svendere sogni

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I due manovali dell’IT che mi ammorbano ogni santo giorno descrivendo a voce alta, in treno, questo o quell’altro trucco per vincere la perenne sfida tra l’uomo e la macchina, per inciso ricordatevi che potrete anche vincere una o più battaglie ma giammai riuscirete a sopraffare l’intelligenza artificiale, che ha un’espressione molto ma molto più sveglia della vostra. Questi due abili conversatori dei sistemi operativi che conoscono ogni riga di codice e ogni comando tranne uno, la funzione ciclica che diminuisce di uno a ogni giro il volume della voce fino a che il volume è uguale a zero, e ogni mattina in cui ci incrociamo, e purtroppo il caso ci fa scegliere oltre lo stesso orario anche gli stessi posti, mi distraggono dalla lettura facendomi inciampare nei loro dialoghi, gettando parole come cartacce nei sentieri della trama sulla quale cerco invano di concentrarmi. La suddetta coppia tutta maschile di maître à penser oggi non è sfuggita all’argomento del giorno, ovvero “quante se ne è timbrate” (sic) Berlusconi nella sua vita, pagando o promettendo la celebrità, elargendo bustarelle ripiene come quelle della zia alla comunione prima dell’avvento del commercio elettronico o occupando posti di potere in questa o quell’altra amministrazione pubblica, donando gadget da autoconcessionaria o impiegandole in una delle sue aziende controllate, fornite dal rampante di turno o raccolte questuanti dai fidi emissari del suo pensiero.

Quante se ne sarà timbrate, si chiedono sorridendo con malizia, loro che con quel marsupio da bancarella e la camicia fuori dai pantaloni per occultare l’epa in eccesso, quei mocassini senza calze che lasciano nude caviglie pelose, teste rade ma ugualmente scintillanti grazie al gel effetto bagnato, difficilmente – temo – riuscirebbero ad avvicinare non solo femmine consenzienti ma chiunque. Almeno io, fossi donna, scapperei a gambe levate, a meno di non voler imparare gratuitamente ad amministrare un Ced. E la risposta all’interrogativo del giorno probabilmente è scritta tra le righe della copia di free press che uno dei due tiene tra le mani, il più informato, a quanto pare. Si cimenta in una conta e ipotizza una statistica: se in x mesi ne ha timbrato diciamo trenta, moltiplichiamo per tot anni, magari chissà quando era più giovane che ritmi teneva. Si chiedono come facesse a lavorare, come sia stato possibile fare quel che ha fatto, perché la cifra che se ne evince ha del miracoloso. Diamine, dicono. Diamine, me ne basterebbero un paio. Magari insieme.

Update: a proposito di quantità, ne parla, in termini seri, Giovanna Cosenza qui.

sigla!

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Pensate alla relatività delle cose che accadono, cose anche gravi che però, in un momento storico in cui tutto è grave – e tutto è così grave che ogni sera, almeno al tg3, sentiamo notizie che riportano fatti che sembrano protrarsi da un tempo infinito fin dalla notte della nostra storia – impediscono di mettere in sequenza la scala delle priorità. E ogni sera deglutiamo la nuova variante insieme alla cena, almeno al tg3 (in questo caso mangiate come me, con le galline). Ogni sera assistiamo al trailer del nuovo episodio di questo o quell’altro tema poi approfondito nel servizio che segue, a dimostrarci che è ancora più grave di quello a cui la sintesi di Bianca Berlinguer ha solo accennato.

Per cui sentire tutto quello da cui fugge in questi giorni il nostro presidente del consiglio, anzi, il presidente del consiglio di quei ventiquattro italiani su cento che ancora lo sostengono, sentire i processi e le accuse e le indagini condensate in un inquietante Bignami giornalistico da pochi minuti, altro non è che la puntata di una fiction senza fine, e mi scappa da ridere se penso alla Grecia e a come si mettono le cose. Lo dice anche confindustria. E se a cena viene facile essere qualunquisti, a me succede ma vi giuro che me ne pento quasi subito. Prova è che sto male se mi viene da sorridere ascoltando della nuova fabbrica al sud che chiude; facevano gli autobus urbani per la Fiat, e i lavoratori ora sono lì a gridarmi in faccia i loro slogan. La fabbrica è loro, dicono. Aggiungono che è facile fare l’imprenditore solo quando le cose vanno bene e defilarsi quando iniziano i problemi. Che illusione, che cronache da un altro pianeta mi tocca sentire, hanno tutto contro e il loro imprenditore è solo l’ultimo della lista delle cose da ricordare domani.

