è inutile che vi nascondete, so benissimo che mestiere fate

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Ieri sono passato per caso in macchina davanti alla sede della McCann Erickson a Milano, che si trova qui in un edificio modernissimo che, solo a vederlo, trasmette creatività e dinamismo grazie a tutti quei vetri e quelle linee straordinarie. La McCann Erickson la conoscete tutti, è un’agenzia di advertising da fantascienza che i copywriter con i maglioni di lana che fanno i pallini come me se la possono sognare, non a caso, potessi ripartire da capo, studierei per diventare architetto. Mi sono osservato riflesso negli specchi passando in auto, perché non guidavo io, e ho pensato alla mia vicina di scrivania che vedo con la coda dell’occhio mettersi continuamente le dita nel naso e al programmatore che ho di fronte, il cui orario di lavoro inizia a mezzogiorno e, dopo pranzo, si addormenta davanti al computer. Questo non dimostra niente, tantomeno che i professionisti della creatività necessariamente siano predestinati a posizioni di alta visibilità in agenzie strafighe e che tali agenzie strafighe siano ubicate in sedi avveniristiche come quella della McCann Erickson a Milano. Ma se avete la pazienza di girellare per certi quartieri di Milano oggetto delle più recenti gentrificazioni, imparerete a riconoscere i creativi anche quando entrano nelle agenzie di comunicazione ubicate in edifici residenziali piuttosto anonimi che però, dentro, celano posti veramente suggestivi. Li riconoscerete perché non sono dei fighi pazzeschi e appariscenti e, in più, sono spesso vestiti in maniera volutamente disordinata, portano la barba e i capelli spettinati ma con un portamento che invidio tantissimo e che, su di me, fa l’effetto di mio papà quando era già vecchio e l’abbigliamento non era certo quello più adatto. Un altro particolare è costituito dalle Camper Peu che calzano in massa, quelle che piacciono a me e che costano 160 euro. In altri casi si portano in ufficio la schiscetta da mangiare a pranzo composta da una fanta e un panino o un pezzo di focaccia con una disinvoltura che, inevitabilmente, mi viene da confrontarli con l’impiegata dell’ufficio del comando della polizia municipale. Ci sono appena stato e per questo lo so bene: era una tipa davvero ordinaria tendente al bruttino e in più non accettava il fatto che la ringraziassi e le dicessi che era stata molto gentile perché aveva preso in mano l’intera pratica di un caso molto complesso, il mio, in cui avevo pagato per errore un importo inferiore a quello indicato su una multa e per il quale spero davvero che la procedura sia conclusa, perché tutte queste complessità fanno molto male alla mia vena creativa e così, se mi vedeste per strada, non indovinereste mai il mestiere che faccio.

esegesi di un annuncio per community manager

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Amici giovani precari che vi scornate con l’illusione che queste cose qui su cui perdete tempo anziché studiare vi offrano opportunità remunerative e che la visibilità su Internet possa essere scambiata con una busta dell’Esselunga piena di generi alimentari o almeno in quantità sufficiente a farvi arrivare alla settimana prossima, io che ho qualche anno più di voi ho la fortuna di saper interpretare al meglio l’oscuro linguaggio delle offerte di lavoro dedicate ai vostri profili professionali. Ho pensato quindi di mettervi a disposizione un veloce prontuario per tradurre in un italiano più concreto l’idioma con cui certe società attirano talenti ormai nemmeno più con lo spirito dell’usa e getta, ma quello del getta e basta nel calderone del nemmeno noi sappiamo quello che facciamo, ma avere personale fa comunque figo, poi tanto per pagarlo si vedrà, d’altronde se uno sta a vedere tutto. Ecco qui:

Descrizione del lavoro

Stiamo cercando persone appassionate che non si tirano indietro di fronte alle sfide = non c’è nemmeno il rimborso spese

