nel dubbio, emigra

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Il giorno dopo l’ultima puntata di Report è tutto un cercare in rete informazioni per trovare lavoro in Germania e trasferirsi magari proprio a Berlino. E anche se a malapena si sa contare da uno a cinque, si sanno pronunciare i nomi dei peggio criminali nazisti e qualche avversario della nazionale italiana ai mondiali dell’82, si conoscono un paio di battute da film come Frankenstein Jr o si sa dire non gettate alcun oggetto dai finestrini, quel quarto d’ora di entusiasmo sul sito del Goethe Institut o su qualche blog di giovani cervelli in fuga nei quartieri a est del muro è appena sufficiente a farci dapprima illudere che un altro futuro è possibile al di fuori di questi aneddoti, per poi riportarci alla cruda realtà che mollare un impiego di scribacchino sui socialcosi per impastare pizze ai wurstel o a riempire coni gelato non so, forse non siamo ancora pronti e la pagheremo cara e tutta quando saremo costretti invece a servire quattro stagioni e ad amalgamare stracciatelle – a essere fortunati – al centro commerciale all’angolo perché i presìdi con le bandiere della Fiom stanno alle agenzie di comunicazione come non lo so, non mi viene un paragone divertente in questo momento. Ecco, come accompagnare tua figlia in classe il primo giorno di scuola solo con uno slip da bagno addosso. Insomma, gli ardimenti da emigrazione ingiustificata sono leciti quanto i tuffi dagli scogli nelle giornate in cui c’è una tempesta e la gara si procrastina all’estate dopo, tanto chissà dove saremo. E dopo quei quindici minuti la Germania da meta esistenziale è già la nuova mostra che magari con un low-cost si potrebbe visitare in scioltezza al ponte dei morti, che detta così suona un po’ lugubre. Ci sono anche le scarpe da comprare che si trovano solo lì e le borse artigianali quelle che le scegli a pezzi intercambiabili e che costano un botto, che altro che crisi ed essere lasciati a casa dall’azienda in fallimento. Non è una forma mentis a cui siamo abituati, quella della povertà. Per questo guardiamo Report, ne parliamo a colazione, e la sera dopo di nuovo leoni per ritrovarci poi, una bella mattina, tutti quanti [finitelo voi, questo post, non metto nemmeno il punto]

una nuova stagione di saldi

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Quello che mi sfugge, e sapete bene che per me economia e finanza sono arabo anzi peggio, è che tutti si lamentano del calo dei consumi ma nessuno abbassa i prezzi. Gli affitti sono sempre alti, sento dire che i proprietari preferiscono lasciare appartamenti vuoti, le automobili hanno prezzi tuttora proibitivi, l’abbigliamento di qualità è alla portata di pochi, per l’elettronica e l’informatica consumer devi fare le rate, per l’elettronica professionale non ne parliamo nemmeno. Ora per dire a me piacerebbe cambiare l’auto ma so già che dovrei sborsare almeno 20 mila euro. Mi tengo la vecchia e chi si è visto, si è visto. Allora mi chiedo chi deve cominciare a rinunciare a qualcosa ed è questa la questione politica da risolvere. Anche secondo voi la situazione di stallo globale deriva proprio da lì?

non è colpa nostra (se è andato tutto a ramengo)

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Ho scopiazzato l’idea di Speakermuto e ho contribuito a mio modo, cioè scrivendo a vanvera, al dibattito in calce al post odierno di Leonardo.

Una volta qui era tutto un mito. Poi noi con i nostri Clash e i nostri Radiohead siamo cresciuti e il pop è diventato la cultura degli adulti. Alle generazioni senza futuro ne è rimasta solo una versione compressa e di poco ingombro rispetto alla memoria a loro disposizione, facile da cancellare come un sms promozionale. Non ci capacitiamo del fatto che quello che noi ritenevamo culturale oggi è poco più di una suoneria, di valore irrisorio come tutto ciò che viene misurato considerando i prezzi di oggetti di possesso obbligatorio come uno smartphone. Di musica di qualità ce n’è da tutte le parti (in Italia un po’ meno), dobbiamo solo cambiare le nostre aspettative.

