lo stesso tono, ripetuto

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Solo una nota: inutile dire che il clamore dello scivolone di Monti, che poi scivolone non è, mi fa sorridere perché siamo alle solite. Si prende la battuta e la si decontestualizza. E non venite a dirmi che sono di parte, che quando gli scagnozzi di quello che c’era prima speculavano filosoficamente sulle sue, di battute, era lo stesso identico modo di comportarsi che hanno quelli che, come me, minimizzano. “I giovani devono abituarsi al fatto che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, che monotonia un posto fisso per tutta la vita, è più bello cambiare e avere delle sfide, purché siano in condizioni accettabili. E questo vuol dire che bisogna tutelare un po’ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po’ di più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci”. Queste sono le parole di Monti. Ora, la situazione la conosciamo tutti. In un mondo ideale uno fa il lavoro che vuole cambiando quando vuole, oggi a malapena se ne trova uno. Lo scenario ipotizzato nella frase incriminata necessita di una predisposizione alla flessibilità solo se consentita da come vanno le cose, nessuno dà dello sfigato – tanto per rimanere in tema di strumentalizzazione – a chi non trova alternative al proprio posto di lavoro che magari occupa da dieci anni, tantomeno trapela un dileggio a tutto il resto della popolazione occupata a progetto e a quella che il lavoro non ce l’ha. Quella frase condizionale introdotta dal purché spiega tutto quanto espresso prima. Ma il caso non avrebbe fatto altrettanto notizia, non sarebbe stato degno nemmeno di una sola nota.

un po’ meno piccoli

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La risposta dev’essere là fuori da qualche parte, oltre la fila di alberi che separa il giardino della scuola primaria dal settore a uso della scuola materna. In questo mattino, con l’autunno agli albori e le foglie che già cadono, non c’è nulla che trattenga l’attenzione di Livia lì dentro, tra banchi occupati da bambini sconosciuti e quelle nuove maestre che parlano di cose che lei già conosce. Livia è una bambina di mezzo, nel senso che è nata troppo tardi per l’anno prima e troppo presto per l’anno dopo, una collocazione temporale che non vorrebbe dire nulla se non si prendessero come riferimento solo i mesi centrali per convenzioni anagrafiche e quindi ci si deve adattare. La differenza talvolta però si vede: quelli nati a gennaio sono o troppo grandi o troppo piccoli rispetto agli altri, a quell’età.

Per lei è stato deciso di iniziare un anno prima la scuola primaria, i genitori hanno compiuto una scelta oculata soppesando in due colonne affiancate i pro e i contro. Se Livia ora è lì che guarda nella direzione dell’edificio a cui è stata strappata un anno scolastico prima del dovuto significa che sono prevalsi i pro, il che non significa necessariamente però che la scelta sia giusta. Di là, oltre quella fila di alberi, da qualche parte c’è il gruppetto di compagne con cui trascorreva le giornate fino a pochi mesi prima, ed è curiosa la sua ex scuola vista da dove si trova ora, da quel punto di osservazione che non aveva mai pensato potesse esistere.

La risposta però non deve essere fuori, è dentro di me, probabilmente pensa Livia, se una delle compagne le fa notare in modo molto spiritoso che la maestra sta leggendo una storia e che occorre ascoltare. Ma il mistero delle amiche che ha lasciato di là – è stata l’unica anticipataria – e di quella prospettiva inimmaginabile prima non le torna, Livia sa che lo deve risolvere in qualche modo. Ne approfitta così durante l’intervallo, dopo la mensa, da sola si reca sotto quegli alberi, sul tappeto di foglie di ogni colore, dove però scopre che c’è anche una ringhiera che separa i due giardini, prima da dentro non ci aveva fatto caso. L’avventura finisce lì.

Fortunatamente è intervallo anche alla scuola materna, così Livia riesce ad attirare l’attenzione delle sue ex compagne che corrono da lei, ma giocare separati in quel modo non si può. Se ne accorgono tutte, c’è qualcosa di innaturale, c’è un gruppo che ha dovuto rinunciare a una parte di sé ma che ha già rimarginato la ferita, c’è una bambina che ora, per chissà quale motivo, è più grande. Scambiano qualche battuta come i bambini di cinque e sei anni possono fare, quindi il gruppetto compatto torna con i propri pari. Livia sta per rientrare nella sua classe ma decide di perdersi nei suoi pensieri, come spesso le accade quando si distrae mentre cammina da qualcosa che vede. Si ferma e fissa le foglie, poi guarda su a valutare quante ne cadranno quel giorno, saltella un po’ sulle radici, sfiora le cortecce. Stringe a sé tutto quello che ricorda di come era la vita prima, direbbe un adulto, magari suo padre.

Dentro, nell’aula, una delle maestre segue alla finestra quella bambina che sa già un sacco di cose malgrado sia lì un anno prima del dovuto, conosce nomi di animali e di alberi di tutti gli ambienti naturali. Così, in forma di battuta, mette in allarme la collega che ha coinvolto come spettatrice, dicendole di essere preoccupata: Livia starà sicuramente riflettendo su quelle piante o sulle stranezze del mondo vegetale, occorre tenersi pronte a una domanda molto specifica alla quale sarà difficile rispondere, nemmeno guardando fuori.

il centouno modello

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Come tutti voi saprete già, la rivista Rolling Stone per festeggiare i 100 numeri ha pubblicato la classifica dei 100 migliori album di musica italiana dalla nascita del rock ad oggi, un’impresa di per sé estremamente complessa, se non impossibile, come tutte le altre liste simili e le top metteteilnumerochevolete di ogni sorta. In questo caso, poi, la classifica non è stata stilata dai giornalisti che vi scrivono, bensì da un gruppo di giurati trasversale. Quindi non si tratta nemmeno dell’espressione di una redazione, piuttosto vorrebbe essere il più vicino possibile a un ipotetico suffragio nazionale.

