un architetto, vende mutande al mercato e si fa carico di certe posizioni solo perché non le piace l’amministrazione in carica e, alle ultime elezioni, sembra che si sia candidata al consiglio comunale prendendo 8 voti. Per dire, mia moglie ai tempi aveva superato i sessanta e si era sparata cinque anni di maggioranza che le hanno fatto passare la voglia di politica. Ma, a dimostrazione del fatto che il mondo è piccolo, vi svelo un segreto. Io ci sono stato nella scuola di Teresa. Ci faccio ginnastica due sere alla settimana e vi assicuro che sarà anche grande ma ci piove dentro.

per brevità Milano

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Stamattina ho accompagnato mia figlia a una lezione aperta in uno dei ginnasi che sta valutando come prosieguo degli studi. Il liceo si chiama Tito Livio ed è così in centro a Milano che lì a due passi ci sono i ruderi del circo romano, c’è una via di quelle che almeno una volta a fare shopping ci si deve andare, ci sono le fermate della metro con i nomi più famosi che sanno persino quelli che non sono di Milano, c’è il pavè e ci sono le scampanellate del tram. La lezione è durata due ore, era di greco e il prof, a quanto mi ha riferito mia figlia, era molto simpatico. Eravamo piuttosto emozionati entrambi e il perché è facile da intuire. Io l’ho lasciata all’ingresso e ho cercato di non commuovermi vedendola seguire il resto dei ragazzi che erano lì per lo stesso motivo. Ho pensato così di chiudermi in un bar a lavorare ed è così che ho scoperto l’Ostello Bello. Ho ordinato un cappuccio, mi sono connesso al loro wi-fi e mi sono sentito proprio nel centro di Milano, con i ragazzi stranieri ospiti della struttura che scendevano al bar a fare colazione, i gestori con il loro inglese impeccabile, il locale elegantemente scazzato come dev’essere un posto di quel tipo. Un insieme di fattori che mi ha fatto persino dimenticare la tensione, tanto che le due ore sono volate proficuamente. Mentre poi rientravamo verso casa e mia figlia mi raccontava qualche dettaglio di quell’esperienza che non avete idea di quanto la invidi, pensavo al fatto di vivere a poco meno di un chilometro ai confini con Milano e che per questo, a chi mi chiede dove abito, rispondo per brevità Milano. A mia figlia lasciamo la totale libertà di scegliere il liceo che preferirà solo a patto che la sede, qualunque essa sia, sia ubicata a Milano e non in provincia. Su questo aspetto siamo irremovibili, in modo che, a chi gli chiederà dove va a scuola, non abbia bisogno di omettere nulla.

gli esami di settembre

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Le invenzioni più straordinarie sono quelle che invertono un processo come lo conosciamo, dice la maestra. I bambini lungo un rigoroso circle time procedono così a elencare i pneumatici che non si bucano, i congelatori che non necessitano della sbrinatura, il riso che non scuoce, la birra analcolica, le lampadine accese che non scottano, il caffè decaffeinato, le macchine fotografiche subacquee, il pettine per i calvi senza capelli (l’alunno è un forte lettore di Topolino), i grassi che non fanno ingrassare e una grandissima quantità di cose per cui non si rischia più come una volta a partire dalle malattie di cui non si muore. La maestra alla fine tira le somme sostenendo quanto sia facile o meno prevedere tra quanto potremo consumare senza rischi di esaurire le risorse perché l’atto stesso del consumo di qualcosa produrrà l’energia e la materia necessaria per far nascere in qualche modo il doppio di quanto consumato, tanto che dovremo stare attenti a dove mettiamo i nostri sforzi e i nostri soldi. A uno dei più svegli della classe brillano gli occhi, come tutte le volte in cui si parla di progresso. La maestra lo ha beccato a disegnare cornicette con la svastica sul quaderno di scienze e ha reagito ostentando indifferenza. Si parla di inclusione nei libri di pedagogia ma un bambino che sembra uscito da un film sul quarto reich sarebbe da ostracizzare, lui e i suoi genitori che non controllano le barzellette sugli ebrei nel duemila e sedici con i forni, le saponette e i paralumi per le abat-jour. Dall’edificio di fronte uno studente di lirica si sta esercitando con i vocalizzi. Il circle time si divide tra chi scoppia a ridere e chi tenta di imitare il cantante. La maestra è comprensiva ma ricorda che anche loro hanno diritto esercitarsi, i cantanti lirici intende, altrimenti come potrebbero prepararsi ai concerti, ai provini e agli esami al conservatorio. Semmai l’errore è suo, della maestra intendo, non ha chiuso la finestra prima della lezione come faceva da bambina quando studiava pianoforte e il vicino violinista, in un palazzo di musicisti, la disturbava malgrado fosse un vero talento. E in quell’istante non vede l’ora che sia pronto il nuovo auditorium della scuola, così potrà insegnare ai bambini a suonare e urlare e a coprire, con le loro voci indomite, ogni rumore superfluo.

