quando si scarica la batteria della macchina ricomincia tutto da capo

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Almeno il pieno controllo sui calendari dei nostri gingilli elettronici ci è stato lasciato, questo ci dà l’illusione di impostare i valori di misurazione del tempo come ci pare e piace, che poi questo non abbia nessuna conseguenza sul divenire delle cose è un altro discorso. Sono rimasto con la batteria della macchina a terra, qualche tempo fa. Quando l’ho sostituita e il cruscotto si è riacceso segnava il giorno in cui probabilmente il suo sistema di bordo è stato programmato, una data remota di dieci anni fa quando mia figlia si apprestava a lasciare l’asilo nido. Un po’ come se tutti noi avessimo segnato nel nostro codice a barre questo valore di fabbricazione, anzi possiamo dire che è proprio così.

Ma con certe agende elettroniche possiamo muoverci tra futuro e passato molto meglio del buon vecchio Marty McFly. Proprio mia figlia ha sfidato Google Calendar per verificare fino a quanto riuscisse a spingersi in avanti e ha impostato un appuntamento per il 15 agosto 3008. Anzi, ha deciso che quella potrebbe essere la vera data ufficiale della fine del mondo. Amici posteri, se in qualche modo tra un paio di millenni riuscirete ad avere sottomano la fuffa dei socialcosi o, meglio, la mia fama imperitura sarà sopravvissuta allo stesso modo in cui oggi ci dilettiamo con gente del calibro di Eschilo e compagnia bella, sappiate che mia figlia non aveva nessun intento di portarvi sfiga e prendete questa cosa come noi, qualche anno fa, abbiamo inteso la profezia dei Maya. Sempre che, nel frattempo, l’avvento di una data super-palindroma come il 21-12-2112 non abbia fatto piazza pulita di tutto.

Ho chiesto così a mia figlia di invitarmi tramite Google Calendar a quell’evento decisivo che aveva appena programmato e, negli istanti che hanno preceduto la condivisione dell’appuntamento, sono successe due cose importanti. Stavo rientrando a casa attraversando una di quelle vie che nessuno mai percorrerebbe a piedi (oddio, io ogni tanto ci passo quando vado a correre ma la mattina prestissimo, e la cosa non dà nell’occhio a nessuno) e ho superato una ragazza che camminava da sola. C’era un forte vento che le scompigliava dei capelli lunghissimi e le faceva volare un sacchetto di nylon di una nota marca di abbigliamento cheap che teneva in mano. Inutile dire che era domenica pomeriggio e c’era pure il sole i cui raggi sembravano perpendicolari al mio parabrezza e facevo fatica a riconoscere gli ostacoli. A parte noi e quella ragazza non c’era nessun altro in giro, per fortuna. Ho pensato così che il giorno di ferragosto del 3008 potrà essere una giornata come quella, con il polline spinto dal vento che ricorda la neve e la superficie della terra, nel suo ultimo giorno, gremita di persone che la percorrono in completa solitudine senza riconoscersi a causa del sole negli occhi.

