Sostiene Wikipedia che “attorno alla metà del VI secolo a.C., in età serviana, si calcola che Roma possedesse già una popolazione di almeno 30mila abitanti che ne facevano uno dei più importanti centri della regione etrusco-laziale”.
Un numero decisamente importante ma che, dall’alto dei nostri otto miliardi di esseri umani viventi simultaneamente su questo pianeta, fa sorridere. Se facciamo due calcoli a ritroso probabilmente quelle tribù di selvaggi che non andavano tanto per il sottile ai tempi delle origini di Roma – come abbiamo avuto modo di verificare nelle recenti trasposizioni televisive e cinematografiche delle origini della città eterna – erano composte da poco più che una manciata di persone. Ne deriva che quando si incontravano nei boschi per darsele di santa ragione, le percentuali del calo demografico risultavano sensibilmente elevate. A questo si aggiunge che, tra le righe della storia di quei patres in erba, antenati delle gens più nobili, ci sono centinaia di avi di quei plebei che, sono certo, di lì a poco hanno estinto la loro discendenza per motivi meno nobili.
Il punto è che ci vorrebbe una disciplina a metà tra la scienza e la sociologia in grado di studiare quali sono i fattori che permettono agli archetipi di replicarsi e perpetrarsi nei secoli – magari partendo da quei quattro gatti che c’erano in Italia mentre Romolo mandava all’altro mondo suo fratello, come un Putin o uno Zelensky qualsiasi – anche mescolandosi ad altri esemplari per dare vita a tutti quegli incroci che hanno condotto all’attuale sovraffollamento abitativo. Chissà cioè se certi aspetti quali la capacità di stare al mondo, di cavarsela, di prendere dimestichezza con le cose, di mettere in campo qualche espediente per migliorare la propria qualità della vita contano al netto dei grandi eventi storici, oltre alla violenza, alla legge del più forte e alla prevaricazione. Il punto è che se c’è stata una sorta di selezione naturale oggi dovremmo essere tutti belli, probabilmente biondi, muscolosi, ricchi, intelligenti e scaltri. Una progenie frutto di forza e intelligenza.
Ma proprio quei selvaggi dai quali probabilmente discendiamo avevano già constatato allora che il genere umano avrebbe dovuto fare i conti con quella causa irrazionale a cui si suole attribuire ciò che avviene indipendentemente dalla nostra volontà e, in genere, da un disegno o fine predeterminato, che è poi la definizione che la Treccani dà per il caso. L’idea che abbiamo noi è che ci è stato possibile superare i nostri antenati in civiltà grazie a secoli di cose come umanesimo o illuminismo o rivoluzioni industriali che ci hanno spinto a relegare superstizione e aruspici vecchi e nuovi nei bassifondi dell’oscurantismo. Ma, in realtà, non sappiamo quanto gli antichi fossero fatalisti. Noi, che facciamo tanto i moderni, siamo ancora qui a dividere e classificare la gente a seconda del livello di fortuna da cui è stato baciata, laddove per fortuna (o caso, o destino) intendiamo come ci vanno le cose.
E, per venire al punto, se sei uno molto fortunato quando ti accade qualcosa di brutto lo definisci un incidente di percorso. Se invece le cose brutte si susseguono e costituiscono l’ordinarietà, ti senti uno sfigato ma ormai sei a tuo agio con la tua condizione e non hai pretese. Per esperienza posso confermarvi che a chi è poco fortunato non conviene muoversi con eccessiva disinvoltura nella vita, perché quando le cose sembrano andare bene puoi stare sicuro che arriva prima o poi una batosta o anche una piccola delusione che ti fa mettere in discussione tutta la struttura che ti sei costruito fino a quel momento.
Mi spiace che non ci conosciamo di persona, ma fidatevi quando vi dico che la storia romana è uno dei miei argomenti preferiti, insieme alla letteratura latina. Ho studiato e ristudiato queste cose all’università e passo ore a seguire documentari sui canali di storia della tv digitale. Non leggo libri a proposito perché preferisco di gran lunga i romanzi americani e il tempo da dedicare alla lettura è quello che è, ma vi prometto che, quando sarò in pensione, divorerò anche i saggi.
Quello che mi sfugge, però, è come faccia a non ricordarmi nulla, di queste cose. Venerdì ho trascorso due ore in supplenza in una quinta elementare. L’insegnante che ho sostituito mi ha lasciato qualche attività da svolgere con i ragazzi proprio di storia romana – le lotte tra patrizi e plebei all’inizio dell’epoca repubblicana – e mi sono trovato in grossa difficoltà. E pensare che, poco prima, chiacchierando con una collega di sostegno alla macchinetta del caffè, ci siamo confrontati sulla didattica laboratoriale, sulle opportunità della disposizione della classe a isole per unità didattiche, con i bambini divisi in gruppi a fare materie diverse e costruire manufatti, mentre io sono ancora fermo ad atteggiarmi come Alessandro Barbero e a pensare all’insegnante come un divulgatore quando ai bambini non gliene frega un cazzo.
Eppure ho approcciato questo lavoro con l’idea di fare di tutto per apparire come un innovatore, nel mio piccolo e umile ruolo di maestro elementare, mestiere a cui ho avuto accesso proprio grazie a una botta di quel culo di cui parlavo prima, una svolta in cui mi ha aiutato il caso e che probabilmente mai più si manifesterà in modo così benevolo, sotto il profilo professionale. Meglio di così non posso fare.
Nonostante ciò mi sono presentato lo stesso, qualche giorno fa, al concorso per insegnare italiano, latino e storia alle superiori. Non so se avete letto ma è stata una strage. Quiz a risposta multipla con opzioni complicatissime da decifrare. Se sono stato umiliato dall’esito di questa prova, però, è tutta colpa mia che, come dicevo prima, non mi ricordo un cazzo di quello che mi interessa. Per questo che non capisco come abbia, anche solo per un istante, potuto pensare di essere in grado di insegnare in un liceo. Poco prima della prova ero in una stanza della scuola in cui si teneva il concorso e ho scambiato qualche battuta con gli altri candidati. Il più vecchio aveva vent’anni in meno di me. Ognuno ha condiviso a grandi linee l’esperienza che lo aveva condotto lì, consapevole che – con test di questo tipo – sarebbe stato tempo buttato via. Quando è stato il mio turno, ho chiarito di essere già in ruolo alla primaria. “Sono qui per fare un upgrade”. Ho detto proprio così.