nella splendida cornice

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Da quando l’iPad, tablet e e-reader sono stati immessi sul mercato, il mondo della pubblicità si sta saturando di immagini inscritte nel celeberrimo rettangolo touch screen. L’immaginario si fa realtà se comprende un richiamo al contemporaneo in voga. E tutti i trend sono passati da lì: da l’iPhone a Second Life, gli schermi ultrapiatti e Facebook, il gioco della comunicazione cheap è facilitare la compatibilità e l’immedesimarsi del target con elementi familiari ma allo stesso tempo di grido, per fare sentire tutti aggiornati, parte della stessa era, l’ultima, insostituibili nel proprio ruolo psicosociale e, soprattutto, potenziali consumatori del prodotto pubblicizzato. La foto o il video sono più credibili se incollati con il software più appropriato nella cornice più famosa, previa rimozione in fotoritocco del brand per ovvi motivi di copyright. E già noi addetti ai lavori non ne possiamo più. Per fortuna la prossima tappa dell’hi-tech sarà sulle nuvole, con il cloud, finalmente si potrà puntare su una comunicazione aziendale più rasserenante.

anima mia torna a casa tua

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Ho un amico con cui posso parlare davvero di tutto, un rapporto perfetto perché io e lui abbiamo più o meno gli stessi gusti di letteratura, cinema e musica, ma in quel modo tangente per cui leggiamo, vediamo e ascoltiamo autori diversi; io so che mi possono piacere, il genere è quello, per cui siamo reciprocamente fonte di nuove conoscenze. Un po’ quello che accade ora anche sui socialcosi, dove c’è un frullatore che mette dentro tag e parole chiave e ti calcola la percentuale di compatibilità con le persone. Un sistema più o meno attendibile, insuperabile però se provato di persona, laddove intervengono fattori a cui presto non saremo più abituati. L’odore, il linguaggio del corpo e le altre percezioni fisiche che ci fanno scaturire il “mi piace” o il “non mi piace più” diretto, un giudizio che dal vivo possiamo anche tenerci per noi e manifestare cambiando le amicizie, così nessuna conoscenza in comune lo verrà mai a sapere.

C’è solo un terreno su cui non riesco a seguire questo mio amico. Ogni tanto mi parla di reincarnazione, teorie psicoanalitiche mescolate alla filosofia orientale, chakra, meditazione e esperienze extra-corporee, e anzi prego i lettori cultori di queste discipline di non biasimarmi per come sto trattando l’argomento, per la terminologia che uso e l’approccio. Questo blog, come ho già scritto altrove, si basa principalmente sulla cialtronaggine contraddittoria (mia) e sul pour parler, e non me ne abbiate se mi occupo di argomenti che vi stanno a cuore non conferendovi un’adeguata dignità. Ma su questo tema, o insieme di temi, mi trovate ancora meno informato di altri. La mia visione razionale della realtà mi impedisce di contemplare qualsiasi cosa sia meno tangibile della materia solida, già sul liquido non commestibile (e non alcolico) ho qualche problema. Figuriamoci con gli elementi gassosi e quelli non rappresentabili su un piano tridimensionale.

Chiacchieravo con lui di un argomento “leggero” come il rebirthing, che in un’iperbole ho definito esperienza limite per andare alla radice di alcuni miei conflitti interiori irrisolti. E dicevo all’amico che non sarebbe male provare un viaggio dentro il me stesso di quaranta e più anni fa, rivivere i momenti di rottura e isolarli in qualche modo, per affrontarli e vincerli in seguito. Lui, che è molto competente in materia, mi ha suggerito di andare oltre, trovare un canale per spingermi fino alle vite precedenti. Addirittura.

Ma quando penso alla reincarnazione, che ritengo una delle numerose teorie escatologiche sviluppatesi in qualche modo per dare conforto all’ineluttabilità della morte, penso alla sfiga del ritrovarsi servo della gleba nel medioevo, indigeno americano all’arrivo degli spagnoli o, per fare un esempio più recente, soldato-bambino in qualche guerra africana. Voglio dire, Berlusconi a parte non ci possiamo lamentare del livello di civiltà a cui siamo stati predestinati, qui nel nord-ovest del pianeta. Un luogo in cui l’incommensurabile, nel mio caso, ha solo le sembianze rarefatte di un grande cruccio che mi porto appresso da sempre, il sogno ricorrente che mi fa sobbalzare di notte: io partigiano che vengo braccato e ucciso dai nazisti nelle campagne di un luogo non identificato.