c’era prima lei

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Ieri sera più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori per mangiare un po’ di sushi. Mezz’ora. E il bello è che non esco mai, ma quando esco trovo sempre tutto pieno. Ma allora c’ha ragione quello là, quello che parte la domenica e va a Riva del Garda in elicottero mentre tutti sono in coda in macchina. Ma quale crisi, il ristorante era pieno. Sono tutti pieni. Poi ci saranno pure quelli in bolletta, non lo metto in dubbio, ma gli altri sono tutti fuori a spendere. Dicono che i centri commerciali sono pieni di gente che va lì a vedere e non compra niente, ma io non ci credo. Cosa vuol dire andare lì e guardare i Rolex o i pantaloni e le scarpe e non comprarsele. Se io vado al supermercato ci vado perché devo far la spesa, mica per guardare l’uva o i cetrioli. Son tutti lì a spendersi i soldi della pensione dei nonni, altro che. Dovrebbero fare una campagna per la protezione dei vecchi, altro che protezione degli animali. I vecchi sono gli unici che hanno i soldi, che hanno un reddito fisso, e allora i figli e i nipoti li mettono nel freezer e continuano a prendere la pensione. Sa a cosa servono tutti quei pozzetti e i congelatori che vendono adesso? Quelli grandi così? A tenerci dentro i vecchi. Ogni tanto tirano su il coperchio e gli fanno una carezza, come stai nonno? gli dicono, poi chiudono e li lasciano lì e nel frattempo gli arriva la pensione e loro vanno spendersela nei ristoranti. Più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori al freddo, dentro era pieno così. Poi sono riuscito a entrare, e ho mangiato tanto di quel sushi che stamattina ho passato un’ora in bagno.

(Anonimo lombardo durante la coda in panetteria, traduzione e adattamento dal milanese a cura di plus1gmt)

il vaffanculo al tempo della crisi

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Ho pensato che dovrei contare fino a dieci prima di scrivere un post come questo, in cui cerco di concentrare tutto il veleno che vorrei riversare su di voi che mi fate perdere tempo al telefono con la vostra disorganizzazione, perché non siete nemmeno d’accordo tra di voi e in più dovrete coinvolgere in un secondo tempo il vostro amministratore delegato. Un approccio che non sarebbe velato di incompetenza se vi limitaste a fare il vostro, di lavoro, perché se ricoprite quella posizione sicuramente lo sapete fare. Ma non vorrei sembrarvi presuntuoso se vi dico che fare il mio lavoro come dite voi non è la maniera più percorribile, e se mi avete scelto come fornitore dovreste fidarvi di me. Ho pensato che dovrei contare fino a dieci prima di scrivere un post come questo, per evitare le scurrilità se non nel titolo così da attirare qualche lettore coprolalo in più ma che riassume un sentimento che provo fin nel profondo, perché anche se te ne approfitti sai che non posso interrompere la mia collaborazione con te, in questo periodo signora mia non si lascia certo scappare un cliente che paga anche poco, e si sente libero di cambiare il brief ogni volta. Perché le proposte creative sono proposte creative altrimenti ti preparo tre, quattro, dieci, mille varianti complete del progetto ma me le devi pagare tutte, perché ti devi fidare di me: la proposta che sceglierai con tutte le sue immagini provvisorie e tutti i lorem ipsum, alla fine vedrai che sarà piena dei contenuti e dei valori e della filosofia della tua azienda. (avevo aggiunto “di merda” ma lo ho cancellato, grazie allo sfogo che la scrittura comporta un po’ di rabbia era scemata e ho pensato che forse era un finale troppo forte, che dite?)

sigla!

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Pensate alla relatività delle cose che accadono, cose anche gravi che però, in un momento storico in cui tutto è grave – e tutto è così grave che ogni sera, almeno al tg3, sentiamo notizie che riportano fatti che sembrano protrarsi da un tempo infinito fin dalla notte della nostra storia – impediscono di mettere in sequenza la scala delle priorità. E ogni sera deglutiamo la nuova variante insieme alla cena, almeno al tg3 (in questo caso mangiate come me, con le galline). Ogni sera assistiamo al trailer del nuovo episodio di questo o quell’altro tema poi approfondito nel servizio che segue, a dimostrarci che è ancora più grave di quello a cui la sintesi di Bianca Berlinguer ha solo accennato.

