con gli occhi

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Faccio ancora fatica ad abbinare genitori a bambini. Con le mascherine, all’uscita da scuola, è un delirio e vado per inerzia, confidando nel fatto che almeno i miei alunni siano in grado di riconoscere mamma, papà e nonni e che la consegna vada in porto. Non sono tenuto invece a salutare chi attende al cancello per ritirare i bimbi delle altre classi della scuola, anche se – in un piccolo paesello di provincia – sarebbe il caso di impegnarsi un po’. In realtà vige il rapporto dell’uno contro molti: i genitori mi conoscono in quanto insegnante – e unico insegnante di sesso maschile della primaria, anche se quest’anno finalmente ho un collega – mentre io, per ovvi motivi numerici, non potrei ricambiare nemmeno se prendessi lezioni private di fisiognomica. Potrei tirarmela e scrivere che sono una celebrità, ma anche se ho contribuito a far sì che 1500 studenti dai 3 ai 14 anni siano riusciti a terminare l’anno scolastico da casa, resto umile.

La mascherina, poi, ci mette del suo. Se già evito gli sguardi dei genitori dei bambini non miei all’uscita lanciando generici ‘sera, ‘sera (ogni tanto una ex-collega, che ha un figlio in prima da noi e con cui avrò si e no scambiato un paio di e-mail, mi accoglie con fortissimi “ciao Robyyyyy” nemmeno fossimo stati a scuola insieme), degli semi-sconosciuti con mezzo volto coperto diventano un’incognita a tutti gli effetti. Certo, nel dubbio, potrei salutare calorosamente tutti uno per uno come si fa sui sentieri delle Dolomiti. Oppure continuare a sorridere vigorosamente dietro il tessuto protettivo in modo che, almeno con gli occhi, sia evidente che stia ricambiando un convenevole.

C’è poi l’aggravante mamma musulmana con mascherina. L’effetto burqa è assicurato. Stamattina ho parcheggiato poco dopo il cancello d’ingresso. Ho indossato la mia chirurgica da lavoro per rimanere in incognito ma, nonostante ciò, una donna vestita con abito tradizionale e velo sui capelli mi ha salutato calorosamente. Ho ricambiato ma mi si leggeva nel poco che si vedeva nel volto lontano un miglio che non sapevo a chi mi trovassi davanti. Gli occhi saranno anche lo specchio dell’anima ma, in quanto a fornire generalità, non sono granché.

“Sono la mamma di Mehar”, mi ha detto, anticipando mie scuse con uno sguardo di riconoscenza che mi ha sciolto all’istante. Mehar è una ragazzina pakistana che mi ha chiamato diverse volte durante la didattica a distanza per avere un aiuto nella configurazione del pc che aveva a disposizione per seguire le lezioni. Ora frequenta la secondaria ma me la ricordo benissimo qualche anno fa, durante alcune supplenze che ho svolto nella sua quinta. Mehar parla fluentemente l’italiano, è brillante e intelligentissima ed è stata lei il contatto principale della sua famiglia durante l’emergenza sanitaria. Dopo qualche sessione di help desk su Whatsapp ce l’abbiamo fatta. E, come se non bastasse, ho avuto anche l’onore di supportare sua mamma che, iscritta a un corso di italiano per stranieri in una scuola professionale, ha dovuto concludere gli incontri tramite Google Classroom su uno smartphone.

Mi sono così ricordato che aiutare le famiglie è stato forse la parte più appagante di tutta l’esperienza della didattica da remoto. Per quelle straniere, che hanno affrontato ben altre barriere oltre quelle tecnologiche, il piacere è stato doppio.

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