dispense di psicologia domestica

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Oggi Diego Rainetti è uno stimato ricercatore del California Design Institute, uno dei tanti cervelli italiani in fuga all’estero ma da tempi non sospetti, quando qualcosa con cui tirare a fine del mese dalle nostre parti si trovava ancora. Venticinque anni fa Rainetti ha messo a frutto la sua passione per le case che, probabilmente, è un’attitudine che abbiamo tutti sopita da qualche parte e che si manifesta con i brividi e con quella specie di farfalle nello stomaco – che attenzione, a volte viene fraintesa come stimolo a correre in bagno – quando ci fermiamo a osservare migliaia di luci accese dietro alle finestre nelle stanze, da punti di vista privilegiati, per esempio un belvedere o una strada sopraelevata. Oppure la curiosità di infilarsi a piedi in ogni portone aperto, salire le scale e capire come sono disposti gli appartamenti, i colori dell’intonaco delle pareti, il modo in cui l’essere umano è capace a trasformare e personalizzare, l’organizzazione degli spazi e dei volumi nei quali le persone comuni come me e voi si riparano per trovare conforto, separarsi dal resto, fare l’amore, leggere e dormire sul divano.

Ma non tutti siamo in grado di individuare in noi questo stadio ancestrale in cui vive la nostra idea di rifugio – tipico di ogni essere vivente – e andare a fondo, figuriamoci a farne una professione, una specie di “psicologia domestica”. Lo studio di Rainetti sulle mura perimetrali delle abitazioni delle civilità antiche che visitiamo da turisti ci fa capire meglio l’oscenità che proviamo nell’osservare le nostre tane profanate dalle calamità, dall’uomo o solo dal tempo e mette a nudo uno dei nostri tabù primordiali. “Una casa senza un soffitto è accettabile solo nelle canzoni di Sergio Endrigo”, sostiene Rainetti. Per me Diego resta comunque l’amico di sempre, quello che si dilettava come cameraman in una tv locale della mia città. Mi aveva chiamato apposta per segnalarmi un servizio sul tg della sera dedicato a una sfilata di carnevale in cui, per qualche secondo, mi aveva ripreso di schiena tra il pubblico ai lati delle maschere, con la mia giacca blu da marinaio che ai tempi andava molto di moda, il colletto tirato su come riparo dal freddo, e aveva dovuto tagliare il punto in cui mi voltavo perché avevo un’espressione troppo seria e in contrasto con il resto.

gettare la maschera

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Ho una forte avversione per le feste, le celebrazioni, gli anniversari e tutto quanto implica divertimento a comando e/o, nel peggiore dei casi, anche di gruppo. Per divertimento a comando, lo avrete capito, intendo le feste imposte, quelle pianificate in calendario o stabilite dalla tradizione e dal background culturale, durante le quali il non festeggiare può essere frainteso per affronto al genere umano che vive intorno a te. Niente di strano, siamo in milioni (provate con guggol), ma mai abbastanza. Il problema è che, se decidi di riprodurti e – cosa che avviene abbastanza spesso – i tuoi pargoli subiscono l’imprinting dei genitori, occore fare molta attenzione nel non trasferire queste anomalie sociopatiche nel prossimo. Perché i bambini sono gioiosi per natura, e quelli snob sembrano piccoli frankeinstein il cui carattere tradisce tracce della misantropia di papà e mamma. Io per primo, se vedo un bimbo chiedere ai genitori di essere riaccompagnato a casa durante un corteo di carnevale, per esempio (e guarda caso oggi é carnevale e sono appena rientrato da un corteo) mi viene da dubitare sull’efficacia della linea pedagogica adottata dai genitori. Ma se vedo mia figlia comportarsi così, beh, non posso negare di pensare “tutta suo padre e sua madre”, perché anche noi, sua madre e suo padre, siamo così.

Ho partecipato solo due volte, nella mia vita, a feste in maschera. In terza elementare alla festa della scuola, vestito (se non ricordo male) da cowboy (“pazzesco, eri già originale da piccolo”) e intorno ai 19 anni, con un improbabile costume da suora in calze a rete e anfibi, suscitando le attenzioni di un attempato conviviale che cercava di alzarmi il vestito e palparmi le cosce (giuro). E ricordo di essere stato, in entrambe le occasioni, a disagio per tutto il tempo, e non solo per le avances. Imbarazzato dai compagni classe travestiti da Devil e da fatine, la prima volta, e dai sottoscrittori del cenone in tenuta da banda bassotti, transgender e non ricordo che altro, la seconda. Perché il mascherarsi esula dalla mia attitudine, probabilmente, o mi prendo troppo sul serio, o non mi trovo a mio agio nei panni di personaggi inventati. Può darsi.

Fatto sta che oggi, mia figlia N., 7 anni, pur condividendo un costume a tema con le tre amichette del cuore in un nutrito corteo festante di carri, travestimenti e cotillons basati sul tema del sesquicentenario dell’unità d’Italia, non era a proprio agio. Intanto la schiuma spray colorata azzurra che S. le ha spruzzato sui capelli subito, appena uscita di casa. Quindi  il velo di trucco, che ha allertato anche me. Poi i coriandoli, una pioggia artificiale che conferisce alla feste un’atmosfera ancora più forzata di gioia a comando, in uno scenario di finzione colorata su grigio hinterland tendente al nero Golf appena uscita dall’autolavaggio a gettoni (occasione d’oro per i papà del sabato di passare tempo con i propri figli, tra schiuma e polvere dei tappetini sbattuti).

Insomma, mia figlia non ci stava dentro. Il corteo (mai vista una mobilitazione di piazza così partecipata) comprendeva anche un carro risorgimentale con tanto di cannone e fuciliere, che mandava in visibilio i maschietti obesi stretti nelle tenute da mostri con colpi e botti, e noi eravamo proprio lì a fianco. Quello è stato il colpo (bum) di grazia. Mia figlia N. ha manifestato il dissenso con le lacrime (la stessa reazione che avrei avuto io alla sua età, tale e quale, ma anche a quattordici anni, ma anche ora, perché no), così il quartetto con relativi accompagnatori si è lasciato convincere a continuare la festa davanti a una birra (per gli adulti) e a un gelato (per i minorenni). E appena ha potuto, N. si è liberata del costume da ?boh? e, serena, ha iniziato il vero divertimento destrutturato, gioco libero con le amiche.

Ho pensato quindi che le occasioni in cui mi va di essere uno dei tanti a far festa per qualcosa, e anche lì comunque in parte mi snaturo e faccio finta, soprattutto se devo ripetere in coro slogan o applaudire seguendo le pause di chi fa il comizio, sono solo due. A distanza di 7 giorni l’una dall’altra, si tratta di due feste in cui non ci si maschera da nessuno, magari da militanti un po’ più di sinistra di quello che si è negli altri giorni dell’anno, non si addobba la casa (al massimo, una bandiera color rivoluzione sul balcone), si cammina in gruppo (i primi a celebrarla l’hanno fatto con le scarpe rotte) e ci si bea del sole di primavera, se non quello dell’avvenire, ad avercelo.