Forse, chiedo al mio amico, in una vita precedente sono stato realmente protagonista di un’uscita di scena così eroica e tragica. E il suo parere da esperto è un pugno nello stomaco: potrebbe anche essere il contrario, e cioè che la mia anima ha occupato il corpo di un ufficiale nazista che ha catturato un “bandito” comunista e lo ha freddato come lo sogno io, con la rivoltella sulla nuca. In effetti il conto torna. Personaggi nella scena onirica ce n’è più di uno. Ed ecco un motivo in più per continuare a ignorare chi sono stato prima. Non sopporterei mai un prequel simile.

bisogna saper perdere

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Alla seconda volta in cui vediamo passare il capotreno attraverso i vagoni, osservare le cappelliere e, se è presente una borsa o zaino porta computer, chiedere ai passeggeri sottostanti se appartiene a qualcuno di loro, è facile capire il dramma che si sta consumando. Qualcuno è sceso a qualche fermata prima dimenticando sul locale, pardon, suburbano per Lodi il proprio PC. O, peggio, con quello che costa, il Mac portatile. Quindi, realizzata la sciagura, il malcapitato è corso in biglietteria esponendo l’accaduto e implorando una azione rapida ed efficace. Ma a giudicare dall’espressione del capotreno, l’oggetto smarrito ha già cambiato proprietario. Che poi non è detto, magari quel qualcuno si sta già organizzando per rintracciare il pendolare smemorato che, tra poco, si troverà vis a vis con il suo destino.

Il momento in cui ti accorgi di aver perso o dimenticato qualcosa è poco meno doloroso di quando prendi un pugno in faccia, di quelli che ti lasciano attonito qualche secondo prima che inizi il dolore fortissimo, il sangue che ti cola dal naso o dalla bocca e che ti fanno accasciare per terra, talvolta senza sensi. Ti accorgi che manca proprio quella cosa nella mano ancora indolenzita che fino a poco tempo prima la teneva, ora che al posto della borsa stringe solo un po’ d’aria con il formicolio sul palmo. E inizi a fare una lista di tutto quello a cui dovrai rinunciare. Oltre al costo dell’oggetto, il lavoro, magari la tesi di laurea di cui è mesi che non fai un backup, tutte le foto della tua vita che non stampi perché sei un nativo digitale, le mail del fidanzato o un po’ di materiale compromettente, chissà. Non si tratta solo di merce che si è spostata da un individuo a un altro, si tratta di una parte di te a cui non avevi mai pensato come necessaria di un sistema di Disaster Recovery permanente.

E non vi nascondo che trovare un MacBook Pro da 17 pollici sul treno è uno dei miei sogni erotici preferiti. Lo vedo sopra di me incustodito, in una costosa borsa gialla. Mi guardo intorno, non c’è nessuno che possa reclamarlo. Così lo prendo con nonchalance e mi avvio all’uscita cercando il più possibile di soffocare l’emozione. Anche se so già che farei di tutto per restituirlo, e non lo dico solo per farmi bello su un blog, credetemi. Come premio di cotanta onestà, sogno a occhi aperti di trovare una busta piena di banconote da 500 euro, almeno un centinaio, frutto di una transazione illegale, così da poter essere intascata senza sensi di colpa. Non so, il pagamento di una tangente, una partita di droga pagata così sottobanco, la mala che ha retribuito un killer che poi, all’ultimo momento, si è pentito è ha deciso di lasciare lì la sua ricompensa in balìa del caso.

Trovare soldi in un vagone ferroviario mi è capitato solo una volta, con un esito degno di essere raccontato. Una storia che ha protagonista un portafogli contenente poco più di centomila lire. Mi sono affrettato, una volta sceso dal treno, a restituirlo alla Polfer in stazione soldi compresi e, tornato a casa, c’era una multa per divieto di sosta da poco più di centomila lire ad aspettarmi. La redenzione si è manifestata qualche mese dopo, a Natale di quell’anno, quando ricevetti un biglietto di auguri da parte del proprietario del portafogli, in ringraziamento del beau geste. Ho dimenticato sui treni invece molti ombrelli, in tanti anni di distrazione. Anzi, numerosi ombrelli, oggetti di poco valore che miracolosamente diventano invisibili all’uscita della stazione di arrivo, fuori piove e provo ad aprirli ma al posto dell’ombrello c’è il nulla, che protegge decisamente di meno.