Le cerchiamo giovani ma con la voglia di crescere velocemente in un ambiente in cui ci si guarda negli occhi e ci si confronta senza problemi = ti chiederemo di lavorare nei fine settimana tanto la fibra e un portatile ce li hai anche a casa

Le persone che cerchiamo hanno realizzato o partecipato alla realizzazione di progetti digitali, gestito professionalmente delle pagine Facebook, dei profili Twitter e si sono sporcate le mani con YouTube (nel senso che ci devono aver tirato fuori dei risultati minimamente spendibili perché a pubblicare un video sono capaci tutti) = se gestisci qualche spazio tipo sei di stocazzo se, o la fan page di Doraemon, oppure se sei uno di quelli che passa i giorni a spremersi di ironia su Twitter nella speranza di essere ripreso da Repubblica, Sora Cesira inclusa

Hanno lavorato nel food & beverage, negli spirits, nell’entertainment, nel luxury, nel fashion, nei servizi alle imprese, nell’energia e hanno capito che, per stare sui social, un brand deve avere una sua voce e che questa voce deve essere interpretata, posseduta fino in fondo = conosci la Nutella, la 500, le mutande D&G e sei pronto a comprarti qualcosa per recensirlo ma con i soldi di tasca tua

Ma sanno anche che questo non basta e che la voce e i contenuti del brand devono essere diffusi anche utilizzando quella meravigliosa trappola che è il socialadv = tuo padre ha qualche aggancio nella comunicazione tradizionale o in qualche casa editrice

Averne fatto esperienza vuol dire anche saper leggere i dati che stanno dietro, nascosti nelle dashboard e che sono la guida e il giudizio sul funzionamento e l’efficacia delle azioni = sei tu responsabile delle cose che scrivi, al primo epic fail ci metti la faccia e comunque sei finito

Competenze ed esperienze richieste

Queste persone devono / o almeno dovrebbero aspirare fortemente a:

– essere dei creatori di contenuti. Saper entrare nei temi e negli argomenti trasformandoli in qualcosa di originale. Si chiamano branded content e alcuni di concentrano sul tema dello storytelling, ma parliamo in fondo di scrittura, credibilità e stimolo della curiosità del lettore/utente (soprattutto quando parliamo di prodotti e servizi) = scrivi pure a cazzo, tanto gli utenti di Internet si sa che non riescono più ad afferrare il senso compiuto di ciò che leggono

– scrivere davvero bene e saper declinare la scrittura per i diversi canali (anche questo è banale, ma un conto è il tono e il lessico di una conversazione su Facebook, altro è lo stile e la sintesi creativa di un tweet. Non parliamo poi della scrittura di un blog o di un contenuto per un sito. Altre storie ancora) Devono avere cognizione di cosa fa un copywriter e magari averne fatto esperienza (sia in termini di scrittura che di lavoro a contatto con gli Art Director). Scrivere vuol dire anche saper progettare, ma anche saper presentare i progetti = sarai inserito con un periodo di prova per cercare telefonicamente nuovi clienti

– devono aver progettato o aver partecipato alla progettazione di contest, concorsi, iniziative a premio che abbiano coinvolto di canali digitali dell’azienda (siti, social, etc.) = dimenticati la creatività, ciccio, e stai pronto a sfoderare il meglio del tuo burocratese

– parlare e scrivere in inglese. Non parlerete tutti i giorni in conference call con clienti dall’altra parte del mondo, ma tutti i giorni dovrete leggere e aggiornarvi su materiali che sono solo in inglese = il nostro inglese è scadente, contiamo sulla vostra proficiency perché noi al massimo usiamo quei termini italianizzati dall’inglese marketing ma poi non sappiamo nemmeno chiedere un’indicazione all’estero