Perché per chiudere in bellezza ecco Serena Dandini, sento nominare Santoro e Saviano e la ricchezza del servizio pubblico. La commissione Rai che approva il budget per L’isola dei famosi non ritiene Parla con me abbastanza appealing per la raccolta pubblicitaria. Serena Dandini è ironica, vorrebbe almeno il suo divano. Ora proviamo insieme a fare una classifica, la scala delle priorità, ma vi avverto: terrò conto del fatto che sono stufo di ridere, di vedere gente che cerca di farmi ridere, anche se sono risate intelligenti. Non ne ho più voglia. Apprezzo l’intento, ma siamo fuori tempo limite. E sono certo che chi si scervella per inventarsi nuove gag (gag molto intelligenti, sia chiaro) può tranquillamente trovare un posto di lavoro altrove, magari accontentandosi di meno.

compagni di gioco

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Vi va una partitella al gioco di Radio Popolare? Si tratta di un passatempo che mi sono inventato io, sia chiaro. Non si vince nulla se non un po’ di fastidio che va ad aggiungersi ai numerosi mal di stomaco che, noi elettori di centrosinistra e di sinistra, abbiamo collezionato negli anni. Inutile tentare un elenco tanto sapete bene a cosa mi riferisco. Dunque ecco il gioco di Radio Popolare: si gioca così. Siete in auto e fate finta di essere un elettore di centrodestra immerso in pensieri (già questo è complicato, occorre sforzarsi un po’). Ma siete in coda, la circonvallazione è come al solito bloccata, l’unico diversivo è trovare metodi creativi per sottrarsi all’andirivieni di lavavetri. Insomma, non vi passa più e non c’è nulla di meglio che fare il punto, e non solo su quale modello di smartphone pensate di comprare per cambiare lo smartphone che avete acquistato il mese scorso. State riflettendo sulle contraddizioni del vostro schieramento, sulle indiscutibili spaccature interne, la Lega asservita alle linee della coalizione che sono opposte allo spirito della base, per non parlare dell’ennesima intercettazione, il vostro leader sempre più stretto tra scandali e ignominie, la manovra e Tremonti. Così dite basta, è ora di voltare pagina, non se ne può più, piuttosto che andare avanti così meglio dare un’opportunità agli altri, al centrosinistra, chissà che non abbiano ragione loro su tutti questi anni di operato di Berlusconi. E pensate che è il momento di una svolta, non con la macchina, sia chiaro, una svolta al vostro percorso politico. Decidete che alle prossime elezioni vi farete sentire, un voto a Bersani, a Di Pietro, o a Vendola. Non c’è occasione migliore. Ma perché non approfittare di questo tempo apparentemente perso nel traffico per iniziare ad avvicinarsi al nuovo schieramento, per così tanti anni inviso? Perché non arrivare preparati al prossimo voto con un’infarinatura di base su quelli che sono i cavalli di battaglia della sinistra italiana, i valori, lo spirito, la cultura. Allora, sempre facendo finta di essere un elettore del PdL prossimo al cambio di bandiera, accendete d’emblée la radio e la sintonizzate su Radio Popolare, io ho come riferimento solo quella di Milano, sul 107.6. A quel punto prestate attenzione alla musica, al dibattito, al tono dello speaker o alla pubblicità che in quell’istante è trasmessa. Fatelo con gli occhi, anzi le orecchie, di uno che viene da Studio Aperto e provate a immaginare le sue reazioni.

