da quando il freddo non è più grande

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Ogni anno, più o meno di questi tempi, sento affermare qualcuno con determinatezza che quello che ci aspetta sarà uno degli inverni più freddi della storia. Non so che valore abbiano queste previsioni, considerando tutti gli aspetti relativi ai cambiamenti climatici e al global warming. Posso dire che qui a Milano è da un po’ di anni che non nevica e la nebbia è sparita da un pezzo. Ma il fatto è che io non ho più freddo almeno dall’84. Avevo un cappotto rigorosamente nero, leggero e di tessuto impermeabile, assolutamente sottodimensionato a quelli che erano gli standard invernali di una volta, con l’aggravante che passavamo gran parte del nostro tempo fuori casa a cercare luoghi riparati in cui appartarci con le ragazze. In questo contesto, una copertura adeguata era più che necessaria e vi assicuro che sacrificare la praticità per il look non è stata una strategia vincente. Davvero non credo di aver mai provato così tanto freddo in vita mia, così quando partecipo alle discussioni sull’inverno a cui andiamo incontro cerco sempre di mettere alcune esperienze gelide come quella come punto di riferimento per ogni considerazione. Ricordo che tornavo a casa ed ero talmente congelato che poi trascorrevo anche mezz’ora sotto la doccia bollente per rimettermi in sesto, ripensando ai miei buoni motivi per cui avevo messo in secondo piano alcune sensazioni che provava il mio corpo rispetto ad altre priorità fisiche e, diciamo, derivanti dal sentimento. Ma da giovani, lo sapete anche voi, non ci si ammala mai. A mia figlia lo dico sempre come faceva mio papà con me, quando mi coricavo con i capelli bagnati o quando sceglievo cosa mettermi indipendentemente da quello che c’era oltre la porta di casa, che poi è la stessa cosa che succede oggi. Piove e nessuno si cura di sostituire le Vans o le Converse con una calzatura più adeguata. Facciamo quindi la solita lista delle volte in cui abbiamo provato la sensazione più acuta di freddo e, in questo, i valori del termometro non c’entrano. In Alto Adige ho camminato nella neve a meno diciotto ma ero intabarrato come un esploratore polare ed è stato bellissimo, niente a che vedere con certe temperature che si provavano dentro in solitudine, quando persino la faccia che bruciava per il cambio improvviso di condizioni ambientali passava in secondo piano.

Stefania, Angelo, è pronta la mia nuova cameretta?

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Preparatevi perché se non passeranno le adozioni per le coppie non omologate secondo gli standard vigenti e prive della certificazione ISO ETERO-1 (me la sto inventando, cosa credete) ci sarà almeno il via libera per quelle arbitrarie e non legate necessariamente alla normativa dell’istituto giuridico competente. In poche parole anche gli adulti potranno farsi prendere in carico dalle famiglie che vorranno aderire all’iniziativa e utilizzare con orgoglio il cognome dei nuovi genitori. Se è provato che questa procedura non causerà il tanto temuto fuggi fuggi di quelli che a trenta o quarant’anni suonati si allontaneranno dalle proprie radici perché non si sono mai riconosciuti nella visione alla base dell’educazione a cui sono stati soggetti, sta di fatto che persone di mezza età veramente in difficoltà potranno trovare rifugio, conforto e anche sicurezza presso coppie oramai in pensione ma ancora integre nella loro componente autoritativa. Certi eterni giovanotti mollaccioni orfani di reduci da bagordi sessantotteschi, lotte di piazza, ammucchiate da libero amore e porte della percezione spalancate come cancelli scolastici al momento della campanella, potranno farsi un secondo percorso filiale con neo-papà ultra-attempati ma in odore di cavalierato del lavoro, croci militari e trofei di caccia grossa impagliati in bella mostra nelle sale biliardo, nostalgici della disciplina e, perché no, con qualche malcelata simpatia per orbace e pugni di ferro dai guanti di velluto lisi e consumati. Saranno ammessi anche casi di figli adottati da genitori più giovani degli stessi, d’altronde che problema c’è? Ho più di una coppia di amici a cui mi affiderei volentieri per una nuova esperienza di crescita e apprendimento dello spirito di responsabilità. E se non siete convinti dell’idea, che comunque sarà approvata a larga maggioranza e trasversalmente a tutti i partiti politici, pensate alla fiacchezza di una società in cui nessuno è stato più educato per cavarsela da solo. Pensate all’uomo forte. Pensate a una moltitudine di adulti a cui nessuno ha mai insegnato a non strascicare i piedi. Che vizio. A fianco della consultazione referendaria sull’adozione arbitraria propongo un secondo quesito sotto forma di sondaggio.  Strascicano i piedi di più le donne o gli uomini? Quando percepisco uno strascicamento di suole chiudo gli occhi e scommetto con me stesso per avere poi sempre ragione, tanto nessuno non lo verrà mai sapere. E se non ho dubbi è grazie a parenti di primissimo grado di sesso maschile con cui ho condiviso un appartamento per un paio di decenni che si sentivano arrivare da un capo all’altro della casa. Così, come me, c’è pieno di gente pronta a farsi adottare da amici o conoscenti facoltosi, educati, sportivi, dai gusti raffinati e con una mentalità lungimirante, orientati all’uso di calze antiscivolo in ambiente domestico e pronti a trasferire codici comportamentali altrettanto sani.

altrimenti?