passare il testimone

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Ho un’amica che ha questo nuovo collega ventenne che la sostituirà nel suo ruolo e che le racconta le battute che sente alle radio commerciali la mattina, quei programmi in cui fanno scherzi telefonici e gridano e dicono parolacce e doppi sensi poi via con il nuovo successo dei Modà quindi altre volgarità (nel senso dei Modà) fino alle news che poi sono metà serie e il resto gossip. Ma nel senso che introduce le battute dicendo cose tipo “ho sentito delle battute troppo divertenti alla radio” e poi le racconta. Una di queste era “come dorme un gay nel letto? Supino. SU-PINO. Hai capito?” ti chiede pure e ride. Lei poi che è una cinquantenne mica da buttare via, una di quelle che negli ambienti dei video porno su Internet rientrerebbe nella categoria MILF anche se non ha figli, anzi è single quindi la emme dell’acronimo è inutile e potrebbe essere sostituita da una esse, ma SILF sa più di un sindacato, almeno per noi italiani, dicevo lei è convinta che lui la broccoli un po’ ma lei dice “no-way”, il “gap” è più ampio che si può e, a proposito, dice anche che lui proprio con l’inglese fa troppo ridere perché pronuncia tutto male nemmeno si impegnasse. E il bello è che non è che lui si risparmi nell’usare i termini inglesi che nell’ambiente informatico sono un must, vedete anche io li uso correntemente. Lui li usa spesso sia quando è costretto, perché certe cose hanno un nome in inglese come il “cloud” o i “plug-in”, cioè non puoi chiamarli diversamente perché risulteresti ridicolo. Ma lui li usa anche a sproposito, a pranzo davanti a un panino o alla macchinetta del caffè, e nessuno ha il coraggio di dirgli “guarda che stai sbagliando”, perché lui li dice con una tale caparbietà di dire cose giuste che risulta poi convincente, anzi lei stessa mi conferma che non si stupisce del fatto che qualcuno si è già posto il dubbio di aver sempre sbagliato la pronuncia. Ecco, proprio il “cloud” che di norma si pronuncia “claud”, lui lo dice “clod”, come “sgian-clod-vandamm”. Ogni volta che parla e dice “clod” tutti fanno la faccia come dire “ma clod chi?” e poi si ricordano di questa forma di disturbo dell’istruzione e si tranquillizzano che non c’è nessun francese nelle vicinanze. Poi “il form” per bocca sua diventa “la form”, e tutti a chiedersi il perché, visto che magari è una sorta di vetero-femminismo e lei e gli altri che invece subito pensano male. “Plug-in” che si dice “plagh ìn” con l’accento sulla i, lui lo dice “plàghin”, tutto attaccato e con l’accento sulla a. “Header” lui lo pronuncia “hìder”. In generale però sostiene trattarsi di un buon diversivo alla routine, che si pronuncia “rutìn”.

tempi moderni

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Il mimino che può capitarci, a quelli come me e come voi – e ho usato proprio la prima persona plurale a sottolineare quanto vi senta vicini e per questo auspichi in una incondizionata e mutua solidarietà – è di fare gli straordinari. Ora non stiamo a sottilizzare se pagati o meno, perché non è questo il punto. Mi riferisco infatti a quel tempo extra che dedichiamo alla nostra vita professionale ma nella nostra testa e fuori dall’orario di lavoro. Con un picco nei giorni di maggiore stress o di iperproduttività. Ma erroneamente ho parlato di giorni perché, da svegli, comunque una distrazione in questa o quell’attività riusciamo a trovarla. È durante la notte, infatti, che la nostra mente veste gli abiti da lavoro e dà il meglio di sé. Tanto che poi, dopo aver macinato preoccupazioni durante il sonno o in quello stato di dormiveglia che l’ansia ci concede, ecco che gli occhi si spalancano e ci chiediamo sbigottiti come tutto il resto della casa sia ancora in piena notte con tutto quel baccano che fanno i nostri pensieri. Come se dentro avessimo un impianto industriale attivo 24×7 e fosse necessario, per chi si trova lì a pochi passi, indossare l’abbigliamento e i dispositivi per la sicurezza fisica, compresi i para-orecchie a protezione dell’udito.