grandi muscoli e poca carne

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Ho capito, forse, la causa scatenante di tutto. Quelle coincidenze impossibili  che quando accadono creano un pandemonio e aprono porte su dimensioni parallele. Per esempio, posare il piede su una zolla di bosco mai calpestata da un essere umano (forse c’era su un albo di Dylan Dog o me lo sono sognato), oppure leggere per sbaglio una formula magica al contrario e zac! Là dove c’era un muro ora c’è una porta aperta su un baratro senza ritorno. No, questa è meno cupa come allucinazione ma altrettanto inspiegabile. In tangenziale ovest, direzione nord, c’è il traffico delle diciotto di un giorno feriale, sono alla guida della Passat aziendale. Fuori trentacinque gradi abbondanti e un sole da ferragosto malgrado il mese di scarto. Ed ecco la probabile sequenza di eventi magici: guardo l’ora sull’orologio al polso sinistro (un Casio Calculator vintage) la cui superficie riflette il sole, abbagliandomi, mentre involontariamente con la mano destra cambio stazione radio e parte “L’ultima luna” di Lucio Dalla. Sono nel panico, per un paio di secondi non vedo più nulla. Quando la vista ritorna, mi trovo al volante di una Fiat 128, mi sorprende il marchio sul clacson nel centro del sottile volante e il cofano verde scuro che si dipana davanti. L’impianto hi-fi con lettore mp3 non c’è più, al suo posto vedo un estraibile con le manopolone in plastica e gomma. Svanisce la cintura di sicurezza. Mi guardo intorno: una 131 Mirafiori blu, una Opel Kadett, l’immancabile 126, una due cavalli. E cosa sono quei manifesti pubblicitari sui palazzi? Il punt e mes, Calindri che lotta contro il logorio della vita moderna, quindi eccolo lì il miracolo, l’epifania, il momento topico dell’estasi suburbana. Lucio Dalla immortalato con il suo inseparabile berretto scuro di lana, la testa china sul piano e dietro una luce di scena, una gigantografia che ricopre un muro in alto a sovrastare anche la tangenziale. Sotto, la reclame di una marca di jeans d’epoca e un pay-off che ricordo come un mantra: Blu Jeans, Blu Jesus. Oddio, mi sento male, tra l’altro l’aria condizionata in macchina non c’è più, mica era stata inventata, così tiro giù il finestrino (a manovella). Mi supera una Giulietta della Polizia, diamine, penso, e se adesso mi si affianca qualcuno e inizia a sparare? Poi “L’ultima luna” sfuma, irrompe un jingle assordante, cambio stazione, sento Gigi D’alessio, e spero che non succeda una cosa analoga. Che salto spazio-temporale potrebbe capitarmi?

fantasia a rischio

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Fate molta attenzione prima di far vedere un cartone animato ai vostri pargoli. Lo so, non siete sprovveduti, e se è così converrete con me che spesso ci si trova di fronte a delle boiate pazzesche. Bambini e anziani sono la componente più indifesa del mercato, quella verso cui l’industria in senso lato non va tanto per il sottile nella creazione di prodotti dedicati, tantomeno in ambito entertainment. Un problema che, lato anziani, avevo già trattato qui (mi sento un po’ in imbarazzo a citare me stesso, ma meglio linkare che ripetere, che già lo faccio perché non ricordo quello che scrivo), mentre di riferimenti sul sistema che bada fin troppo a spese per il divertimento dei più giovani è pieno tutto questo spazio. Quindi mi limito a consigliarvi di stare alla larga da un paio di titoli che, facendo ordine nel mediaplayer che a casa mia fa le veci della tv, ho ranzato via dall’hard disk con enorme soddisfazione. Cartoni animati che mi sono procurato (diciamo così) per forza di inerzia più che per convicimento, ma che alla prima visione hanno suscitato il raccapriccio famigliare, nei grandi e (un po’ meno) nei piccini. Per finire nel dimenticaio dei sentimenti e la conseguente cancellazione dalla memoria fisica. Perché vi assicuro che non ho ancora visto nulla di peggio del branco di dinosauri parlanti e canterini, una serie di lungometraggi – oltremodo lunghi, probabilmente pensati per chi vuole sedare i figli per due ore con l’obiettivo di sbrigare più faccende possibili –  e le loro storie ispirate alle dinamiche umane e moderne. Si tratta di minestroni kitsch mescolati a canzoni che, già demenziali ab origine, tradotte e (non) adattate alla lingua italiana e interpretate da questo o quello lucertolone preistorico, generano una sorta di musical iperglicemico in grado di causare distorsioni senza ritorno della realtà dei più piccoli. Perché un animale antropomorfo qualsiasi è, tutto sommato, credibile e piacevole. Un cucciolo di Triceratopo che affronta temi quali la solidarietà e l’amicizia con uno Stegosauro un po’ meno.