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Ora che la genitorialità inizia ad acquisire una connotazione più complessa, il ruolo da addetto al pannello di controllo sta lasciando il posto a quello di co-pilota, anzi di istruttore di scuola guida, su una di quelle macchine con tutto doppio in cui si inizia a esortare all’accelerazione per liberare l’incrocio ma si sta sempre pronti con i comandi per frenare la corsa ed evitare il peggio, mi viene da guardare mia figlia per tutta la sua altezza ed esclamare diamine, allora è vero che a un certo punto gli esseri umani con i quali siamo legati dallo stesso sangue ascoltano sempre meno. Fino a quando metteranno il volume dell’autoradio a palla per coprire le voci di entrambi, e ho le prove che talvolta finisce così. E la metafora che ho usato non è per nulla fuori luogo, perché la prima volta che ho pensato a me come padre è stata proprio al posto di guida.

Mi sono trovato una volta al volante di una Dune Buggy cabrio. Sì, proprio una come quelle di Bud Spencer e Terence Hill, ma non ricordo se era gialla con la capottina rossa o viceversa, il modello il cui furto li aveva fatti così arrabbiare, perché era notte e a dirla tutta non ci ho nemmeno fatto caso. Stavo riportando a casa un mezzo da rally sulle dune attraversando una città, un veicolo che definire inguidabile è fargli un complimento, con la marce talmente corte che per arrivare ai cinquanta all’ora occorreva schiacciare a tavoletta ma poi era meglio desistere per via del baccano. Il proprietario dell’automobile sedeva al mio fianco ubriaco perso, nemmeno l’aria fresca della notte estiva – che a causa dell’assenza del parabrezza quasi impediva il respiro sparata tutta in faccia – riusciva a indurlo a un po’ di dignità. Qualche minuto prima mi aveva fermato implorante, mentre rientravo dopo una dura serata di lavoro, parandosi davanti alla mia di auto e chiedendomi se potevo riaccompagnarlo. Era stato fermato dalla pattuglia poco più avanti che lo aveva sottoposto al test, per la cui abbondanza di positività quasi gli agenti gli avevano stracciato la patente davanti agli occhi. Non aveva scelta: o lasciare l’auto lì, o farsi aiutare dal primo che passa. Ho acconsentito, pur sapendo che non avrei potuto sottrarmi allo stesso controllo di Polizia e rischiando lo stesso destino. Andò bene, non so come, così consegnai le chiavi della Panda alla mia ragazza e mi misi al volante di quell’altro catorcio.

Quel figlio di papà, perché solo uno scavezzacollo viziato avrebbe potuto convincere i genitori a farsi comprare un’auto così, si accasciò sul sedile di fianco riuscendo a malapena a ultimare il passaggio di consegne sul modo di mettere in moto la Dune Buggy. Ma nemmeno il rumore della marmitta e l’attenzione che stavo attirando percorrendo le vie del centro mi fece desistere da quel gesto di solidarietà. Il ragazzo era un po’ più giovane di me, io avevo già superato la fase del superuomo e mi stavo affrancando in tutta fretta dalla schiavitù dello sembrare adolescente sempre e comunque. Così, guidando, mi veniva da dargli i consigli che si danno a uno che ha rischiato di essere trattenuto per ubriachezza molesta, o peggio di schiantarsi contro un lampione con quel trabiccolo. E pensavo come sarebbe stato, se fossi diventato padre di un tipo così, metterlo in riga, convincerlo a ubbidire, usare i ricatti e il castigo e pure la forza per ottenere qualunque cosa.

Alla fine gli parcheggiai persino l’auto sotto casa, ma non ero riuscito a dirgli nulla, e se lo avessi fatto non avrebbe capito un parola, dal suo stato limitrofo al coma etilico. La mia ragazza, che mi aveva seguito fin lì, mi disse che non stonavo affatto su quella che sembrava la macchina di Paperino, ed era una sensazione che stavo provando anche io. Tutta quell’aria in faccia, tutto quel sentirsi indifferente. Mi sentivo ripulito dalla testa ai piedi di qualcosa che avevo prima e che non faceva più parte di me. Qualche settimana dopo poi ci siamo incontrati di nuovo, per caso. Camminava a fianco di suo padre, che con i pantaloni gialli che mettono gli uomini in riviera sembrava poco più che il fratello maggiore. Anche solo dirgli che in fondo, quella sera, era stato fortunato, sarebbe stato superfluo. E poi, magari, non si ricordava nemmeno più.