ispirazione, espirazione

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Può capitare che nel profondo del profondo del mese più profondo dell’estate, quei due o tre giorni che stanno a cavallo di ferragosto a seconda della sua posizione tra le domenica precedente o successiva, quel buco di c**o temporale (a volte anche con temporale annesso) in cui non c’è nulla, si scelga di trascorrere questo nulla barricati in casa. E sono convinto che molti lo passino così, altrimenti non si spiegherebbe il vuoto fuori. C’era un tipo, per esempio, che una volta è rimasto chiuso in casa per tre giorni, da solo. Cibo e bevande a sufficienza e un intero set di synth più un sampler collegati a un Mac, un PowerPC per l’esattezza su cui girava dignitosamente Cubase. E niente, tre giorni di full immersion in composizioni ispirate grazie alle quali il riservato musicista ha vissuto di rendita per almeno tre gruppi successivi, nemmeno troppo caldo malgrado la strumentazione impilata e accesa nella stanzetta più piccola, chiamiamola studio. La casa aveva infatti una doppia esposizione e, ubicata piuttosto in alto e per di più al quinto piano, era ventilata abbastanza. Ogni suono era ispirazione per un pezzo nuovo, non c’era giorno o notte o alcun limite fisico, le ferie sono state pensate anche per cambiare abitudini e vivere tra parentesi. Alla fine, stremato e spremuto dalla verve creativa, il tipo ha spento tutto, ha fatto una meritata doccia, è salito su una Panda bianca targata AL e ha raggiunto i genitori in una casa sull’appennino ligure, dopo un viaggio in cui ha ascoltato e riascoltato, su nastro, quanto registrato in quei tre giorni, più di due ore di musica che quasi non si ricordava già più.

concorso in omicidio

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Via.

ferrapost

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Avete presente quel punto della corsa oltre il quale vi sentite che potreste correre ancora per ore e ore e non sentite più la fatica? Io per scherzare lo chiamo “break even point” perché mi diverto a prendere in prestito termini dall’economia o dal marketing, quelli che i miei clienti usano quando mi spiegano i concetti che vogliono che io comunichi per loro. Ma un po’ di similitudine con il punto di pareggio in realtà c’è, perché quel momento nella corsa è quando hai speso abbastanza energie per coprire lo sforzo e portare il tuo organismo a una potenza sufficiente per poi continuare quasi per inerzia. In ogni caso mentre corro lo definisco così, anche se non c’entra nulla, tanto non l’ho mai detto e mai lo dirò a nessuno, e lo penso per distrarmi e sentire ancora meno la fatica. Consumare secondi vuoti che altrimenti dedicherei a pensare a quanto sto faticando. Il mio break even point è a venti minuti circa dalla partenza, e ieri sera il momento si è manifestato mentre ero all’ombra, al parchetto qui vicino, era quasi il tramonto e c’era anche un po’ di brezza, oltre le zanzare, e ho anche pensato che agosto a Milano non è poi così male. E correvo, quando ho imboccato un sentiero e ho visto un ragazzo che mi veniva incontro, spingendo la sua sedia a rotelle. Ora cerco di sdrammatizzare ed essere il meno patetico possibile, fermatemi se non ci riesco. L’ho visto, lui spingeva le ruote con le mani e io spingevo le gambe, e non sapevo se guardarlo o no, fare finta di asciugarmi il sudore, controllare il tempo sull’orologio, soffiarmi il naso con le mani. Perché io sono qui e corro perché amo correre e cerco di mantenermi in forma. Il momento in cui ci passeremo l’uno a fianco dell’altro si avvicina, non ho ancora deciso la tattica, sono in imbarazzo. Vedo che sta telefonando, ha un auricolare piantato nell’orecchio destro, e mentre fa scorrere le ruote parla chissà con chi. Sono al parco, gli sento dire, volevo dirti che ho appena visto Studio Aperto, sì il telegiornale, e ha aperto così: finalmente è ferragosto, la festa più desiderata dell’anno. Più desiderata dagli italiani, ha continuato il ragazzo. Sono qui solo al parco, non so come si faccia a dire che ferragosto è la festa più bella, poi come prima notizia, con tutto quello che succede. Così diceva, al telefono. E niente, ci siamo incrociati così e io ho continuato a correre, forte del mio break even point, pensando a come scrivere un post sulla festa più desiderata dagli italiani.