Dio o chi per esso vi protegga anche dai pinguini da Mtv, come li chiamo io, ovvero il film di animazione Happy Feet. Anche in questo caso non ne critico il messaggio, addirittura ecologista. Ma quei pinguini minacciati dall’uomo sanno haimé cantare, e cantano come i cantanti e le star del nuovo r’n’b made in Usa, si esprimono con gorgheggi e mossette alla Beyoncé (le pinguinesse), mentre i pinguini maschi imitano i macho che mescolano la cultura afro-americana con quella dei latinos statunitensi. Insomma, tutto quello che reggo di meno del pop d’oltreoceano. Ma nemmeno gli urlatori dell’antardide hanno potuto vincere una ferrea volontà di esercitare un Ctrl+Alt+Canc, e anche questo film è sparito dalla nostra piccola parte di memoria collettiva. Grazie, non è stato un piacere. A mai più rivederli.

fratello, dove sei?

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Sono fermamente convinto, e sono pronto a essere smentito, che ci siano mestieri tipicamente italiani, professioni che magari sono svolte ovunque nel mondo ma che qui da noi hanno acquistato una accezione diversa e tipicamente in linea con il nostro stile di vita. E non me ne vogliano i rappresentanti di questi settori che leggono qui, non ce l’ho con voi. La colpa è della vostra clientela, voi dovete campare, noi vi paghiamo e il cerchio si chiude. E non mi riferisco solamente ai notai, interpellati a stilare atti che altrove necessitano solo una semplice delibera da parte di personale amministrativo chiamato a registrare transazioni immobiliari, per esempio. O i commercialisti, il cui operato può essere scambiato per una consulenza sulle modalità a cui il contribuente ha diritto per a pagare il minimo legale dei tributi dovuti anche laddove quel diritto è più borderline, a fianco del semplice (per modo di dire) calcolo della contabilità. Così come in Italia vige l’abitudine di scagliarsi addosso avvocati come se fosse la metodologia standard di interrelazione tra essere umani in disaccordo. Una vita trascorsa sul filo del rasoio tra ciò che ci è lecito e ciò che può essere usato contro di noi o contro il prossimo, un sistema di confronto che non procede se non garantito dalla tutela di un esperto e titolato di giurisprudenza. Anche qui, loro, gli avvocati, non sono colpevoli della nostra litigiosità e della nostra coda di paglia, dalla crescente paura di essere raggirati dalla legge. Per strada non sento altro che persone che, al telefono, si confrontano con il loro legale, incitano a minacciare, a mentire, o a trovare escamotage per farla franca. E magari loro, da quel popò di studi associati in cui sono riusciti a portare a termine i sudati anni di pranticantato, vorrebbero occuparsi di cose più stimolanti di querelle (e querele) da quattro soldi, beghe condominiali, crediti irrisolti o debitori che fanno gli gnorri. Addirittura fratelli che sono costretti a difendersi da sorelle rivolgendosi agli avvocati, parenti che si citano di fronte al giudice senza nemmeno aver tentato prima una riconciliazione verbale, un confronto a quattrocchi. Una telefonata di scuse. Niente. Non vorrei mai trovarmi in una situazione così. Già. E non la auguro a nessuno.

per un pelo

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Due ragazzi, due ragazzi maschi, salgono sulla metro, si siedono poco distante da me esausti come dopo una corsa, probabilmente hanno preso il treno per un pelo, si prendono per mano e si danno un bacio. Il tizio di fronte a me, che era appisolato, si sveglia nello stesso istante, li vede e dice più a se stesso che agli altri, con forte accento meridionale “‘sti ricchioni”. Uno vicino a me lo sente, si volta verso di me ed esclama “‘sti terroni”. La signora in piedi, che ha seguito tutto la scena, ancora si rivolge a me e, con l’intento di apostrofare entrambi i protagonisti del botta e risposta, esclama “‘sti cretini”. Ne è seguito qualche secondo di silenzio, in cui tutti hanno guardato tutti, ognuno aspettava la mossa seguente dell’avversario. Io mi sono lanciato fuori dall’esplosione imminente, per fortuna la fermata dopo era la mia.