cronache dal collo di bottiglia

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In Italia non è difficile ravvisare i rimandi al calcio presenti nelle grandi come nelle piccole cose. Pensate alle numerose metafore nel linguaggio, nella nostra narrazione del quotidiano, in cose più istituzionali come la politica o la cultura aziendale. L’iconografia, poi, non ne parliamo. Ma quando a indossare tute e accessori della squadra del cuore sono i bambini qualche domanda dovremmo porcela. Che male c’è, direte voi. Nessuno, vi risponderei, ma vi giuro che la sensazione che provo è la stessa sia quando vedo un bimbetto con la maglietta dei Ramones che una bimba con il berretto del Genoa. Se poi siamo a Milano, il copricapo rossoblu dà più nell’occhio, e può venire il dubbio che non sia del Bologna o di qualche altra squadra dagli stessi colori sociali. Il che è un controsenso: i veri campanilisti non dovrebbero accettare di usare vessilli cromaticamente analoghi ad altre compagini sportive, e nemmeno lasciare che i residenti sul territorio ostentino bandiere o indumenti riferiti ad altre squadre. Comunque, ci crediate o no, la bimba con il berretto del Genoa l’ho vista con questi miei occhi, stretta come me in mezzo a una folla concentrata in un collo di bottiglia urbano causato da uno degli svariati scioperi del trasporto pubblico come quello di ieri l’altro. L’ho vista vulnerabile malgrado il padre la tenesse per mano, d’altronde di questi tempi la preoccupazione che proviamo nelle situazioni di calca ha raggiunto il massimo dai tempi dei rifugi dai bombardamenti. Ecco, a proposito, in quel collo di bottiglia io avevo un ragazzo barbuto dai lineamenti arabi al mio fianco che spippolava con un’app di scommesse sportive con il suo smartcoso, e me lo figuravo urlare all’improvviso il suo grido di vendetta e pigiare il tasto fatale sull’iPhone per fare un macello tra quelle centinaia di persone dirette alle loro attività quotidiane. Ce n’erano due poco avanti travestiti da Mario Bros, si provavano e riprovavano occhiali baffi finti e cappellino rosso, e capisco che sia un lavoro anche quello ma non so, se dovessi farlo io non mi sentirei molto disinvolto tra la gente, sarà perché mi piacerebbe ricoprire ruoli di maggior responsabilità. Non che Mario e Luigi non ne abbiano, sia chiaro, sebbene la mansione dietro a quei due ragazzi travestiti non ho dubbi a scommettere che potesse essere solo di una tacca o due sopra la consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta, premesso che ho qualche amico che consegna dei volantini dei supermercati nelle cassette della posta. Invece l’arabo scommettitore ha guardato malissimo me anziché i due Mario Bros ma poi ho scoperto perché, aveva la mia borsa dello sport piantata nel fianco, ma invece di arrabbiarsi con me si è messo a imitare la voce stridula di una signora alle soglie della pensione che voleva accelerare l’uscita collettiva da quel posto. Ecco, io non farei mai colazione in uno di quei bar sotto le stazioni della metro, transitavo di lì per caso, e sappiate che non mi sentirei mai a mio agio a bere un caffè nemmeno indossando un cappello della Sampdoria.

benvenuti sulla pagina dedicata alle aspettative vs. realtà

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Ogni strada ha la sua automobile ferma da chissà quanto con almeno una gomma a terra, in attesa che qualcuno prenda provvedimenti o un addetto al traffico si informi per recapitare una severa ingiunzione per occupazione del suolo pubblico indipendentemente dal diritto o meno del proprietario di usufruire di quello spazio dedicato alla sosta. Intorno sono molti i passanti che controllano se c’è qualche novità, ciascuno con la sua borsa in spalla dedicata all’attività sportiva con cui concludere alla grande la propria giornata produttiva al netto delle attività di svago compreso il cazzeggio sui socialcosi. Pensate poi anche a quanto tempo occupa l’elettronica nelle nostre conversazioni, stiamo sempre lì a parlare di app e cose viste su questa o quella pagina di Facebook e non ci siamo nemmeno resi conto che i libri, non tutti ma almeno una buona parte di essi e vi giuro che non è una considerazione da purista del profumo della carta, ci forniscono punti di riferimento più nobili da cui prendere esempio, mentre dall’altra parte e cioè su Internet è più facile essere instradati su attività più pratiche, come essere cinici o piegare le t-shirt o diventare cattivi o anche violenti, per lo meno razzisti e impermeabili al dolore altrui. Poi certa gente davvero non si rende conto delle proprie aspettative rispetto alla realtà, pensi di essere in un modo e invece poi gli altri che ti osservano appunto mentre transiti con uno zaino Adidas sulla schiena valutando il periodo di permanenza di quella costosissima Audi ingiustificatamente ferma sotto casa e la prima cosa che si nota è che anche se sfoggi un taglio di capelli come questo o quell’attore o cantante non è detto che poi, a questo o quell’attore o cantante, gli assomigli. Per dire, anni fa mi ero fissato con una avveniristica pettinatura che avevo visto sulla testa di uno dei quattro Depeche Mode – quello che poi se ne è andato – e pensavo che il parrucchiere, in fondo, fosse un mestiere prossimo alla chirurgia plastica, e invece non è così. O ancora ragazze che postano foto di modelle con i capelli corti perché loro stesse portano tagli simili ma poi quello che fa la differenza è la faccia che è più o meno valorizzata. Possiamo invece intervenire con successo sull’abbinamento dei colori dei vestiti che indossiamo, a prescindere dalla luminosità insufficiente che pervade le nostre case all’alba e che spalma una mano di nero su ogni superficie causandone l’indistinguibilità. Mi chiedo e vi chiedo se si tratti di un fattore culturale quello di preferire o no due colori affiancati rispetto ad altri, oppure ci dev’essere – ne sono quasi convinto – un insieme di regole imposte dalla natura stessa dei colori che fa sì che solo quelli con una particolare matrice comune possano convivere. Vi faccio l’esempio del blu con il marrone, che la vulgata popolare riconduce allo stile discutibile di un perfetto cafone (cercando la rima più che la verità) qualunque. Vedo pantaloni blu con scarpe marroni in camoscio su altri e penso che non siano niente male. Indosso la stessa combinazione, provo alla luce della lampada e mi metto anche sul balcone prima di andare in ufficio, ma il risultato non è mica lo stesso. Malgrado anni di pratica non ho ancora identificato dove sia il problema.