se vi capita di ascoltare due studenti in metro che si interrogano a vicenda simulando l’esame che si accingono a sostenere

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Se vi capita di ascoltare due studenti in metro che si interrogano a vicenda simulando l’esame che si accingono a sostenere, fornendosi risposte che non solo non stanno né in cielo né in terra ma cannando date ed eventi storici che si studiano alle medie, per esempio certe battaglie di Napoleone che davvero sanno anche i sassi, ecco se vi capita io vi dico: siate più indulgenti. Non saltate subito a conclusioni affrettate. Aspettate a ledere ulteriormente la già scarsa stima che provate per le nuove generazioni. Fermate per un attimo la vostra immaginazione che corre verso un indefinito istante nel futuro in cui vi vedete anziani sdraiati su un tavolo di una sala operatoria con uno di questi studenti di oggi agghindato da chirurgo con il bisturi in mano. Fate mente locale e considerate due aspetti. I ragazzi a scuola oggi sembra che non imparino nulla, ma in realtà non è così, almeno questa è la versione ufficiale con cui si difendono a spada tratta cose come i test a risposta multipla e altri metodi didattici. Per cui se inorridite di fronte alla scarsa dimestichezza dei vostri figli con la capacità di farsi comprendere attraverso ragionamenti con un capo e una coda intanto potete dare una letta alle mie cose che, voglio dire, in quanto a discorsi strampalati, uso della punteggiatura, consecutio temporum e altre regole grammaticali sembrano messe insieme da un marziano alle prese con la lingua italiana, premesso che io ho molti amici marziani. Poi riflettevo anche sul fatto di quante cose mi ricordo di tutto quello che ho studiato. Potete gratificarmi dicendomi che non c’entra, le cose che si studiano vanno a sedimentarsi e fanno da “sistema operativo” – l’hardware è il cervello, manco a dirlo – su cui funziona poi tutto il resto. Ma guardando il vostro piano di studi universitario, per non parlare delle materie fatte alle superiori e alle medie, quanto vi ricordate? A mia figlia non è la prima che do risposte sbagliate, le confondo le idee o devo rifugiarmi in ok google quando mi chiede una mano sui compiti. Magari regole o nozioni che do per scontato ma la cui definizione proprio si è persa nella nebbia del tempo. Non solo. A me e a una compagna di studi, mentre in treno ci ripetevamo parti del programma di storia moderna recandoci a sostenere l’esame in questione, uno sconosciuto compagno di viaggio di un paio di generazioni più vecchio di noi – probabilmente infastidito dalla nostra boria post-adolescenziale – si era burlato proprio delle inesattezze e delle lacune della nostra preparazione. L’umiliazione mi brucia ancora oggi, mentre scrivo queste righe. Così quando mi capita, come poco fa, di ascoltare due studenti in metro che si interrogano a vicenda e le castronerie che riescono a formulare, alzo il volume della musica in cuffia e mi immergo nell’oblio della lettura del momento, per non provare imbarazzo per loro e per me che non ricordo proprio la data di quella battaglia di Napoleone.

quello che non riusciamo a imparare

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Quindi abbiamo inventato piumini caldissimi prodotti con imbottiture e tessuti ultra-leggeri ma esistono ancora aule scolastiche tinteggiate color ospedale, metà pareti verdino malattia cronica e il resto bianco sporco scrostato, con arredamento stile libro cuore e muri spogli senza nemmeno una di quelle carte geografiche dove i ragazzi possono cercare asilo quando non ne possono più. E poi le luci al neon da ufficio del terziario parastatale anni ottanta con quella diffusione che forza l’uniformità, la piattezza, i non colori. Questo nel 2014 quando i nostri figli hanno a disposizione le tecnologie 3d dei multisala alla proiezione di film con effetti speciali che ti annullano la coscienza, strumenti digitali a risoluzione sinestesica, linguaggi talmente totalizzanti che nemmeno i guru della modernità e della filosofia della rete riescono a domare e a mettere al servizio dell’istruzione. D’altronde a che servono lavagne interattive – una roba che solo nella scuola come ci vogliono far credere debba essere sembra una tecnologia all’avanguardia al tempo dei tavoli touchscreen multiutente – e realtà aumentata per passare ore su Odoacre e Romolo Augustolo? Siamo talmente concentrati nello studiare da dove veniamo da non arrivare mai in tempo a capire dove siamo. Non serve fraintendere il presente solo perché oggi dà il peggio di sé se ci sono gli strumenti per isolarne il principio attivo e diffonderlo. Dobbiamo stare attenti perché se non siamo all’altezza del progresso corriamo il rischio che i nostri figli intendano scuola e istruzione come un deterrente al sapere, una bolla di sospensione dal tempo che abbiamo allestito per loro, considerando che ci è un po’ sfuggita la mano con gli ingredienti meno salubri.