elementare, watson

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La maestra preferita da mia figlia e da quasi tutti i suoi compagni di classe, quest’anno non c’è più. La maestra Claudia è una precaria e proviene da un paese della provincia di Siracusa, da dieci anni le vengono assegnati incarichi stagionali in scuole primarie della zona, gli ultimi tre nell’istituto frequentato da mia figlia; il che significa, come sappiamo, due mesi senza stipendio, un disagio che si aggiunge al fatto che è sposata e suo marito, dipendente pubblico, non può trasferirsi con lei al nord. Il loro ménage consiste nell’incontrarsi un weekend al mese e aspettare ponti e ferie estive. Ogni progetto famigliare, un figlio per esempio, sono demandati a un non ancora ben definito futuro. Nonostante ciò, anno dopo anno la maestra Claudia ha continuato a sperare di essere confermata nella stessa scuola e con lo stesso incarico, un mix di serietà professionale e di affetto per la classe (genitori compresi) in cui era così benvoluta. In prima era l’insegnante dedicata all’area logico-matematico-scientifica e di inglese, e già all’inizio della seconda avevamo temuto il peggio, perdendo poi alla fine solo inglese e informatica. Ma quest’estate c’era nell’aria una ventata di ottimismo: la maestra Claudia, forte di un punteggio molto alto, sarebbe riuscita a rientrare nel numero delle insegnanti passate di ruolo. È facile quindi immaginare il nostro e il suo disappunto quando la chiamata degli incarichi si è fermata ben prima del numero annunciato, e poco sopra la sua posizione. Una lotteria della sfortuna, per non essere volgari. Va beh, non importa, mi farò ancora un anno da precaria e speriamo per il prossimo, l’importante è rimanere con le mie classi, ci ha detto. Ma non è stato così. Una maestra nominata fresca fresca di ruolo, buon per lei, è stata assegnata alla nostra scuola, ha potuto scegliere tra i posti vacanti e ha deciso per la cattedra scoperta già della maestra Claudia. Le nostre lamentele alla preside sono state più che sterili, il punteggio maggiore consente il diritto di prelazione sull’incarico. Alla maestra Claudia è stato concesso di sceglierne uno tra quelli rimasti scoperti, e mia figlia e i suoi compagni non hanno più la loro maestra preferita. La nuova maestra dedicata all’area logico-matematico-scientifica è la settima insegnante di mia figlia e i suoi compagni. La settima in poco più di diciotto mesi, e siamo solo al primo giorno di terza. Ah, bella fortuna il maestro unico.

il momento del bis

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Ho letto con enorme interesse la porzione di intervista di Fabio De Luca a Simon Reynolds in occasione dell’uscita in Italia di Retromania, un saggio in cui il musicologo inglese approfondisce il tema dell’ingombrante peso del passato prossimo musicale sulle tendenze contemporanee e sulla produzione stessa, tanto da impedire, ora come non mai, l’affermazione di novità realmente tali, al netto di commenti del tipo le note sono dodici, è impossibile creare qualcosa di nuovo dal nulla eccetera. In particolare, ma tenete conto che non ho ancora letto il libro e mi riferisco solo all’articolo presente qui, Reynolds riassume nell’interrogativo “cosa succederà quando saremo a corto di passato” un tema che è fondamentale nell’interpretazione del presente musicale, e consente agli anziani come me di bullarsi con i ragazzetti che si riempiono la bocca di gruppi che hanno conosciuto di sponda e di rimando, con i quali (gruppi, ma a volte anche ragazzetti) a volte mi chiedo se sia il caso persino di perdere tempo.