i migliori modi per scoprire se qualcuno vi fa una foto di nascosto con il suo smartcoso

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Chi non ha mai scattato una foto di nascosto con lo smartphone scagli lo smartphone stesso sul pavimento di marmo. Attenzione però a metterlo sul silenzioso e a disattivare il flash (prima di dilettarvi a fare le foto di nascosto e non prima di scagliare il vostro iPhone sul pavimento di marmo), il perché lo potete immaginare. Non è una perversione voyeuristica, o almeno non tutti i ladri di istanti altrui lo fanno per collezionare porzioni di nudo o dettagli hot. Ci sono i cacciatori di atteggiamenti imbarazzanti, di espressioni assorte, le dita nel naso che sono un classico o chi dorme in luoghi pubblici con la bocca aperta, sono convinto a questo proposito che prima o poi mi troverò ampiamente documentato su Instagram. Ci sono fior di blogger che fanno le foto di nascosto a quello che la gente legge o a chi indossa scarpe di merda. Insomma, ce n’è per tutti i gusti e bisogna stare sempre all’erta perché gli scoop capitano quando meno te lo aspetti e se ti metti di impegno a cercare il soggetto giusto puoi stare fresco. Ieri una ragazza che avevo seduta vicino sulla metro è passata da una partita a Candy Crush a una rivista dall’esplicito titolo “Buddismo”, una vera e propria dichiarazione d’intenti che mi ha immediatamente ricordato da una parte la trasmissione tv “Protestantesimo”, un titolo che mi immaginavo seguito da una sfilza di punti esclamativi e uno come usano esprimersi oggi i grillisti sui socialcosi, dall’altra un altro esperimento piuttosto riuscito di digital-qualcosa che è la pagina Facebook dedicata alla finta rivista “I nostri marò“. Non so quale sia stata l’associazione di idee e i miei numerosissimi lettori buddisti simpatizzanti e praticanti non me ne vogliano, lo sapete che per me non c’è nulla di sacro, nemmeno l’osso. Comunque questa ragazza mette via Candy Crush e prende dalla borsa una copia di “Buddismo”. Avevo il telefono pronto per la foto, malgrado questo lei è stata velocissima a portarsi al punto in cui doveva essere arrivata alla fine della sessione di lettura precedente, con tanto di matita per sottolineare e aggiungere chiose al testo, quindi addio copertina. Ho provato a stare all’erta nel caso una chiamata la inducesse a riporla chiusa, invece niente. La ragazza si è messa così a cerchiare frasi e parole di un articolo sulla reciprocità di non so che cosa, sembrava infatti quasi più una pagina del vangelo. Ma ciò è bastato a spingermi a pensare che magari anche lei stesse aspettando il momento migliore per una foto di nascosto alle cose più originali di me. Il libro che stavo leggendo, la borsa della dimensione di un trentatrè giri acquistata a Berlino, il fatto che scrivo su un blog che anche se non evidente può essere considerato un tratto eccentrico. C’è gente che fa le stesse cose per anni proprio perché spera che prima o poi qualcuno per strada gli dica quanto sono fighi a fare così o cosà. E se vi siete riconosciuti, vi dico che si tratta di un approccio che non paga. A me si legge in faccia che le cose filano per il verso giusto, almeno le piccole cose come salute lavoro e affetti, questo mi rende un soggetto poco fotogenico. Se volete, inizio a postare i miei primi piani qui così mi date il vostro parere.