troppi ponti

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e-profundis

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La massa di persone che riemerge dal passato, parenti e amici e ex e compagni di classe ciascuno sul proprio scranno a formare un parlamento, si può pensare a una disposizione che rifletta l’orientamento politico da destra verso sinistra. In taluni casi può esser sbilanciato, magari conosci solo persone da Rutelli in poi, per dire, ma la vado dura perché c’è l’insieme di quelli che non vedi e non senti dalle medie, chissà cosa hanno votato (e se hanno votato) in tutti questi anni, quindi ecco lascerei perdere l’assegnazione dei posti secondo questo criterio che complica le cose. E ti verrebbe voglia di dire qualcosa a uno a uno, specie se hai la memoria lunga lunga da elefante, magari non ricordi se hai già messo le infradito in valigia ma hai un file di excel con la traccia di tutti i torti subiti, per esempio. Hey tu, laggiù, con quel dolcevita blu scuro e la forfora sulle spalle, tu una volta mi hai fracassato la squadra – quella per il disegno tecnico, eh – sulla testa. Invece tu, lì, che mi dici della collezione di mix dei Depeche che ti sei tenuta quando mi hai lasciato? E quell’altro due posti più in là, nel settore parenti di primo grado, mi hai truffato e ora siedi lì come se niente fosse. Ma ci sono anche le cose belle, guarda, la tipa con gli occhiali che ti ha prestato il walkman con quella compilation durante il viaggio di ritorno e pensavi che non saresti più voluto tornare. Sì, dimmi? Mah, sei in prima fila, ma guarda davvero non mi ricordo di te, ci si vergogna un po’ quando magari non hai quella memoria che ti permette di ricordare le facce. Ah, ho capito, in quel periodo non ero granché presente, puoi immaginarne il motivo.

Ecco, i socialcosi in chiaro, quelli dove ti sei iscritto con nome e cognome, Facebook per intenderci, quelli in cui rispondi con la tua faccia dieci, venti o trent’anni dopo a persone che sono contatti di amici di amici di semplici conoscenti che comunque sai chi sono e ora li hai amici anche, anzi solo lì, poi li incontri dopo che qualche settimana prima ti hanno dato un bel like su una delle tue minchiate che ti sei inventato per fare il brillante sul tuo status e ora ce l’hai lì davanti e non hai proprio un cazzo da dire. Questi socialcosi mi davano l’impressione di essere così, una sorta di aldilà come lo fanno vedere nei film, un mistone atemporale di persone tutte insieme in un posto, io per comodità e per, diciamo, esigenze logistiche l’ho raffigurato come sopra perché mi immaginavo un parlamento come quello inglese, magari, tutti così appiccicati e a ridosso del primo ministro, loro hanno questo senso dello spazio e della partecipazione, li vedi anche negli stadi con i tifosi praticamente a bordo campo. Ma potrebbe essere la classica spiaggia con le persone sberluccicanti o con un alone luminoso, che nel nostro caso è di colore bluette Facebook. Facebook che ti ha permesso di non buttare più via nulla, nemmeno le cose che non avresti mai più voluto ricordare, ce l’hai sempre lì, a portata di username e password. Ma non so, tutti lo usavano invece per fare nuove conoscenze, nuovi incontri, nascevano storie, alcune tragiche, altri si sono sposati. Ma i morti della tua vita, quelli veri, nei socialcosi non ci sono. Sono cremati o tumulati da qualche parte. E un sistema di contatto virtuale con loro, ecco, questo potrebbe essere l’e-business del futuro. Deadbook, ti aiuta a rimanere in contatto con le persone che hai amato. Al posto del like un bel lumino e, per chi ci crede, una prece.