Per cui sentire tutto quello da cui fugge in questi giorni il nostro presidente del consiglio, anzi, il presidente del consiglio di quei ventiquattro italiani su cento che ancora lo sostengono, sentire i processi e le accuse e le indagini condensate in un inquietante Bignami giornalistico da pochi minuti, altro non è che la puntata di una fiction senza fine, e mi scappa da ridere se penso alla Grecia e a come si mettono le cose. Lo dice anche confindustria. E se a cena viene facile essere qualunquisti, a me succede ma vi giuro che me ne pento quasi subito. Prova è che sto male se mi viene da sorridere ascoltando della nuova fabbrica al sud che chiude; facevano gli autobus urbani per la Fiat, e i lavoratori ora sono lì a gridarmi in faccia i loro slogan. La fabbrica è loro, dicono. Aggiungono che è facile fare l’imprenditore solo quando le cose vanno bene e defilarsi quando iniziano i problemi. Che illusione, che cronache da un altro pianeta mi tocca sentire, hanno tutto contro e il loro imprenditore è solo l’ultimo della lista delle cose da ricordare domani.

Perché per chiudere in bellezza ecco Serena Dandini, sento nominare Santoro e Saviano e la ricchezza del servizio pubblico. La commissione Rai che approva il budget per L’isola dei famosi non ritiene Parla con me abbastanza appealing per la raccolta pubblicitaria. Serena Dandini è ironica, vorrebbe almeno il suo divano. Ora proviamo insieme a fare una classifica, la scala delle priorità, ma vi avverto: terrò conto del fatto che sono stufo di ridere, di vedere gente che cerca di farmi ridere, anche se sono risate intelligenti. Non ne ho più voglia. Apprezzo l’intento, ma siamo fuori tempo limite. E sono certo che chi si scervella per inventarsi nuove gag (gag molto intelligenti, sia chiaro) può tranquillamente trovare un posto di lavoro altrove, magari accontentandosi di meno.

se non hanno il cellulare, che usino il blackberry

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La gente affamata assalta e saccheggia i forni, chiede cibo, si organizza ed espropria. La gente esasperata da un modello di consumo che non può più permettersi fa lo stesso: chi, fino a ieri, ha goduto di privilegi, non vuole rinunciarvi e difende con i denti la proprietà privata. Chi invece crede che il lusso, come dice la pubblicità, sia un diritto di tutti lancia il suo attacco. Poi c’è il livello uno, chi ancora deve combattere un regime, togliere i vincoli alla propria libertà, emancipare corpi da dittature politiche e coscienze da dittature religiose e viceversa. Un bel casino, no? E tu fai una figlia perché fino a qualche anno prima c’è stata una parvenza di stabilità, comunque le cose si sistemano, dove si mangia in due si mangia in tre. Ultima fermata si prega di scendere, siamo probabilmente a destinazione, ad un punto di non ritorno. Si è delineato uno scenario composto da tanti microsistemi nazionali che implodono, mentre dall’esterno barconi fatiscenti tentano l’approdo a un sistema economico in grado di accoglierli. Insomma, sappiamo tutti quanto questa convenzione tra benestanti e bisognosi, a ogni livello, possa reggere. Il nuovo ordine mondiale deve risolvere l’annoso problema del conflitto di classe, chi ha maggiori risorse dovrebbe metterle a disposizione e farlo con convinzione di causa. Eh bravo, prova a convincerci. Confondere l’avere di meno con il non avere nulla è il grande paradosso. Ora la scrivo e la pubblico grazie all’adsl flat. Poi si parte per la Sardegna.