segnali inconfondibili di un’Expo che vorresti potesse non finire mai

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Una delle cose che mi piace di più del vivere a Milano sono le ragazze che parlano inglese o americano che capita di incontrare per strada. Quando non le riconosci da lontano per la loro carnagione di un chiarore che non lascia dubbi sulla loro provenienza, te ne accorgi mentre si avvicinano perché, anche senza percepire il sonoro, vedi bocche che si muovono ma quel sensore che ci permette di captare i dialoghi a distanza non registra nessun significato che si dirama verso la nostra attenzione. Per farvi capire, si ha lo stesso effetto dello sparo farlocco di una pistola a salve. E anche quando cogli distintamente quell’idioma che conosci solo da discutibili studi scolastici e da anni di ascolti esterofili, il piacere che se ne trae è sempre unico. Le persone che lo parlano sono evidentemente stranieri ma di quelli giusti, quelli che sono qui con il potere di una moneta forte, mica come le parlate degli immigrati dell’est che suonano sempre questuanti, aggressive o comunque palesemente di un ceppo etnico con cui nessuno si sarebbe mai sognato di avere contatti, almeno da Yalta in poi. Le ragazze americane o inglesi, spesso in coppia o in tre, camminano veloci senza badare ai senza dimora stravaccati sul marciapiedi, ma di quelli organizzatissimi, ne ho notati parecchi anch’io intenti a colorare interi blocchetti di biglietti di cartone tutti uguali con un gessetto azzurro, non si capisce bene con quale scopo, forse ci cavano dei soldi ma è difficile fare supposizioni. Osservano le compiaciute ragazze che parlano inglese anche gli avvocati in pensione con il loden verde, mentre per ovvi motivi si soffermano solo sulle loro cantilene anglofone gli ipovedenti che agitano il bastone bianco urtando le borse in pelle degli ex avvocati in loden e le cianfrusaglie sparse alla fermata del tram dei senza dimora che colorano pezzi di cartone. Vorrei intervenire per evitare i danni a queste categorie umane tipicamente milanesi ma poi penso che è meglio di no, capita a tutti infatti di fare involontariamente male a persone a cui hai appena fatto un favore. Cose come rovinare sul marito della donna a cui hai ceduto il posto sul tram a causa di un’improvvisa frenata, o prendere il biglietto sbagliato per la coda alle Poste per la signora anziana che ti ha chiesto informazioni e alla quale ti sei offerto di dare aiuto. D’altronde ciascuno di noi vive delle proprie esperienze di cui agli altri non gliene frega un cazzo. Un aspetto che non ci passa nemmeno nell’anticamera del cervello di valutare oggettivamente, a causa dell’istinto di sopravvivenza che ci impone di posizionarci al centro del mondo di una realtà che vediamo solo noi, vedono solo le ragazze americane o inglesi che camminano per Milano, vedono gli avvocati in pensione con il loden verde, per gli ipovedenti non saprei come spiegarlo.