in dote

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Non ero certo un buon partito. Anzi. Non essendo nemmeno proprietari di immobili, i miei mi hanno messo in valigia, il giorno in cui ho deciso sarebbe stato il mio primo giorno di indipendenza, nient’altro che la mia parte di ansia, una significativa somiglianza fisica con mio padre e un flacone di pessimismo concentrato e annegato in un intruglio di inconcludenza. Sì, c’era la casa di campagna di famiglia, ma quella se l’è presa con un raggiro da manuale mia sorella con quel criminale di mio cognato. Hai voglia, poi, a dire che essere figli unici è una sfortuna. Ecco, a parte l’amore per la musica, il resto l’ho guadagnato sul campo. Ho portato con me un contenitore di caramelle a forma di testa di supereroe in plastica, uno spremiagrumi Atlantic originale con confezione, una scatola portabiscotti arancione anni 70, una coppia di poltroncine vintage oramai valvola di sfogo dei gatti, e tutto il necessaire per ascoltare musica con qualsiasi device, dal più antico al più moderno. Compreso un set di cavi e riduzioni in grado di rendere ogni mezzo perfettamente integrabile con l’altro. Posso collegare l’iPod alla radio Tivoli, per esempio, o suonare il synth collegandolo alle casse della tv. Cosa che non faccio mai ma che potrei fare. Ecco. La mia ricchezza è questa. Posso intrattenerti per ore, fino alla tua nausea. Ti racconto, ti parlo, ti scrivo, ti spiego cosa è un blog. Ti suono qualcosa, ti faccio ascoltare canzoni e gruppi che non hai mai sentito nominare. Ti leggo i miei libri preferiti, guardiamo insieme film indimenticabili. Questo non significa che poi, alla fine, paghi tu. Ho un lavoro che mi permette di vivere più che dignitosamente. Ma gli extra, quelli haimé proprio non posso permettermeli. E questo perché nessuno aveva pensato che ci fosse un futuro tutto da costruire, aneddoti compresi.

con destrezza

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La ragazza alla cassa del supermercato sta per incavolarsi sul serio, questa volta. “Ma non l’ho nemmeno vista”, dice alla sua responsabile che, per non gettare nel panico la fila in attesa, le ha appena sussurrato qualcosa piano e talmente vicino al volto da farla indietreggiare con un sussulto, probabilmente per causa dell’alito. La signora davanti a me, con le mani nel borsellino intenta a pescare monete utili a ricevere in cambio il minor numero di tagli possibile, drizza subito le antenne. Ha inteso dal labiale che si tratta di una storia di zingari. Chiude subito il portamonete e si volta verso di me, come se avessi qualche informazione in più. Ma non ne so nulla, e non le ho ancora perdonato il fatto di aver avuto fretta nel posizionare il delimitatore di articoli sul rullo, come se volessi accollarle il mio euro e cinquanta di uva bianca. Capirai che malefatta. Così non ho nessuna voglia di appagare la sua sete di cronaca nera e faccio lo gnorri. Dagli uffici si scaglia infervorato il vicedirettore. La responsabile del turno gli corre incontro. “Non è ancora uscita”. Ma allora qual è il problema? La cassiera ci aggiorna. La figlia della tizia che stanzia lì davanti da sempre e a qualsiasi ora del giorno, tanto che è persino immortalata su Google Maps, è uscita di corsa dal supermercato con un pollo con le patate al forno. Senza pagare, ovviamente, non avrà nemmeno 4 anni. Quindi si è seduta sul marciapiede in attesa della madre. Le cassiere probabilmente, ma questo lo penso io, l’hanno vista ma non hanno detto nulla. La responsabile l’ha vista e ha visto che le cassiere di turno hanno visto ma non hanno detto nulla. Il vicedirettore ha mobilitato l’addetto alla sicurezza, ma non c’è stato bisogno. La madre della ladra di pollo con le patate al forno era al reparto latticini e sbuca con una mozzarella in mano, un prodotto di marca sottocosto. Viene messa al corrente dell’accaduto, al che corre fuori, prende in braccio la figlia, il pollo e le patate al forno e riporta tutto all’interno della barriera delle casse. Il vicedirettore, ad alta voce, la prende a male parole. “Li educate così fin da piccoli”. La signora davanti a me riapre il borsellino, la situazione è tornata alla normalità e la sicurezza ristabilita, e cerca nuovamente le monete utili. “L’ho vista sa”, dice alla cassiera, “prima mentre dava il pollo e le patate alla figlia. E che diceva alla bambina vai fuori, e aspettami lì”.

train man

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In agenzia qui da me è arrivata da poco una ragazza nuova, una grafica che ha preso il posto della precedente, dimissionaria. La nuova grafica viene da Bologna, nel senso che abita tutt’ora lì e, a parte qualche volta in cui approfitta di amici milanesi, ogni giorno copre la distanza tra casa sua, nel capoluogo emiliano-romagnolo, e l’ufficio, a Milano in zona Porta Venezia. Che non sono proprio due passi, come potete immaginare. Si tratta di una scelta che comporta alcuni sacrifici; intanto la spesa, un abbonamento ferroviario per quella tratta suppongo costi almeno un paio di centinaia di euro, alta velocità esclusa.