Internet spiegato a casa, meglio così

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Il caso dell’Internet spiegato ai ragazzi mi sembra più uno dei tanti episodi di scarsa attenzione alle cose che riguardano un’età e un periodo scolastico dei nostri figli molto particolare, che invece dovrebbe al vertice delle nostre priorità ancora prima dell’adolescenza, del cosa gli faccio fare da grande e dell’organizzazione del loro matrimonio. Gli sforzi che dedichiamo alla salute fisica dei bambini dovrebbero corrispondere a un impegno alla tutela della loro crescita intellettiva, emotiva e sentimentale. Non ricordo chi chiedeva provocatoriamente se qualcuno darebbe da mangiare del cibo avariato ai propri figli. Allo stesso modo, dareste loro strumenti di apprendimento scadenti o poco efficaci? Vi propongo però una riflessione. Il divario tecnologico e digitale tra scuola primaria e secondaria e vita privata non è mai stato così ampio, a meno che non abbiate i mezzi per mandare i vostri bambini alle scuole dei ricchi e dei preti. Per dire, qui da me siamo abbastanza messi male con pc di almeno un paio di generazioni prima, disponibilità di LIM per alunno con percentuali vergognosamente inopportune ma anche insegnanti decisamente inadeguati da questo punto di vista. E la descrizione dell’Internet sul libro del 99 proposta ai ragazzi del 2014 è estremamente esemplificativa. Resta il fatto di stabilire in che modo l’Internet deve entrare nelle scuole. Cosa devono fare i ragazzi con la connettività? A cosa serve a loro essere sempre on line anche a scuola, e non solo a casa durante il tempo libero? Internet, da un punto di vista didattico, dev’essere uno strumento e, come tale, dovrebbe essere erogato nel modo meno obsolescente possibile, almeno in un mondo ideale in cui la scuola pubblica ha i soldi per poterselo permettere. Però attenzione perché so già dove si andrà a finire, con tutto questo tecno-entusiasmo. Non dimenticate che le famiglie – quelle italiane, eh – sono pronte ad acquistare qualsiasi dispositivo di nuova generazione e a investire in tecnologia (Internet, telefonia, tv) a scapito di qualsiasi altro bene di necessità e soprattutto lamentandosi ogni anni del costo dei libri di testo dei figli. Ma di questo passo, in un futuro nemmeno troppo lontano, ci sarà solo una materia di studio a scuola, e cioè come utilizzare la rete o quello che ci sarà allora, per accedere all’archivio di dati e informazioni di tutte le materie, dove trovare con il minimo sforzo e il massimo dei risultati tutto quello che ci serve sapere senza imparare, tanto ogni concetto sarà disponibile in tempo reale lì, in quello che nel testo del 99 avevamo definito cyber-spazio. Oggi, e domani lo sara ancora di più, Internet è un bene come la luce e il gas e la benzina, lo diamo per scontato e rimaniamo allibiti quando non c’è, quando non va, quando qualcuno ce ne parla ancora come di una emanazione divina. E non ci sono ore dedicate, a scuola, per insegnare ai ragazzi luce, gas e benzina. Se Internet si riduce all’uso di uno smartcoso, i ragazzi possono tranquillamente impararne l’uso da sé e, in classe, tornare a dare spazio al congiuntivo e alle equazioni.

per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso

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Qualche tempo fa, a quella trasmissione della domenica con le classi delle superiori che si sfidano sui libri, c’era un gioco in cui i ragazzi dovevano correre e suonare una campanella tipo il musichiere. Il giudice leggeva un brano e un rappresentante della classe si precipitava a dare la sua risposta, ma io non avevo seguito bene le regole perché facevo dell’altro. Il concorrente doveva indovinare titolo e autore dell’opera, ma poi ecco che c’è stato un equivoco, che è quello che su cui ho riflettuto fino a quando, come spesso succede, mi è venuta voglia di scriverlo qui e avviare una discussione. O, meglio, l’equivoco è stato tutto mio. Perché il giudice ha letto un brano tratto dalla Divina Commedia che ha attirato la mia attenzione in quanto parte di uno degli svariati canti che ho imparato a memoria, un po’ alle superiori e un po’ all’università, roba che naturalmente non ricordo più se non a stralci perché, come tutti, ho fatto spazio alle scemenze che la modernità ci ha venduto come il codice di accesso alla saggezza eterna. Il giudice ha letto qualche verso, a malapena un paio di terzine, uno dei giocatori è scattato di corsa, ha suonato la campana per primo e ha dato la sua risposta. “La Divina Commedia. Dante”. Grazie al cazzo, mi è venuto spontaneo malgrado ci fosse mia figlia nelle vicinanze. Ho pensato che scemo, quel ragazzo, ma che risposta ha dato? Se non sapeva il canto da cui quel verso è tratto perché è corso a rispondere? Non penserà mica che la risposta fosse solo quella?

