cronache dal collo di bottiglia

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In Italia non è difficile ravvisare i rimandi al calcio presenti nelle grandi come nelle piccole cose. Pensate alle numerose metafore nel linguaggio, nella nostra narrazione del quotidiano, in cose più istituzionali come la politica o la cultura aziendale. L’iconografia, poi, non ne parliamo. Ma quando a indossare tute e accessori della squadra del cuore sono i bambini qualche domanda dovremmo porcela. Che male c’è, direte voi. Nessuno, vi risponderei, ma vi giuro che la sensazione che provo è la stessa sia quando vedo un bimbetto con la maglietta dei Ramones che una bimba con il berretto del Genoa. Se poi siamo a Milano, il copricapo rossoblu dà più nell’occhio, e può venire il dubbio che non sia del Bologna o di qualche altra squadra dagli stessi colori sociali. Il che è un controsenso: i veri campanilisti non dovrebbero accettare di usare vessilli cromaticamente analoghi ad altre compagini sportive, e nemmeno lasciare che i residenti sul territorio ostentino bandiere o indumenti riferiti ad altre squadre. Comunque, ci crediate o no, la bimba con il berretto del Genoa l’ho vista con questi miei occhi, stretta come me in mezzo a una folla concentrata in un collo di bottiglia urbano causato da uno degli svariati scioperi del trasporto pubblico come quello di ieri l’altro. L’ho vista vulnerabile malgrado il padre la tenesse per mano, d’altronde di questi tempi la preoccupazione che proviamo nelle situazioni di calca ha raggiunto il massimo dai tempi dei rifugi dai bombardamenti. Ecco, a proposito, in quel collo di bottiglia io avevo un ragazzo barbuto dai lineamenti arabi al mio fianco che spippolava con un’app di scommesse sportive con il suo smartcoso, e me lo figuravo urlare all’improvviso il suo grido di vendetta e pigiare il tasto fatale sull’iPhone per fare un macello tra quelle centinaia di persone dirette alle loro attività quotidiane. Ce n’erano due poco avanti travestiti da Mario Bros, si provavano e riprovavano occhiali baffi finti e cappellino rosso, e capisco che sia un lavoro anche quello ma non so, se dovessi farlo io non mi sentirei molto disinvolto tra la gente, sarà perché mi piacerebbe ricoprire ruoli di maggior responsabilità. Non che Mario e Luigi non ne abbiano, sia chiaro, sebbene la mansione dietro a quei due ragazzi travestiti non ho dubbi a scommettere che potesse essere solo di una tacca o due sopra la consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta, premesso che ho qualche amico che consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta. Invece l’arabo scommettitore ha guardato malissimo me anziché i due Mario Bros ma poi ho scoperto perché, aveva la mia borsa dello sport piantata nel fianco, ma invece di arrabbiarsi con me si è messo a imitare la voce stridula di una signora alle soglie della pensione che voleva accelerare l’uscita collettiva da quel posto. Ecco, io non farei mai colazione in uno di quei bar sotto le stazioni della metro, transitavo di lì per caso, e sappiate che non mi sentirei mai a mio agio a bere un caffè nemmeno indossando un cappello della Sampdoria.

conversione a u

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Esco dalla galleria e imbocco una curva, l’autostrada si insinua in una gola appenninica piuttosto stretta. Gli occhi non registrano immediatamente il contrasto tra l’eccessiva illuminazione del tunnel e il buio della notte nel tratto successivo all’aperto, non ci sono lampioni e non c’è nemmeno la luna, non so se solo in quel tratto o perché è nuvoloso o per via delle fasi. Per giunta il parabrezza è lievemente appannato e non pulitissimo fuori e non ho automezzi davanti né intorno. Insomma, piombo improvvisamente nell’oscurità, ho solo la certezza di essere nella corsia centrale e so che non dovrei, occorre occupare quella libera più a destra e in quel momento, per dirla alla Litfiba, sulla strada ci sono solo io circondato dal deserto intorno a me.

Ma prima di reagire e attivare gli abbaglianti per aumentare la visibilità mi sento senza speranza, dovrei fermarmi perché non ci sono punti di riferimento e quel percorso, per il quale a breve dovrei anche pagarne il pedaggio, quel percorso non porta proprio a nulla. C’è una fine ed è quel momento, non c’è direzione, non c’è salvezza, non c’è spazio per elaborare una strategia, una corsia di emergenza, un pulsante di sos da schiacciare e chiamare qualcuno più grande che mi carichi su e mi porti via, al sicuro. In quel momento il più grande sono io, questa è la mia autovettura e mi trovo inequivocabilmente al posto di guida.

Pochi metri dopo, sulla cima della montagna di fronte, o almeno penso sia una montagna perché non si vede nulla, davvero, potrebbe essere un mostro come l’Aconcagua in quel cartone Disney in cui la vetta minacciosa si prendeva gioco del piccolo velivolo postale che doveva sostituire il papà nelle consegne internazionali, e se anche qui siamo tra Piemonte e Liguria l’Appennino di notte ispira tutt’altro che fiducia. Dicevo, sulla cima della montagna di fronte si accende una croce illuminata di verde, probabilmente una chiesetta o un cippo in onore di un martire del luogo, lassù in alto. E la familiarità con quel simbolo su quella via che non porta a Damasco e non è nemmeno una apparizione perché non si sente né si vede la didascalia “in hoc signo vinces”, e poi non credo né nella fantascienza né nel divino. Ma quella croce mi ricorda di attivare gli abbaglianti e ritorna la luce, e per distrarmi da tutte questi segnali facilmente interpretabili sto per accendere l’autoradio ma mi blocco in tempo, ché ci sono buone probabilità che la frequenza di Radio Popolare, lì in quel nulla elettromagnetico, sia una delle tante occupate da Radio Maria.