dico basta alla pirateria. Ora.

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L’ingenuità dell’articolo di Matteo Bordone su Wired è disarmante, soprattutto nella parte centrale che racchiude il classico manualino per sentirsi le dita pulite e l’how-to-do del dovreste fare tutti come me, chiedetemi come. Ma il punto è proprio nel passaggio in grassetto “per me le cose che contano vanno possedute”. Bravi, ma questo sono io a dirlo, bravi, continuate a riempirvi la casa di cose e a intasare le discariche di rifiuti, perché è lì che le cose finiranno una volta che sarete morti. Del resto, le cose che contano non sono digitali, un paradosso quanto una dimostrazione per assurdo perché se esiste un canale in cui una matrice può essere duplicata all’infinito e non voglio che quella matrice venga duplicata, la matrice stessa non deve essere digitalizzata, o può essere digitalizzata tramite un passaggio di conversione dall’analogico in cui la qualità per forza di cose è inferiore all’originale, per fare un esempio il film ripreso al cinema con il pubblico che si alza per andare a fare pipì o che chiacchiera in russo. Ma se si tratta di una matrice nativa digitale è evidente che occorre reinventare un sistema economico in cui il guadagno non dipenda dalla vendita del prodotto. Facile, no? Perché possiamo indignarci quanto vogliamo, ma non esisterà mai una pena o uno stato di polizia postale tale da arginare la pirateria o un’occasione così poco allettante da non fare di un uomo un ladro. Per buona pace di chi riempie di contenuti la rete, che prima o poi finiranno in una discarica virtuale e anche lì si porrà il problema del riciclo.

fili e filiastri

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Il wireless l’ho inventato io. Almeno il sogno di un mondo wireless, senza fili, cavi e collegamenti fisici. Dài, è solo un incipit fantasioso di un post, su non siate sempre precisini, lo so di non essere stato io e non sono mitomane. Passatemi però almeno il fatto di odiare fili e qualunque tipologia di cavo di connessione, perché da tempo immemore mi complicano la vita, ne diminuiscono la qualità, mi fanno inciampare, mi rovinano l’umore con ronzii e disturbi vari, fino a quando smettono di fare il loro dovere. Provo a intervenire, ma senza saldatore è dura. Le leggi della fisica sono più forti del sottoscritto. Sarebbe bello essere liberi dai conduttori, ma non ho idea della pericolosità di trasmettere via onde non-so-di-che-tipo segnali audio, video e – perché no – corrente elettrica, tutto questo nel mio mondo ideale (e nella mia cialtronaggine).

I musicisti, e io lo ero, girano in lungo e in largo con borse piene di metri di cavi jack-jack per amplificare strumenti, collegare effetti e pedalini. Cavi che non ho mai imparato a riavvolgere e che, una volta riposti nel contenitore utilizzato (la cui qualità è perfettamente in linea con la professionalità del proprietario: dai flight case in alluminio cromati con le rotelle ai sacchetti in nylon della coop, passando per le borse/gadget di organizzazioni che nulla hanno a che fare con il rock’n’roll, come l’ACI. Facile indovinare a quale categoria non sono mai appartenuto) si trasformano in entità dotate di vita propria, si torcono, si accoppiano, si annodano e si aggrovigliano. E allestire il proprio set non è una passeggiata. Senza contare l’elemento umano, in tutto questo, la precisione necessaria a riordinare tutto il proprio materiale a fine concerto, in condizioni non sempre idonee ad attività logistiche. Non solo “too drunk to fuck”, quindi.

Analogo destino per i banalissimi cavi RCA, quelli che connettono i vari componenti del mio impianto di diffusione sonora facilmente identificabile in una unica avveniristica locuzione: multimedia station. Yeah. Un potente amplificatore in cui convergono piatto, lettore cd, lettore mp3 e l’hard disk connesso alla tv. Il tutto è confinato nel mobile in sala, contro una parete. Succede che i cavi RCA, là dietro, pur ordinati e raccolti con nastro adesivo nella minima lunghezza indispensabile, ogni tanto si rompono, si deteriorano, decidono che sono stufi di musica troppo raffinata, o mix eccessivamente bruschi tra generi antitetici. Che ne so. Il problema è intervenire e sostituirli, perché malgrado la massima attenzione utilizzata durante la procedura di cablaggio, ritrovo sempre i fili uno dentro l’altro, incrociati, sopra e sotto, e immersi in un abbondante strato di polvere. Spostare tutto, pulire e rifare l’operazione da capo, approccio molto nerd, talvolta costa fatica. Oggi, per esempio, non sarebbe proprio il giorno più adatto.

In borsa, di fili ne ho due. L’alimentatore del telefonino e le cuffie del lettore mp3. L’uno blu e l’altro nero, che trovo immancabilmente aggrovigliati nei momenti meno opportuni, tipo in piedi sul passante nell’ora di punta mentre vorrei isolarmi dai dettagli sullo scudetto del Milan, quando invece sarebbe più logico pensare alla sfida tra Moratti e Pisapia, per esempio. Separare quell’improvvisata installazione laocoontica non è possibile, anzi, proprio per l’accostamento dei colori nero e azzurro, pur non essendo un tifoso né un amante del calcio, in quel momento mi sembra un’operazione contro natura. Tanto più che la danza convulsiva che interpreto, per non infierire di gomitate le bocche dello stomaco altrui, attira meno l’attenzione di quel binomio simbolico, nero e azzurro, in un tripudio di discorsi sul rosso e il nero – nulla a che fare con Stendhal – che si interrompono, distratti dal vessillo nemico.

Ecco, nel mio mondo ideale tutto si trasmette via etere, infiniti canali in cui dispositivi riconoscono il proprio gemello a cui indirizzare il segnale trasportato. Senza condutture tutt’altro che estetiche, che fanno capolino ovunque, tra i pali della luce, sulle pareti, nelle abitazioni, a bizzeffe sulla mia scrivania. Non esisterebbero prese, nessun rischio di inciampare, canaline per terra, tracce lungo i muri, plastica ovunque, serpenti artificiali che si insinuano tra mobili di design, facile preda di gatti dalle unghie vendicative. Scienziati e inventori, a voi la sfida: stacchiamo la spina a questo obsoleto mondo wired.