zapping tra l’iperrealtà

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giù il gettone

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Si vince facile a misurare l’evoluzione di un popolo dall’entertainment estivo “for the masses”. Animazione e spettacoli, quelli che campeggiano su manifesti sgargianti e organizzati per soddisfare il turista che arriva e l’abitante che è rimasto. Si uniscono i punti, si sommano gusti, età, estrazione, abitudini. Si dà un’occhiata al budget e si vede cosa c’è sul mercato. L’offerta pubblica ai tempi del patto di stabilità al massimo può garantire i balli di gruppo o il teatro dialettale. Chi è fortunato può contare sugli operatori privati, chioschi o locali o grandi eventi la cui portata è direttamente proporzionale alla spendibilità turistica del luogo. E solo a quel punto è possibile tracciare la riga e scrivere sotto il risultato, che per la mia cara amica Tinapica che è in vacanza a Gallipoli significa avere l’imbarazzo della scelta tra Subsonica e Caparezza, per me che mi trovo per un paio di sere al paesello natio è una roulette russa tra il concerto di Umberto Tozzi e il luna park.

Il tutto scoperto per caso, direi quasi subìto, altrimenti saremmo corsi ai ripari optando per una sana e antisociale programmazione serale tv con bollino verde, agevolata dal carnet completo dell’abbonamento Sky dei nonni a disposizione. E invece no: spinti da un eccesso di sregolatezza stagionale, ecco due fatal error, uno via l’altro, con un pizzico di imprevisto finale per un esito di portata tale da minare anni di sforzi volti a plagiare il senso estetico di una figlia.

Intanto il passaggio nei pressi della performance di Umberto Tozzi proprio durante il clou dell’esibizione: Notte rosa e Ti amo. L’area spettacoli gremita, un paio di maxischermo per chi non è riuscito a posizionarsi sotto il palco, gente di ogni età che ripete i testi e le rime baciate del pop sempreverde a memoria. “Papà, ma non mi piace questo cantante, che lagna.” Quanto hai ragione, cara. Poteva andare meglio, mi sarei accontentato di Stella stai o Zingaro voglio vivere come te, vere chicche per palati fini.

La seconda fatica è stata attraversare il lungomare occupato da giostre, autoscontri e calcinculo vari, più trabiccoli indistinguibili da un solarium, tanta luce emanano, e dispenser di zucchero filato e schifezze ipercaloriche varie. Ogni attrazione con il suo impianto hi fi, la canzone meno truzza alla fine risulta essere Loca di Shakira, ragazzetti con le mutande in vista e tripudio di polo con i colletti ritti su nudità varie e bruciacchiate.

Non c’è nulla di più deprimente di un luna park, vero? E allora via anche da lì, rifugiamoci in uno dei numerosi bar aperti, ma in quello scelto a caso ecco l’odiata animazione latinoamericana, i movimenti sexy e maracaibo, pubblico anziano che sorseggia chinotto Lurisia e beveroni a base di acqua tonica, umanità vestita di marche tarocche e gel con effetto bagnato in quantità spropositata, anche sui bambini in età prescolare.

Ho capito, è meglio tornare a casa senza consumare. Il rientro, per evitare il percorso tentacolare appena fatto a ritroso, si articola così attraverso un paio di vie dagli scorci tipici: muri scrostati tappezzati da annunci mortuari, insegne dei negozi scelte senza un minimo di criterio omologante, la gelateria con dehor in mezzo al parcheggio e le agenzie immobiliari tutte illuminate anche di notte, che quando abitavo lì non c’erano ancora.

E ora, prima di addormentarmi, ecco il consueto rituale del camion dell’immondizia rigorosamente indifferenziata e del lavaggio strade, giustamente schedulati per transitare nelle vie centrali della cittadina in piena notte, in estate, quando tutti dormono con le finestre aperte. Bel posto di merda, mi vien da pensare. Bel posto di merda.