Ma è il proprio tempo la principale ricchezza a cui occorre essere pronti a rinunciare, in totale un minimo di quattro ore al giorno. E, aggiungo, desistere a ogni velleità di rivalsa nei confronti del trasporto pubblico di fronte a ritardi e disservizi derivanti, perché moltiplicano il disagio in modo esponenziale. Oltre ai soldi e al tempo perso, meglio mantenere il sangue freddo e non rovinarsi l’umore ogni giorno.

Io ne so qualcosa: per anni ho coperto la distanza tra Genova e il mio precedente posto di lavoro milanese ogni santo giorno in treno, quattro ore tonde tonde quotidiane regalate alla causa. A mio vantaggio c’era il tempo da dedicare alla lettura, così tanto non ne avevo mai avuto in vita mia. Ed è stata un’esperienza positiva anche dal punto di vista dei rapporti sociali. Su una carrozza frequentata da pendolari ho conosciuto uno dei miei migliori amici, e malgrado io abbia poi interrotto il pendolarismo trasferendomi qui, è ancora oggi un riferimento stabile della mia vita. Ma per il resto ho dovuto imparare a vincere ogni giorno una piccola battaglia contro l’inefficienza con una dose extra di pazienza, una bella scuola di sopravvivenza.

Ricordo però un mio compagno di viaggio, ingegnere, che nella sua metodicità annotava ogni mattina e ogni sera su un taccuino l’esatto numero di minuti di ritardo portati dal treno su cui si trovava. Aveva scelto di non trasferirsi mai a Milano e di continuare a viaggiare ogni giorno per il resto della sua vita professionale. Con un obiettivo: presentare il conto alle Ferrovie dello Stato, una volta in pensione, per riavere indietro tutta quella parte sostanziosa della sua esistenza gettata dal finestrino.

tono su tono

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Non ricordo chi scrisse che verrà un giorno in cui la SIAE farà pagare  le suonerie dei telefoni trasmesse a volume elevato in pubblico, quindi accomunate alle altre esecuzioni musicali dal vivo e soggette alle norme sul copyright. Forse è una cosa che ho pensato io, ma ne dubito, sin troppo elaborata. E quello che è successo per la Nokia e il celebre jingle dedicato ai suoi utenti è emblematico; i grandi vendor che ingaggeranno i dj di grido per realizzare remix delle loro musichette – o anche di canzoni celebri – da utilizzare in esclusiva sui loro nuovi modelli. O, faccio un esempio, la famosissima cantante pop che metterà a disposizione tramite iTunes una suoneria dedicata all’iPhone. Tutta roba che esiste già? Comunque, si tratta di un mercato occupato da un servizio di cui, almeno fino a poco tempo fa, non se ne sentiva il bisogno. Ma che mi lascia perplesso: in giro si sentono sempre più suonerie generiche, il classico driiiiiiiin per farmi capire, tanto che tutti siamo sempre lì, sul treno, a controllare chi sta ricevendo la chiamata. Forse la gente è finalmente stufa di set live estemporanei di fronte a sconosciuti?