dopo ore di discussione con chi non capisce un cazzo mi manca l’ossigeno

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E considerate che a distanza di poche ore me la sono presa con mia figlia per l’uso inappropriato di Whatsapp in quanto generatore di equivoci emotivi legati alle conversazioni e poi ho ribadito con me stesso l’inutilità di certe discussioni condotte di persona che, per lo meno, se portate avanti tramite chat possono essere interrotte a piacimento tanto nessuno ci vede. Così ho pensato se sia meglio esprimersi a cuoricini e ad abbreviazioni lungo dialoghi tenuti in essere solo in quanto basati sul mezzo che, alla fine, diventa il fine in sé piuttosto che sostenere punti di vista con gente talmente ottusa e ignorante che non riconosce non dico l’autorevolezza ma almeno la buona educazione di considerare punti di vista diversi come più appropriati all’argomento in questione. Il problema è vecchio quanto il genere umano: è possibile convincere qualcuno di qualcosa? Siete mai riusciti a far cambiare idea a qualcuno e non solo per il tempo necessario a finire il whisky nel bicchiere ma per sempre. Io non l’ho mai provata, ma sono certo che si tratti di una soddisfazione molto più piacevole di record battuti, prime posizioni conquistate, opere d’arte riuscite e persino orgasmi raggiunti. A me va in pappa il cervello se alla quarta volta che ti dico quello che penso io tu mi rispondi con quello che pensi tu senza dimostrare minimamente di aver compiuto un passo in avanti verso la mia posizione. Così, mentre mi spieghi la tua opinione, a quel punto io penso ad altro e cerco di ripassare a mente le note del tema di questo pezzo qui che erano anni, se non decenni, che non mi saliva nella sfera delle reminiscenze sonore dell’infanzia, quando bastava un suono di sintetizzatore per mandarmi al settimo cielo. Di questo pezzo conservo ancora il 45 giri con la copertina con il teschio, e ora me lo riascolto quindi voi che non la pensate come me e non siete per nulla disponibili a cedere sulle vostre posizioni potete chiudere la pagina del browser e andare a fare un giro da animi più condiscendenti del mio.

primo al traguardo per tredici volte, ma c’è chi sa fare di meglio

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C’è di mezzo una corsa di motociclette, io la chiamo così e non me ne vergogno, mica come voi che dite motogipi o, anzi, LA motogipi come se fosse un’entità femminile e non un pallosissimo circo di due ruote che girano in tondo e che in confronto la formula uno è una sequenza di Hollywood Party. Comunque c’è di mezzo questa gara di ieri se c’è così tanto da discutere, rannicchiata nell’angolo e avvinghiata a un cellulare da diciannove euro, e io davvero non capisco come sia possibile fornire così tanti particolari. Ok, ha vinto Tizio, Caio è arrivato secondo, Sempronio può aggiudicarsi il trofeo a fine competizione, la gomma doveva cambiarla dopo anzi non doveva cambiarla affatto. Come se davvero fosse possibile conversare ad libitum con una precisione invidiabile su temi come questo. Il problema è mio che ti sono vicino, d’altronde calcolare le distanze è un’arte ancora prima che un’operazione matematica e quindi, come tale, l’applicazione di una scienza esatta. Per certi animali costituisce la garanzia della conservazione della specie, in altre della sopravvivenza, a seconda se ci riferiamo a predatori o prede. Un salto per superare un dirupo o la diagonale per accorciare le distanze con il pasto quotidiano che cambia traettoria per sfuggire alla battuta di approvvigionamento. Evitare te e il modo in cui trascorri i giorni di festa. Ma tranquilla, non esiste una regola. Non esiste un manuale su come passare il tempo libero. Mai riempire di aspettative un giorno ingrato come la domenica pomeriggio, che da una parte ti illude che tutto è per sempre e dall’altra si esaurisce presto come il menu di pasto mediocre consumato in un altrettanto insoddisfacente ristorante orientale, con la camicia buona che poi puzza di involtino e i fiori finti sul tavolo a fianco della grappa cinese. Non ci sono metodologie di sopravvivenza standard: darsi reciprocamente i suggerimenti sulle corrette procedure con cui svolgere certe azioni è un’arma a doppio taglio, nel senso che si acquisiscono competenze ma talvolta si ha la certezze di amare verità. La pressione alla mattina, per esempio, non bisogna misurarsela perché si ottiene un valore falsato dall’aumento fisiologico della stessa dovuto al risveglio e al mettersi in piedi. La pressione alla sera, però, a seconda di cosa succede la giornata, di chi ci capita di incontrare e di cose come il, pardon, LA motogipi, può però anche andare peggio.