L’impressione che ho io è che i (pochi) rappresentanti delle ultimissime generazioni di musicisti, diciamo a partire dal nuovo e attuale secolo, abbiano trovato un sistema già saturo di ispirazione artistica e si siano mossi come se l’unica via per andare oltre fosse prendere l’ispirazione musicale e il prodotto di questa ispirazione più vicino all’estetica e al gusto del momento e ri-suonarla in modo fintamente filologico, perché il modo in cui era suonata e registrata allora era oggettivamente inadeguato. Provate a mettere uno dopo l’altro, per esempio, due brani abbastanza simili come matrice, come ritmica, come timbro, e lasciate perdere per un attimo tutti i risvolti emotivi che vi legano differentemente a un brano del passato come Transmission dei Joy Division e a un epigono di qualche stagione indiepop fa come Munich degli Editors. Oppure mantenendovi scevri da ogni giudizio, immaginate la stessa Transmission suonata direttamente dagli Editors, con una sezione ritmica moderna e un bilanciamento della stessa in fase di missaggio in linea con le sonorità attuali e con la tipologia di impianti di riproduzione audio che, nel frattempo, si sono evoluti. Ecco, il meglio dell’ispirazione con il meglio della tecnica musicale e audio. Lo stesso discorso può essere fatto per altri generi musicali. I batteristi oggi suonano come i campionatori che negli anni 80 e 90 hanno rubato i pattern e i passaggi di batteria dai dischi funky dei decenni precedenti, imparando a essere meno rumorosi e più lineari, meno piatti e più regolari nell’inserire o togliere elementi, fino a quel miracolo che è stato la drum’n’bass suonata da esseri umani (quanto mi piaceva). Ecco, in questo senso, secondo me, non si può parlare di nostalgia. Come dice Reynolds “nessuno guarda al passato con struggimento, né desidererebbe tornare indietro nel tempo”, perché è chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con strumenti intrasportabili e cavi ronzanti. E Infatti secondo Reynolds esiste ancora un istinto esplorativo, ma che ha a che fare con la riscoperta. Siamo circondati da cacciatori del passato. Parallelamente il mercato spinge questi “retrogradi”, perché il pubblico appartiene alla stessa generazione e li richiede. Per non parlare dei nostalgici veri, quelli come me per intenderci, che per motivi anagrafici si ricordano bene di tutto e che non disdegnano le ultime produzioni.

E proprio perché ci ricordiamo tutto perfettamente, riteniamo fondamentale fornire un adeguato servizio di memoria storica a chi ne ha bisogno e a chi no, e ricordare che il background su cui questa forma di nostalgia poggia non è assolutamente un magma unico a cui attingere acriticamente, ma una base ben stratificata a settori, ciascuno con la propria delimitazione e importanza. Perché, lo sappiamo tutti, ci sono i settanta e i Settanta, gli ottanta e gli Ottanta. Siamo pronti a fornire consulenza musico-geologica a tutti gli archeo-artisti che vogliono sfondare. Fatevi sotto, prego.

il dodici settembre

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Povero dodici settembre, oramai è diventato il giorno più bistrattato dell’anno, non lo celebra nessuno pur essendo una data importante. Il dodici settembre è il decennale della scoperta di una grande energia, quella necessaria ad alimentare lo sforzo a ricostruire tutto da capo. Oggi ricorre l’alba che sorge sullo spettro della catastrofe, in un giorno in cui l’aria è ancora irrespirabile per il fumo nero del giorno prima, la luce naturale del sole che si accende e tenta di sopraffare le luci artificiali rimaste attive nella notte per non interrompere i soccorsi alle macerie delle Twin Towers. Un giorno in cui molti non si sono svegliati perché non sono andati proprio a dormire, impegnati a Ground Zero, o a casa a seguire la diretta di quello che stava succedendo, o proprio non c’erano più, di loro non rimaneva più nulla ed è facile immaginare il perché. Il dodici settembre non ha nessuna invidia per il suo fratello maggiore, così gli ricorda che non è l’unico. Sai, gli dice, non sei il solo a essere entrato nella storia. Per esempio, anche l’undici settembre del 73 c’erano aerei protagonisti in cielo, ma aerei militari che bombardavano la sede di uno stato sovrano, quello cileno, che stava per perdere la sua libertà e il suo rappresentante eletto democraticamente in favore di una sanguinaria dittatura militare.

E se ci sono molte ragioni per cui l’undici/nove di dieci anni fa ha superato in drammaticità tutti gli altri, non bisogna dimenticare il giorno successivo ai grandi eventi, il day after, e il dodici settembre lo è diventato per antonomasia. Perché il giorno dopo, a freddo, è ancora tutto più assurdo e ancora più presente e vivido del giorno prima. Buon dodici settembre a tutti, anche se apparentemente non c’è proprio nulla di cui rallegrarsi.

p.s. e, per cortesia, ora basta full immersion mediatiche in catastrofi in cui sono coinvolti voli di linea. Vorrei avere il coraggio di mettere ancora piede su un aereo, in futuro.