raptor, un volo da brivido

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Riflettevamo a cena sul fatto se, con quello che sta accadendo, è il caso di preoccuparsi o no, se al ritorno dalle ferie sarà ancora tutto come prima. Se fallisce tutto e boh. Poi ripenso alla nonna che ogni sera sentiva la sirena, fuggiva nel rifugio antiaereo, pregava di ritrovare casa sua dopo il bombardamento, e una volta non l’ha più ritrovata. E ho pensato che, in confronto, tutto questo continua a sembrarmi una gita a Gardaland (cit.).

adozioni a distanza di sicurezza

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Giorno di staff meeting. Si chiama così la riunione interna tra account, project manager (che poi sono le stesse persone che fanno entrambe le cose) e il capo. Ci si aggiorna sulle lavorazioni in corso e si ha un quadro di quello che fanno gli altri. La nostra agenzia non è grande, il turn over è ampiamente nella media, non siamo mai più di sei barra sette persone a partecipare a questi incontri in cui si fa il punto della situazione.

La lavagna divisa in altrettante colonne nominali, da aggiornare di volta in volta con i progetti in corso, vira sempre di più verso il bianco, nel senso che è sempre meno popolata dai nomi delle attività in fieri. Già, per la prima volta da quando sono qui, ormai quasi 10 anni, la flessione del mercato, una perifrasi che mi ricorda la ginnastica delle medie e che sta a indicare la crisi, ha fatto prepotentemente breccia nella nostra routine. La temevamo, chiaro. Ma nel 2009 l’abbiamo scampata, addirittura c’è stato un picco di lavorazione nel 2010. A dirla tutta ho lavorato come una bestia, l’anno scorso. Ricordo di aver spento il computer, alle 19.30 dell’ultimo giorno utile prima delle vacanze di natale, dopo aver chiuso e archiviato l’ultimo progetto dell’anno. E mi sono detto che ero proprio bravo, nel 2011 sarei potuto ripartire con tanti nuovi lavori senza avere nulla in pending.

Poi gennaio, ma gennaio si sa che è un mese un po’ assopito, non ci siamo accorti dello stato di coma. Febbraio ha meno giorni, ci sta che vada così così. Marzo è quando si deve decollare, invece siamo rimasti chiusi nell’hangar. Aprile: non pervenuto.

Così ci inventiamo cose da fare, cerchiamo di allungare i lavori che i nostri clienti ci assegnano provando ad assottigliarli un po’ come si fa con la pasta per la pizza. Li schiacciamo per farli aderire a tutta la superficie della teglia, per farli arrivare ai bordi in modo che ce ne sia per tutti. Chiediamo di aggiungere un po’ di ingredienti, arricchire la ricetta, renderla più gustosa. Ma quasi mai si va oltre il pomodoro e la mozzarella, quando non ci si limita alla focaccia semplice, senza rosmarino grazie. Mi si perdoni la metafora, influenzata dalla mia cena di ieri.

I junior iniziano a tremare. Uno di loro avrà il contratto ridotto a tempo parziale fino a settembre, data di scadenza, dopo la quale se continua così non gli verrà rinnovato. Poi c’è C., che è junior solo perché è qui da poco ma ha pochi anni meno di me. Anche a lei è stato imposto una sorta di part time ma che part time non è, nel senso che d’ora in poi a metà stipendio sarà in ufficio quattro ore al giorno, sempre a progetto. A detta di tutti una scelta discutibile: se già hai pochi introiti, rinunciare alla verve e alla propositività diminuendo le risorse equivale a una zappata sull’alluce.

C. ed io, uscendo fianco a fianco dalla stanza dei bottoni, passiamo davanti alle foto dei bambini indiani che, tramite un’associazione attiva in questo campo, l’agenzia ha adottato a distanza. Ha un sorriso di quelli a metà, che meglio impersonificano il sarcasmo, a seconda del punto da cui la stai osservando. “Basta privilegiare gli indiani“, mi scrive poco dopo in chat. “Mi accontenterei di essere adottata, così mettono la mia foto lì vicino all’ingresso, a fianco delle mie letterine in cui scrivo quello che faccio con i loro soldi, ringraziandoli per il fatto che mi mantengono in vita“.