in quale direzione creativa

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Quello che fa la differenza nel mio ambiente di lavoro è la capacità di convincere. C’è tutta una gerarchia di professioni che parte da chi sa influenzare meglio fino a chi non è tenuto a farlo. All’ultimo livello, il ground zero, c’è infatti la produzione, che deve mettere insieme le idee di chi ha persuaso quello sotto nella catena. Perché se riesci a convincere il team con cui operi gli altri fanno quello che dici tu, si diffonde la voce che sei bravo e sai fare il tuo lavoro. Non basta avere il guizzo, bisogna fare capire agli altri che quella è la strada. Quella è la verità. Quello è il verbo. Poi ci sono i fuoriclasse, chi ha la pensata e la manda così, via e-mail, senza faccine e spiegazioni a corredo. Chissà, forse vivono di gloria e rendita perché in passato hanno vinto il campionato mondiale di persuasione. Fatto sta che ora non si preoccupano minimamente di essere messi in discussione. L’ascetismo è invece uno stadio evolutivo ancora più estremo, è l’arte del partorire arte, la sublimazione della creatività in ufficio, quella che scaturisce indipendentemente dalla richiesta di prestazione e di feedback. Un asceta è un virtuoso che ha l’illuminazione e la scrive generalmente sul suo Social Network preferito, solo per essere contemplato. Ci sono infine quelli la cui capacità di essere convincenti costituisce una componente dello stipendio percepito. La degenerazione dell’arte del convincimento altrui è la provvigione, il risultato di una formula alchemica altrove definita vendita. Ma il commerciale, che prima del possibile acquirente deve aver persuaso se stesso, fugge da ogni logica in quanto agisce orizzontalmente, verso l’esterno dell’azienda. Quando per deformazione professionale si prodiga anche verticalmente si crea un corto circuito, il diagramma di flusso necessita di uno spin off non programmato e c’è il rischio di tilt. Non ci si fida più. Ci si chiede se la propria attività è utile, fa del bene anche oltre il mercato, o è solo pubblicità, è solo anima del commercio condannata all’inferno. Si persuade con le parole giuste, con uno sguardo, con i gesti, parlando nel vuoto, dimostrando se stessi con l’ausilio di Power Point. Va bene, mi hai convinto, dicono alla fine. O non si dice nulla se non un bravo, bell’idea. Ci aggiorniamo dài, al telefono. O, via mail, ti faccio sapere appena ho news.

o bianco fiore

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Se metti a zero l’intensità del colore sembra di stare in un film degli anni sessanta. Le famigliole al completo che tornano a casa, la domenica mattina, uscite da messa. La mamma con un cabaret di pasticcini in mano. Il vestito della festa, le bimbe con il cerchietto, i maschietti con i pantaloni corti e i calzettoni sotto il ginocchio. I genitori dietro, a braccetto o per mano, i figli davanti, i più grandi che fanno i fratelli maggiori badando ai più piccoli. All’uscita pomeridiana della scuola elementare si assiste a una seconda scena da boom economico, in un momento in cui del boom proprio non c’è nemmeno una lontana avvisaglia. Il numero delle mamme torna a essere maggiore dei nonni, il che significa più donne a casa. Alcune se lo possono permettere, altre non se lo potrebbero permettere ma sono rimaste senza lavoro. Terzo elemento apparentemente anacronistico, le coppie che sfornano tre o più figli. Ne ho presenti almeno quattro tra i miei conoscenti, con possibilità e redditi diversi. La nostra non è certo una società che te lo permette, né si può dire che al giorno d’oggi le famiglie numerose siano una ricchezza. Nel frattempo leggo di un grande fermento intorno a Claudio Scajola che, malgrado la doppia dimissione negli ultimi anni per motivi peraltro imbarazzanti, sta attirando le voglie dei centristi e dei cattolici di ogni dove, lui che a colpi di scudo crociato si è costruito un impero. Insomma, si parlava di un ritorno all’Italia democristiana. Ecco, direi che ci siamo dentro, ampiamente.

mi han detto che ti piacciono le ragazze col ciuffo

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Nel 1983 o giù di lì convinsi un mio compagno di classe ad accompagnarmi nell’intrepida impresa di seguire una tipa, una liceale di cui mi ero invaghito perché vestiva di grigio e portava una acconciatura che allora andava molto di moda, un insieme che costituiva il mio ideale estetico. La tipa in questione stava facendo shopping con la sua mamma, io mi tenevo a debita distanza. Non avevo altra pretesa che inebriarmi un po’ della sua scia di beatitudine, sapete come succede quando si è giovani e imbevuti di quella sostanza psicotropa nota come Sturm und Drang corretta con una giusta dose di ormoni in subbuglio. La sessione di interruppe bruscamente quando madre e figlia entrarono in un negozio di biancheria intima, sbirciai la scelta di un reggiseno grigio ma mi trassi via imbarazzato, onestamente non ero ancora pronto a tanto. Ma non è di questo che volevo parlare, bensì di quel taglio di capelli che era un must all’epoca di chi aveva il diario farcito di ritagli di Ciao 2001 di gruppi New Wave tendenti al New Romantic. Un’acconciatura di tendenza che in Italia aveva avuto la sua massima esponente in Diana Est, la cui bellezza latin-brit potete verificare in calce a questo post. Oggi la pettinatura in questione, che non saprei come definire se non “a schiaffo” e che consiste in un lato rasato che sfuma in un ciuffo lunghissimo dall’altro, è tornata in auge. Se portate i capelli così e vi sentite seguite da qualcuno, fate attenzione. Potrei essere io.