Nemmeno albeggia e siamo già in ufficio, abbiamo vivo e pulsante dentro di noi tutto il desktop del nostro pc come quei sistemi che si collegano da remoto e ti consentono di pilotare un computer altrui a distanza. Ma che cosa ci volete fare. Nella società del terziario avanzato che ora si chiama economia dei servizi, le parole più brutte che un individuo vorrebbe sentirsi dire sono “la scadenza è anticipata”, come se il mondo là fuori non si curasse delle più gravi calamità come l’imprevedibile visualizzazione di una e-mail in html a seconda del programma di posta elettronica in dotazione al destinatario e della versione dello stesso. Questioni di primaria importanza che rischiano di far slittare comunicazioni al cliente, campagne marketing, lanci di iniziative, il cui ritardo però – è bene ricordarlo – genera conseguenze sull’economia mondiale che però, per noi, probabilmente sono difficili da individuare. Certo, uno magari si è fatto tutti i suoi piani ma, che diamine, qualche pixel di disallineamento è un altro paio di maniche rispetto – che so – lasciare una pinza nello stomaco di una persona testé sottoposta a intervento chirurgico o mettere in produzione milioni di confezioni di un prodotto alimentare in cui si è aggiunta per errore soda caustica. E non oso pensare a come noi del marketing, in caso di responsabilità di siffatta portata, potremmo reagire se già con le nostre, di magagne, perdiamo il sonno e almeno già da tre ore prima della sveglia ci rigiriamo nel letto facendo mente locale su quale urgenza della giornata successiva dare la precedenza o come è bene comportarsi con il cliente taldeitali che – nemmeno fossimo dal salumiere – vuole uno sconto. Così poi ci troviamo in ufficio tutt’altro che riposati, con la consapevolezza che le ore in più in compagnia dell’angoscia non sono state per nulla produttive. Figuriamoci se retribuite.

non notate qualcosa di diverso?

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Ora, cambiare ufficio non sarà certo come cambiare casa. Ma il trasloco dell’agenzia in cui lavoro dalla sua sede storica, dopo dieci anni tondi tondi alla stessa scrivania nella stessa stanza, fa un po’ d’aria nuova, no? Così mi permetto da queste pagine private un saluto a tante comparse e a numerosi luoghi che a furia di vedere tutti i giorni erano diventati un punto di riferimento anche per gli appunti che poi ho sviluppato qui. Come lo show room di auto d’epoca all’angolo, la zingara che da sempre chiede l’elemosina ogni giorno davanti al supermercato, le cassiere del supermercato stesso, la piazzetta spesso usata come set cinematografico, le vie tutt’intorno e i negozi che vi si affacciano, l‘agenzia di comunicazione molto trendy dal turn-over estremo la cui sede era proprio sotto di noi tanto che con il Mac vedevamo le loro cartelle condivise, il cane della vicina di sopra. E insomma ora siamo un po’ più a sud est di prima, sempre a Mlano, sono cambiate in meglio molte cose, mi auguro comunque di non traslocare più perché non vi dico la fatica e sappiate che spero di trovare presto altre fonti di interesse sociologico, per la gioia dei miei venticinque lettori.

al doppio di quello che prendevo prima, pensa un po’