un risultato delle scienze evolutive

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Scrivere un post sulla gente è pericoloso per una serie di motivi. La gente è quella che conosci, quella che ti legge, quella con cui lavori, un insieme enorme che comprende persino i tuoi parenti stessi. Le persone che sono in contatto con te sui social network, i vicini di casa, i genitori dei compagni di classe di tua figlia e quelli della squadra di volley. Il tuo avvocato, il tuo commercialista, il tuo medico, il tuo rivenditore di vinile usato di fiducia, il tuo veterinario, la portinaia del palazzo in cui c’è il tuo ufficio, la mamma del bambino con evidenti problemi di chissà che cosa che vedi spingere il passeggino con il figlio tutto raggomitolato su se stesso ogni mattina dopo che ha lasciato il fratellino sano alla scuola materna. Persone famose e mendicanti. Insomma, scrivere un post sulla gente è pericoloso perché uno deve mettere in conto che non esiste nulla di più pervasivo della gente.

Uno di voi dovrebbe quindi prendersi la briga – io no perché non ho abbastanza tempo, ho questo blog da mandare avanti – di fare una sorta di classificazione scientifica degli organismi viventi ma limitata alla gente e all’identificazione dei fenotipi ad essa riconducibili secondo due criteri: i lineamenti, cioè a chi ciascuno di noi è riferibile, e per l’attitudine nell’accezione di comportamento, cioè il modo di porsi anche senza far nulla. Tu vedi uno e capisci che cosa vuole, che cosa pensa, spesso che cosa vota. E se nel primo caso ognuno di noi ha una propria library di modelli, per esempio oggi ho incrociato ben due attribuibili al fenotipo Giustino Durano che è uno dei miei preferiti, nel secondo ci si può allargare un po’ di più con qualche sana generalizzazione.

Prendete i ragazzi maschi giovani di oggi e osservate quanto spazio lasciano all’aggressività nella postura, nella mimica, nel taglio di capelli e nell’abbigliamento. Prendete le donne che riescono a fare anche sei telefonate in meno di un’ora, lo so che si nascondono anche tra di voi, ecco loro probabilmente a differenza mia hanno una vita sociale ma mi piace pensare che ci sono persone che hanno talmente cose da dire che riescono a intrattenere così tanti interlocutori uno dopo l’altro per così tanto tempo. Ci sono i cingalesi con lo zainetto in spalla della campagna elettorale europea di Iva Zanicchi, credo l’ultima, e avete poco da ridere perché ne ho visti tre insieme, giovanissimi, e non ho potuto non pensare a questi nuovi modi di sbarcare il lunario tramite il clientelismo all’ultimo stadio, ovvero ingrandire la claque a una soubrette anziana prestata alla politica in cambio di gadget da quattro soldi.

Ognuno di questi, come ha fatto Linneo, potrebbe essere categorizzato secondo una ben precisa tassonomia, dal dominio al regno all’ordine fino alla classe e alla famiglia fino alla specie o, per essere più precisi, fino alla sottospecie che poi è quella per cui questo moderno genere umano sarà ricordato, facendo dimenticare tutti gli attributi più elevati.

