sincronizzami tutto

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che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

jazz di stagione

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ti copro io

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Se G. dichiara di non vedere la TV non è perché rientra nelle file degli intellettuali di sinistra, categoria antropologica alla quale appartiene in quanto elettore del PD o, “vediamo come vanno le cose“, di SEL, oltre a dichiararsi assiduo cultore di letteratura, sociologia, comunicazione, musica, cazzatine nerd/geek, lettore di Repubblica e via dicendo. G. non vede la tv con regolarità dal 1996, anno dell’indipendenza e della conseguente dichiarazione delle priorità, ovvero quello che ci si può e non ci si può permettere con poche (ai tempi) lire. Meglio possedere un televisore o un frigorifero? A voi la scelta. G., sappi che nessuno ti biasima per questo. Food for thought, c’era scritto sul primo album degli UB40. Ma, prima di tutto, a pancia piena si sta meglio. E si pensa meglio. Si, lo so. Metto troppi punti. Troppe frasi brevi. Ma già so che G. apprezza. Fa figo. Andiamo avanti.

saturday at the village vanguard

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Il 25 giugno 1961 il Bill Evans Trio – una delle più grandi formazioni jazz di sempre – suonò al famoso Village Vanguard di New York, il locale del Greenwich Village. Era domenica e il trio aveva a disposizione sia l’esibizione del pomeriggio che quella della sera. Bill Evans, morto nel 1980 a 51 anni in conseguenza degli abusi di droghe e di una salute debole, è considerato tra i più importanti pianisti della storia del jazz. Con Bill Evans, che quel giorno aveva 31 anni, in quella formazione del 1961 suonavano il bassista Scott LaFaro e il batterista Paul Motian. Scott LaFaro morì a solì 25 anni in un incidente stradale appena dieci giorni dopo quel giorno, e due giorni dopo aver suonato con Stan Getz al festival jazz di Newport. (Il Post)

Oggi era sabato, ma di Bill Evans e di quel live ce ne ricordiamo sette giorni su sette.

alieni senza compasso

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manifesto rancore

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Q.: Dottore, temo di aver causato una frattura insanabile nel rapporto con i miei genitori.
A.: La fermo subito. Le ricordo che anche lei fa parte della categoria.
Q.: Sì, lo so, ma preferirei continuasse a trattarmi da figlio. Li odio. Odio il fatto che siano vecchi e siano diventati individualisti, egoriferiti, poco affidabili, sempre bisognosi d’aiuto. Sperperano per loro e sono avari con me. Non si interessano delle cose che faccio, parlano solo di cibo. Così vivo costantemente nel senso di colpa: da una parte mi sento di dover amarli in quanto padre e madre, dall’altro cerco di evitarli e ogni volta che accade di dover passare tempo con loro vado in ansia. Detesto la loro casa piena traboccante di cose che continuano ad accumulare. Cose inutili, libri, riviste, giornali, vasi, piatti, soprammobili. Non gettano le cose rotte, non gettano le cose che non servono più e che continuano a giacere pieni di polvere in ogni cassetto, o in bella vista su ripiani, librerie, tavolini. La mensola sul camino, murato da quando mia mamma scoprì che vi entravano i topi dal tetto, è sommersa da orologi. La sveglia della casa di campagna della nonna, la paccottiglia cinese comprata a un euro, il finto pendolo rotto da secoli. Le pareti sono nascoste da piastrelle, stampe kistch e quadri di nessun valore.
A.: E nella sua ex-cameretta?
Q.: Gli stessi poster che avevo appeso da ragazzo. I Cure, Morrissey, i Depeche. Alcuni sono stati sostituiti da vecchi calendari dozzinali.
A.: Si ricorda i poster che sono stati sostituiti?
Q.: Avevo una gigantesca riproduzione della celeberrima foto di Che Guevara. Sparita.

campagne che sbagliano

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Se l’Italia è un popolo di poeti eccetera eccetera, il Partito Democratico è un popolo di segretari del Partito Democratico, pronti a vestire i panni dei Responsabili Comunicazione del Partito Democratico.

la favola dei thread porcellini

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Dietro a Internet, si sa, ci sono donne e uomini. E dietro a ogni donna, anzi intorno, perché vista la pariteticità dei rapporti interpersonali in rete l’idea di “intorno”, sullo stesso piano che fa tanto social, rende meglio, ci sono uomini a bizzeffe. Una cosa che succede anche fuori, ma sulla rete, per i motivi che sappiamo tutti, il fenomeno è più eclatante. Tempo fa ho tentato un esperimento. Volendo fare un po’ di marketing fai-da-te e improvvisare pierre digitali per un gruppo in cui suonavo, mi sono finto donna e ho iniziato a frequentare i siti di Social Network abitati da addetti e non ai lavori, in un settore in cui l’uomo è tradizionalmente rocker e la donna è tradizionalmente groupie. E in uno scenario in cui l’offerta (leggi: i gruppi che vogliono farsi pubblicità) è 1.000 e la domanda (leggi: gli utenti che vogliono ascoltarli) è 1, ma in un contesto di feromoni digitali in cui l’offerta (leggi: femmina) è 1 e la domanda (leggi: maschio) è 100, mescolando tutte queste matrici qualcosa si tira su. Per lo meno, un po’ di attenzione. Ma occorre essere molto delicati, è facile essere smascherati anche se l’uomo, boccalone per natura, in odore di vulva anche se velata da un browser abbassa le barriere intellettive, prima della zip dei pantaloni, ed è facilmente “conducibile”. In quegli scambi di pareri musicali al buio qualcuno si è pure invaghito, al che ho interrotto le conversazioni one to one per non urtare i sentimenti altrui. Ma, devo ammettere, sarei una discreta ammaliatrice.

Il gioco delle parti tra i sessi, omo e etero of course, vecchio quanto la prima sintesi proteica, come è giusto che sia si è dato nuove strategie secondo i più moderni canali di abbordaggio. Le tecniche di seduzione sono in continuo adattamento, ma la sostanza direi che è immutata. Ecco un avatar femminile, ed ecco i mosconi di contorno. Fino alla deflagrazione: Tizia mette la sua foto in mutande. Con l’effetto Instagram che ha quel trucco che ti fa sembrare in una Polaroid scattata trent’anni fa. Una foto fintamente vintage di Tizia in mutande che, obiettivamente, passatemi il commento bacchettone e maschilista, è un pochino provocatoria. Ed ecco l’inevitabile reazione a catena di indirizzi IP di sesso maschile che puntano lì, in rapida successione, a mettere il pollice su, le faccine e i commenti ammiccanti, che anche i più creativi e simpatici buttati lì a sdrammatizzare comunque ci provano. Io, che mi distinguo per la mia onestà intellettuale, ci provo da qui.

cool and the gang

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Foto su Il post.