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Appena entravi c’era appesa sulla parete di fronte all’ingresso una gigantografia di Saddam Hussein in primo piano che ti guardava dalla sua posizione di privilegio, pochi anni prima che diventasse un pericoloso latitante a livello mondiale. L’ebbrezza di qualche aperitivo buttato giù con l’obiettivo di ammazzare il tempo prima della festa ne amplificava l’effetto sorpresa e quello smarrimento che solo le cose fuori posto ti provocano. È raro trovare in un ambiente lavorativo elementi a elevato potenziale di urto verso la sensibilità altrui, anche se era evidente che non esistevano i presupposti di una ragione fondata per dedicare un intero muro portante a un dittatore straniero. Sfido inoltre che qualcuno degli invitati a quel party estemporaneo in agenzia potesse avere nozioni di politica internazionale tali da supportare una tesi in favore o contro un capo di stato così scomodo da idolatrare. Al limite poteva dare adito a una discussione su presupposti generici e basi infondate, ma nessuno avrebbe potuto provare dati alla mano che potesse sussistere un legame tra un discusso protagonista della questione mediorientale e una agenzia di comunicazione milanese. Bicchieri alla mano, invece, valeva tutto.

Già quell’effigie da propaganda elettorale superflua in un Paese distante da noi tanto quanto dalla democrazia rubava la scena al resto del loft, ai monitor abnormi che proiettavano slide show e grafica direttamente dal futuro del business, ai salatini lasciati a metà a macchiare di unto diagrammi di Gantt stampati su carta A4 nemmeno riciclata, alle copie di Wired in lingua originale con quei font che nessuno sapeva dove scaricare. Non era nemmeno il caso di togliersi le giacche di pelle usate, i vasistas di quel seminterrato erano tutti spalancati anche se vigeva già un antesignano divieto di non fumare, valido solo per le sigarette. Gli alcolici invece erano quasi terminati e per servirsi occorreva avvicinarsi alla postazione del dj, un cocopro che si dilettava nell’autoproduzione di drum’n’bass ma che in occasione della festa aziendale aveva accettato un compromesso con una scaletta più ordinaria.

Era difficile trovare facce conosciute a parte i due ex colleghi che avevano esteso l’invito più come ripicca verso il passato trascorso insieme che come carineria per tenere vivi i rapporti. Un project manager raccontava a un gruppetto di finti interessati le fasi cruciali di un case history, e gli era facile perché si passava da una mano all’altra una prova tangibile che conferiva la sicurezza del fatturato, lì in mezzo a una produzione tutta virtuale. Tre ragazzi molto più giovani degli altri lanciavano freccette contro un bersaglio realizzato per una campagna marketing ancora da finalizzare, quelle che restano con i brand inventati che però, con i non addetti ai lavori, riscuotono comunque attenzione e attirano curiosità. Fai centro con l’e-commerce, diceva il claim, e su ogni freccetta c’era un must per mettere a punto una strategia on-line efficace. Lì sotto però il mio cellulare prendeva poco, un fattore determinante se si aspetta una chiamata. Solo nei pressi del bagno sembrava esserci un po’ più di campo. Mentre controllavo le tacche sul display, una ragazza ha salutato uno dei soci, uno molto più grande di lei, con un veloce bacio sulla bocca e quasi è fuggita, tenendo una cartellina di plastica verde trasparente sotto braccio. Così lo finisco e domani possiamo portarlo in riunione, gli ha detto uscendo. C’era anche un cane di taglia media e di razza indecifrabile, sdraiato sotto una delle scrivanie più piccole. Ogni tanto tirava su il muso per assicurarsi che nessuno sporgesse le braccia per prenderlo o accarezzarlo, poi si rimetteva tranquillo a mordicchiare un gadget gommoso a forma di premio Oscar con su stampato un anno che avresti detto non sarebbe mai arrivato ma che a pensarci è già passato ed esploso proprio dentro una bolla.