Milano, Nebraska

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Le cose stanno così: vedi una ragazza carina che legge Internazionale e vorresti dirle che è bello vedere persone che leggono Internazionale, vedi una ragazza carina che rompe gli indugi su quale opuscolo scegliere in un chiosco improvvisato da una setta religiosa, prendendo quello intitolato “Sopravvivere al dolore”, e non ti viene nemmeno da commentare. Sembra pure intelligente ed è vestita con un tailleur manageriale così le creduloneria scaramantica con l’occidente industrializzato cozzano oltremodo. Il pregiudizio si completa con l’associazione automatica tra i settimanali di informazione di sinistra e l’intelligenza, l’impegno e la serietà, anche se poco dopo vedi la rivista riposta in borsa che ha lasciato spazio a una mano a 2048.

Ognuno dedica attenzione a quello che crede, noi osservatori dovremmo invece smetterla con l’affibbiare etichette a cose e persone, c’è da dire però che il tempo per attraversare da una parte all’altra quell’enorme spazio in cui convogliano tutti gli ingressi alla stazione della metro di Porta Venezia non è poco, e qualche riflessione antropologica ci sta tutta. Gli uomini vestiti business con i sandali, per esempio, quelli di mezza età con le bermuda in jeans ricavate da un pantalone passato di moda con il taglio sfilacciato o, peggio, con il risvoltino sopra il ginocchio, le fantasie hawaiane sui quadretti multicolore, madri con i nomi dei figli tatuati sulle braccia, i soliti corpi di ballo improvvisati che si esercitano nelle coreografie di gruppo seguendo le istruzioni di quello che sembra il più coordinato di tutti e io che non capisco mai se sono ragazzi sudamericani o asiatici, il che è problematico.

Poi mi ferma un vecchio che sembra uscito da Nebraska – il film – con lo stesso stato confusionale che mi ricorda quello di mio papà prima che il male gli facesse dimenticare tutto, e mi chiede come si esce da lì sotto con la stessa espressione delle persone anziane quando fuori ci sono quaranta gradi anche se oggi ce ne sono a malapena venti. Gli faccio notare infatti che fuori piove a metà, c’è proprio il confine lì sopra, in linea con le geometrie del quadrilatero della moda che ha un lato in Corso Buenos Aires. Prima che scendessi lì di qua c’era il sole e qualche nuvola, di là, proprio da dove l’uomo vuole tornare in superficie, c’è l’apocalisse. Io ho un ombrello Ikea di quelli che non gli daresti due lire ma alla fine sono gli unici che non si rompono mai, e penso che potrei anche lasciarglielo tanto sto per infilarmi su un treno per tornare a casa, ma non è mio, l’ho preso in ufficio e ho promesso di restituirlo il giorno dopo. L’uomo mi dice che pioveva anche prima (ma prima quando?) e si allontana lasciandomi un po’ in ambasce.

Mi arrendo così all’idea che non è che tutti siamo sprovveduti, è che tutti ci inventiamo preoccupazioni che non servono. Pensate solo alle ragazzine che girano tenendo in mano smartcosi da centinaia di euro, magari passa uno di corsa e se li porta via. Ma nessuno sembra farci caso, né a loro, né ai ballerini che si muovono su una musica che non c’entra nulla con l’hip hop, né al chiosco dei testimoni di chissà chi e nemmeno a me. Il vecchio di prima, nel frattempo, chiede la stessa informazione che gli ho appena dato io a qualcuno di più rassicurante. Forse quello spazio è troppo grande anche per me.