per un pugno di dollari

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David Bowie, vestito da cowboy, che suona la chitarra e canta una canzone. È doppiato da schifo, un timbro che nemmeno lontanamente ricorda il duca bianco, ma è Davie Bowie e altrove, stiamo parlando della tv in una sera qualsiasi d’agosto, quando è già disdicevole di per sé essere in casa con la tv accesa, ma può capitare, c’è il vuoto digitale. Non ricordavo che avesse fatto un film ultimamente; ho visto L’uomo che cadde sulla terra e Miriam si sveglia a mezzanotte, ricordo Furyo. Ma film recenti? E poi Mr. a lad insane che recita in un western? Stiamo a vedere. È questione di secondi e vedo anche Harvey Keitel, è di profilo e guarda dalla finestra. Tra me e me penso che la cosa si sta facendo interessante. Harvey Keitel, diamine, un tempo era il mio beniamino, soprattutto dopo Smoke. Ci sono buone probabilità che il film sia di qualità. Ma il terzo indizio fa piazza pulita: a fianco di Harvey Keitel fa capolino Pieraccioni. La tv si spegne come per incanto; ho deciso, per il mio equilibrio, di continuare a ignorare il motivo e i dettagli di un simile coacervo cinematografico. Bowie che ha accettato, non so quando e non so come, di fare un film con Pieraccioni. Vi prego di non dirmi nemmeno il perché.

non ci casco

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dalla taglia xxll alla ss

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Avete letto tutti la burla delle t-shirt stampate con l’inchiostro simpatico? Al primo lavaggio il messaggio neonazista si trasforma nel suo opposto, e lascia i nostalgici del terzo reich con un palmo di naso. Le magliette continuano ad essere un efficace mezzo di comunicazione, un documento di identità manifesto che troppi, ancora oggi, sottovalutano. E in momenti borderline come quello attuale in cui si passa dalla più cieca indifferenza al linciaggio squadrista in totale imprevedibilità, occorre fare attenzione a cosa indossiamo.

Ho ricevuto molte telefonate, proprio come Alberoni, di persone preoccupate che mi chiedono se esistano rischi seri nell’ostentare sul proprio torace o, peggio, sulla schiena, un’appartenenza partitica piuttosto che il gruppo musicale preferito. Cari lettori, per i gruppi musicali non vedo problema alcuno. Per quanto riguarda la propria posizione parlamentare, o extra, a dirla tutta io ci andrei con i piedi di piombo. A meno che non siate così creativi da puntare tutto sull’ironia, toni che, come sappiamo, a destra sono pressoché inesistenti e conseguentemente del tutto incompresi. La maglietta del Che o quella della nazionale sovietica di calcio non lasciano dubbi. Per non parlare della bandiera con falce e martello; sono stato coinvolto in un dibattito – a tavola, sia chiaro – durante il quale mi si faceva notare che una maglietta con la svastica non passa inosservata alle forze dell’ordine, mentre le vestigia della cosiddetta dittatura comunista sono tollerate e considerate lecite. Pure il sottoscritto è in possesso di una maglietta rossa recante l’acronimo CCCP, la sigla però in questo caso di riferisce al noto gruppo di punk filosovietico capitanato da Zamboni e da un cantante di cui, da qualche anno, mi sfugge il nome. Cioè, Lenin e soci non c’entrano nulla, tantomeno il Comintern.

Ma, a parte questa che mi ostino a considerare un’eccezione a conferma della regola, sono un seguace della tinta unita senza marca, senza scritta, senza fronzoli. E delle righe orizzontali, ma questa la considero un criterio estetico e nulla più. Perché essere troppo espliciti è rischioso, metti che ti capita di passare davanti a una sede di casa pound, e proprio quel giorno hai su una t-shirt da bancarella fricchettona, sei spacciato. Ma se la cerchi con un messaggio sottile, questi che amano le cose semplici nemmeno capiscono cosa intendi dire, e il gioco è fatto. Ho notato però uno sforzo anche dall’altra parte. Ho visto un tizio indossare una maglietta con una vistosa M davanti. La testa lucida e la corporatura da combattimento mi hanno fatto insospettire. Camminava nella direzione opposta alla mia, mi sono girato e ho notato che sulla schiena, con lo stesso font, compariva una B. B e M, e confesso che non è stato immediato comprendere quali iniziali fossero. La fatica è sempre la stessa, difficile riconoscerli nell’orientamento opposto a quello a cui siamo abituati.