comunicare è un’impresa non da poco

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Ecco, io vorrei che tutti i ragazzi che stanno per conseguire un diploma e stanno valutando quale facoltà o corso di studi scegliere per prepararsi al mondo del lavoro. O tutti quelli che hanno già una laurea, non trovano lavoro, e credono che così si possano aprire nuove opportunità. Le persone che fanno tutt’altro e sono ancora convinte che si tratti della disciplina del futuro. Ecco, a questa massa di ignari che credono che lavorare nella comunicazione aziendale sia un mestiere da fighi, che generi visibilità e, soprattutto, soldi, dico che vorrei che prima di fare una scelta così scellerata venissero in ufficio da me, un paio di giorni, giusto per vedere di che cosa si occupa l’agenzia di comunicazione media.  Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 18/05/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

ti faremo sapere

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Ieri a un colloquio qui in agenzia si è presentato un ragazzo che conoscevo e frequentavo saltuariamente almeno vent’anni fa, ora uomo adulto e poco più giovane di me. Il caso ha voluto che ci fossi io dall’altra parte del tavolo insieme a una collega (più in virtù del fatto che sono tutti in ferie che alla mia seniority), e che ci fosse lui di fronte. Non mi ha riconosciuto, però. Vuoi il tempo, vuoi la barba, vuoi il fatto che concentrarsi troppo su sé stessi – cosa che non biasimo se non nelle conseguenze – impedisce di fare propri molti dei dettagli esterni e quando tra i dettagli trascurabili e trascurati dal prossimo ci siamo noi, un po’ la nostra autostima ne risente. E non è un problema di personalità che impressiona o no la pellicola sentimentale altrui. Sono convinto che catturare l’attenzione dipenda solo in parte dal soggetto, mentre subentri spesso la sensibilità dell’oggetto.

Era da qualche giorno che mi rigiravo in mano il suo curriculum e il nome e la foto, oltre alla città di nascita, mi sembravano famigliari. Così quando me lo sono trovato davanti e lui, senza capire chi fossi, è partito con la presentazione standard in ordine cronologico dal liceo all’altro ieri, ho lentamente riordinato tutti i collegamenti e ricostruito una mappatura di esperienze davvero remote perché provate con un corpo e una mente così differenti da quelli che ho in dotazione ora. Lui e i suoi amici artistoidi tiratardi mantenuti e quel modo di vedere il futuro che si è palesato come presente davanti a me, scorrendo la lista delle sue esperienze professionali e raccontate in diretta con un po’ di incespicamenti, il tutto a decretare un fallimento umano se confrontato con il manifesto artistico di allora fatto di provocazioni del calibro di “se non ho successo mi sveno” per uno statuto di norme più che altro estetiche che si vede che con il tempo è stato soggetto a cambiamenti, vista la sua presenza in carne, ossa e liquidi venosi e arteriosi a un metro da me, tutt’altro che avvolto dall’aura della fama. Anzi, messo piuttosto malino.

E io che invece mi ricordo tutto e nei minimi particolari – cose minuscole come la compagna di corso che avvalendosi delle sue canottiere striminzite mi ha estorto il libro di Storia Medievale per dare un esame senza mai restituirmelo o la quantità di mix dei Depeche Mode che una mia ex ha tenuto immeritatamente per sé al momento della separazione dei beni a conclusione del nostro rapporto, quindi fate attenzione a come vi comportate nei miei confronti – sono stato tentato di svelare la mia identità. E lo avrei fatto se man mano che la sua inadeguatezza al profilo qui ricercato, che si andava confermando parola dopo parola, sguardo dopo sguardo, non avesse reso uno spostamento del piano relazionale su un livello più profondo molto pericoloso. Non volevo introdurre elementi tali da rendere poi difficile l’ammissione dell’incompatibilità che si stava profilando. D’altronde sono fatto così, mi sobbarco il lato umano quando invece è importante non lasciarsi coinvolgere. Per esempio poco prima si era presentato un ragazzone che ha dovuto abbandonare gli studi al Politecnico al primo anno per motivi economici e diceva di essere pronto ad accettare qualunque cosa. Se dipendesse da me l’avrei preso subito perché mi ha fatto tenerezza, ma non è così che si conduce un’azienda, non sta a me dispensare ammortizzatori sociali.