è il genere umano, di per sé, a essere sopravvalutato

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Non è una giostra di quelle del Luna Park, con il gestore che incita i ragazzini a infilare il gettone nella macchinetta a forma di lampada di Aladino o del Re Leone per avere diritto al giro successivo. Oddio, in comune con quel tipo di attrazione c’è il fattore itinerante. I baracconi girano di città in città, le automobili come quella da cui proviene tutto questo frastuono incarnano per loro natura il concetto del movimento. Ironia della sorte, il proprietario del veicolo fermo sta seduto dietro al volante con la stessa espressione che avevano i figli degli autoscontri e dei calcinculo che trascorrevano qualche settimana nelle scuole delle città in cui stanziavano temporaneamente. Ogni anno, e ogni volta erano bambini diversi, le maestre li piazzavano nel banco a fianco dei più asini della classe, quelli vicino ai quali non voleva stare nessuno, e trascorrevano lì il loro tempo proprio con quella stessa faccia, come se per imparare qualcosa bastasse respirare le particelle di sapere emesse da cartine geografiche appese, lavagne e gessetti consunti, becher e calchi in gesso di organi vitali e costosa cancelleria profumata lasciata intonsa negli astucci a più scomparti dei primi della classe.

Sicuramente è una magra consolazione, ma l’uomo che ha attirato la mia attenzione su una berlina aziendale scura e tirata a lucido probabilmente ha avuto una scolarizzazione più accurata ma ora non sa che farsene. La variante dell’uomo di affari, una specie di spin off genetico che si sta sviluppando grazie ai prodigi della tecnologia, è quella del commerciale dotato di telefono che si collega in modo miracoloso con l’impianto hi-fi dell’automobile, che è una figata perché puoi chiamare e ricevere telefonate senza nemmeno usare l’auricolare, che già ci fa sembrare abbastanza sciocchi con tutto il nostro parlare da soli a un interlocutore invisibile al prossimo. Li avrete visti pure voi, anzi sentiti. Perché spesso il volume delle conversazioni è sparato a mille con tutti i bassi che sono stati pensati per valorizzare gli armonici gravi dei conduttori degli zoo di centocinque e altre varie subumanità della radio commerciale. E spesso capita che comunque, per sostenere un confronto particolarmente complesso, sia meglio accostare per via di quella cosa che fare più attività simultaneamente è una condizione entropica al quale un maschio di razza caucasica forte di studi tecnico-ingegneristici prestati al settore vendite è tutt’altro che uso.

Il risultato dell’auto ferma con il proprietario che si dilunga a parlare e ascoltare con un sistema creato per le conference call itineranti è così un effetto proprio da attrazione ludica, con l’aggravante che la voce non amplificata si percepisce a malapena, di contro quella diffusa nell’abitacolo diventa di dominio pubblico. Tanto che se ne colgono i particolari, anzi, potrei riportarla qui per filo e per segno se non di trattasse di un cazziatone di dimensioni cosmiche, un possibile preludio a un licenziamento o almeno l’inizio di una profonda crepa professionale.

Non posso non condividere la straordinarietà del momento con le persone che, come me, sono ferme al semaforo e in attesa del verde sono state involontarie testimoni dell’ennesimo dramma professionale inasprito dalla tecnologia, che impietosa espande acriticamente ogni emozione, quelle belle e quelle brutte che invece dovrebbero essere messe a tacere, nascoste dalla vergogna. Prima ci guardiamo come se condividessimo la pena altrui, poi li osservo meglio e ritraggo tutta la mia empatia. Uno sfoggia abiti volutamente finto-trascurati, come se puntasse tutta la sua capacità di rassicurare il prossimo sul celebre logo con le sembianze di coccodrillo del borsello che indossa a tracolla. Troppo poco, penso tra me, per trasmettere opulenza al prossimo. L’impressione dell’insieme arriva già profondamente compromessa all’accessorio e a nulla serve l’ostentazione di una marca che comunemente si associa all’agiatezza economica. Dall’altra parte vedo una splendida ragazza, di quelle così belle che tengono gli occhi bassi per non pesare emotivamente su tutto il mondo che le osserva in parte con l’invidia e in parte con la brama di possesso. Infine quello che sembra più colpito dal fatto che qualcuno debba per forza sostare in un parcheggio per taxi con le quattro frecce a far conoscere i cazzi propri a tutto volume con quel sistema bluetooth. Ha una specie di smanicato a trapunta sopra un completo blu primaverile e, appena viene il verde, si lancia per attraversare la strada sputando a terra.