E invece era proprio così. La risposta da fornire era il nome dell’autore, Dante, e il titolo dell’opera, la sappiamo tutti no? Il giudice non pretendeva altro e io ci sono rimasto male, e non perché sapevo il canto e il regno ultraterreno in cui la scena si svolgeva, ma perché mi sembrava una risposta molto ovvia. Come quando sentite il riff di Smoke on the water, le prime tre note della Toccata e fuga in re minore di Bach, il sapore del curry, la Gioconda, Saturno con i suoi anelli, i Blues Brothers eccetera eccetera. Cose che riconosci all’istante, tanto che è persino banale confermare a qualcuno il fatto di averle riconosciute. E, nel nostro caso, si dovrebbe riconoscere subito il canto, altro che autore e titolo, a maggior ragione se partecipi a una trasmissione sui libri occorre sapersi orientare.

E invece no, non è più richiesto. Basta sapere solo che è Dante, che è la Divina Commedia. All’esame di Italiano circolava un’edizione completamente priva di riferimenti. Pagine, note, indicazioni, numero del verso, forse anche titolo ma questa è una leggenda metropolitana. Niente di niente. Il professore o il suo assistente ti mettevano la rivoltella carica in mano, te la facevano puntare alla tempia, perché lasciavano la scelta casuale ai candidati. Apri a caso e dimmi dove siamo. Ecco, ci sono decine di occasioni nella vita in cui una risposta così non basta. La Divina Commedia. Dante. Bum. E non ripresentarti al prossimo giro, perché è un gioco in cui hai perso.

bianco che più bianco non si può

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Quest’anno ce l’abbiamo su un po’ con la maestra di inglese, che non è la stessa dell’anno scorso e se avete figli alle elementari purtroppo il turn over didattico a cui sono sottoposti converrete con me che non costituisce più il motivo principale per cui stare in pena, perché tanto va così e bisogna farsene una ragione. Cambiare gli insegnanti ogni classe è un dato di fatto, da cui la nuova preoccupazione maggiore che è la speranza che venga mantenuta una continuità e un livello omogeneo di qualità dell’insegnamento. Poi ci abitueremo anche a dare per scontato che non è così, quindi avremo di che angosciarci solo sperando che non crolli nulla in testa ai bimbi durante le lezioni, che non si apra la faglia di Sant’Andrea sotto la scuola, che non sbarchino gli extraterrestri nell’intervallo e così via. La maestra di inglese invece non ci sembra un granché perché, a differenza di quella che era di ruolo in terza, non dà compiti a casa e lezioni da studiare. Così ci è venuto il dubbio che i bambini non stiano imparando nulla di più di quel poco che era già stato fatto fino a qui, e qualche conferma l’abbiamo avuta chiedendo a nostra figlia se si ricorda le regole grammaticali, le parole e i verbi imparati. E per certi versi, i feedback sono state discontinui.

Poi è successo che, per la recita di Natale, le quarte – che condividono la stessa maestra – hanno imparato il canto “Happy Day”, eseguito live in occasione della festa-recita fatta prima dell’interruzione per le festività. E quanto intendo “Happy Day” ovviamente non mi riferisco alla sigla dell’omonimo telefilm (che poi è Happy Days) con Ralph Malph e la sua maglietta con su il nome e cognome stampato davanti e dietro, bensì al celebre inno alla gioia nella moderna natività, quel coro gospel un po’ hippy che tutti siamo abituati a sentire negli spot commerciali e in programmi trash come Buona Domenica cantato in playback da figuranti scosciate. Uno di quei brani di cui non conosco le parole e che da sempre canto con un inglese inventato alla Adriano Celentano. Per questo mentre mia figlia lo canticchiava in casa mi chiedevo perché proseguisse la strofa con “when Jesus washed”. E pensando alla maestra poco proattiva di cui sopra, subito mia moglie ed io ci siamo fatti una grossa risata. Cosa lava Gesù, le abbiamo detto, la macchina? No perché io ero convinto dicesse “when Jesus won”, quando Gesù ha vinto contro il male e bla bla bla. Mia figlia invece ci ha subito corretto, dicendo che Gesù lava i peccati. Ed è vero, diamine, la canzone dice proprio così. Ma il punto è che più cresce, mia figlia, e più comincia ad aver ragione su tutto, la sua mente fresca ed entusiasta ha già soverchiato più volte quella dei genitori, arrugginita dalle routine e dalla presunzione. Gesù lava i peccati, e forse la nuova maestra non è così male, anche se non dà i compiti a casa.