E a fatica ce l’ho fatta: sono giunto indenne al “grazie ti avviseremo anche in caso negativo” senza svelare la mia identità, tutti noi presenti a quell’incontro eravamo consapevoli che nulla era andato bene e che non ci saremo rivisti mai più. Così ho pensato a come si è prima, come si diventa dopo, come si cresce durante. E pur avendo dimostrato che è possibile mettere a tacere questa parte di noi solo perché si sta lavorando e si indossa un abito temporaneo professionale, ho pensato che no, l’addetto alle risorse umane non è proprio un mestiere che fa per me.

la dismissione

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Qui non c’è un impianto industriale da rimuovere pezzo per pezzo e da portare in oriente, c’è solo un capitale intellettuale e professionale che fattori diversi stanno smantellando ma che non verrà ricostruito altrove con le stesse macchine, bensì con apparati e competenze anche meno convenienti di quelle che si trovavano qui. Vaglielo spiegare tu a ‘sti colossi delle multinazionali che mandare il loro personale in Italia dalla loro sede centrale per fare un lavoro da tradurre poi in inglese per poi ritradurlo in italiano costa molto di più che farlo direttamente in italiano con un’agenzia esterna che peraltro conosce meglio le tecnologie, i clienti per non dire il territorio e il mercato in cui la multinazionale opera da quindici anni. Così mentre mi sforzo di non mettere il mio valore aggiunto in un lavoro fatto da altri e che fino a l’anno scorso svolgevo io con un livello di professionalità e di qualità che vi sfido a eguagliare, ripenso a Vincenzo Buonocore, l’operaio che rilegge la sua vita nei brandelli di macchinari che va smontando per l’acquirente cinese nel libro di Ermanno Rea. Pezzo per pezzo, nel mio caso riga per riga, una vita di sforzi per limitare le ripetizioni e refusi nel racconto del lavoro degli altri, pensando che presto sarà un lavoro di altri anche questo.

sotto sotto

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Vi faccio ciao ciao con la manina a voi là sotto, a me lavorare in un seminterrato mi metterebbe in soggezione e lo so perché è un’esperienza da cui sono già passato. Da tre sedi ai piani medio-alti ci avevano concentrato tutti al meno uno perché è quello il mondo dei loft, una volta si chiamavano scantinati ma è bastata una mano di resina sul pavimento e qualche iMac per farne un posto che ti viene voglia di organizzarci pure le feste. E tutte le luci per farne un ambiente accogliente perché la luce naturale non entra mai, dalle finestre sulla strada – se hai il coraggio di lasciare su le tapparelle – vedi cani al guinzaglio e calzature di tutte le fogge che sono utilissime perché ti accorgi dei cambiamenti di stagione. Per non parlare del periodo delle piogge che sembra che ti entri l’acqua dentro e magari poi qualche infiltrazione c’è. Ma la vera anima del seminterrato è sotterranea, qui è il vero underground, perché quando ti capita di fare tardi perché hai una scadenza il giorno dopo, magari vai in bagno che ormai è sera e quando accendi la luce ecco il fuggi fuggi generale delle creature della notte che vivono lì da prima di te e si danno appuntamento tra loro bacherozzi di ogni genia sotto la colonna del lavandino. E pensare che nella ristrutturazione è stato previsto anche l’allestimento della doccia tanto che qualcuno va a correre al parco a fianco e poi ne approfitta per non tornare alla sua postazione sudato marcio, ma dopo che assisti al party di insetti qualche remora ti viene. E il mio ciao ciao mentre passo e, abbassando lo sguardo, vi vedo perché c’è un vasistas aperto (spero non abbiate l’aria condizionata guasta) è solo di solidarietà perché da quella volta lì, dopo il concentramento nello scantinato, non c’era stato più scampo e in un paio d’anni eravamo tutti in mezzo a un strada, probabilmente terminare così è una sorta di riconquista della dignità, dal seminterrato al piano zero si sale almeno di mezzo livello.