Per prima cosa, lasciatemi dire, sono rimasto allibito dal non essere stato interpellato tra i giurati, pur avendone pieno diritto in quanto persona più informata in ambito musicale che io conosca. A parte questo, voglio dire, potrebbe anche essere l’ennesimo malfunzionamento delle Poste italiane, la top one hundred in questione presenta due vergognose lacune, che gli organizzatori dell’iniziativa fanno addirittura rientrare nei criteri di base. Intanto, la scelta dei giurati. Ad alcuni di questi individui non chiederei nemmeno che ore sono, figuriamoci considerarli opinion leader in ambito musicale. In secondo luogo, il veto a indicare più di un album per artista o gruppo, stesso criterio utilizzato per stilare l’elenco finale. Potete immaginare il motivo del mio disappunto, ma vi dico lo stesso che solo la discografia di gente del calibro dei CCCP o dello stesso De Andrè, tanto per esercitare la mia consueta volontà di raccogliere consensi e clic ubiquamente, occuperebbe una larga percentuale delle prime 30 posizioni.

Ma, considerando il coraggio con cui la rivista si è esposta, e l’intelligente idea di creare addirittura una e-mail manonavetemesso@eccetera per tenere viva la discussione, malgrado i grandi assenti e i monotoni bamboccioni sfigati e raccomandati che occupano immeritatamente alte posizioni, tutto sommato possiamo anche promuovere l’iniziativa solo a condizione che mi sia concesso non (badate bene) di preparare la mia personale lista anche solo in un moderatissimo ordine alfabetico dei nonsoancoraachenumeroarrivo dischi italiani di cui non si può fare a meno, perché mi ci vorrebbero mesi, magari inizio ora e ci vediamo questa primavera. No, semplicemente lasciatemi postare qui sotto una canzone molto interessante di un gruppo da cui mi aspettavo tanto ma che in realtà, pubblicato l’ep che conteneva il brano in questione, puff, è sparito nel nulla. Alla posizione centouno ecco a voi i Petrol, che, se ci sono, che battano un colpo.

vada a bordo, cazzo!

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Ci sono alcune locuzioni che negli ultimi tempi vanno per la maggiore, nel mio ambiente. Una lista esemplificativa sebbene parziale comprende metterci la faccia, perdere la stessa, avere le spalle coperte, cadere in piedi.

Se immaginiamo un’impresa come un organismo composito, il capo nel senso di testa, che per una amara coincidenza ha la stessa denominazione della funzione aziendale posta alla guida del suddetto organismo, è dotato di un sistema periferico che svolge la funzione di punto di contatto con l’esterno, che io chiamerei interfaccia se il suo nome non fosse per l’appunto faccia e desse adito a impressioni di scarsa attenzione da parte mia alle ripetizioni nel testo. E per convenzione è quello che il sistema in cui un’impresa opera vede. In questo senso si dice metterci la faccia, no? Il capo nel senso di amministratore dell’impresa fornisce l’energia a tutti gli organi sottostanti per muovere tutto il macchinario nel suo ambiente, che per essere corretti dovremmo chiamare mercato, in teoria al meglio delle sue possibilità. Non sto inventando nulla, sia chiaro, è un po’ il celebre apologo di Menenio Agrippa, quella favoletta che avrete studiato come me alle elementari.

Ci sono però numerose, anzi, infinite variabili in queste dinamiche interne: quanta energia il capo fornisce e in che termini, le condizioni atmosferiche, gli sgambetti del prossimo, le parti interne guaste per le quali a volte ci si ferma nei box, e così via. Ogni espressione che la faccia lassù assume è un messaggio comunicato al resto del mondo. Se le cose vanno male, si dice che chi ci mette la faccia la perde, una delle possibili – la peggiore – vie in cui si esercita il rischio di impresa, le cui responsabilità sono altresì diverse e da ricercare nei settori che non hanno funzionato, capo compreso, anche qui con tutte le molteplici cause che non sto ad elencare. Ma, e c’è un ma, anzi ce n’è più di uno, perché può succedere che il corpo – che chissà perché me lo figuro come Frankenstein con il suo cervello AB-normal mentre danza sulle note di “Puttin’ on the ritz” seguendo i passi dettati da uno scienziato pieno di sé, coprendosi di ridicolo con gli spettatori, ma forse sono solo suggestionato dal fatto che ho introdotto mia figlia al culto del film in questione di recente e con suo sommo divertimento – dicevo, il corpo a un certo punto subisca un mancamento, tutto gira intorno e non riesce più a reggersi sulle proprie gambe.

Ed ecco il perché delle altre due locuzioni, ricche peraltro di analogie con la metafora in cui mi sto perdendo, chiedo scusa. Può essere che il capo, nel senso di vertice aziendale, abbia le spalle coperte e decida di spalmare altrove quel rischio di cui dovrebbe farsi carico, anzi se ne fotta proprio, per evitare inutili giri di parole. Cadere in piedi è la conseguenza: mi immagino il capo, ma nel senso di testa, che si stacca da quel pot-pourri di risorse umane in preda al panico in fin di vita e si proietti nello spazio con la sua navicella di salvataggio per atterrare in un pianeta lontano, in alcuni casi è sufficiente un paradiso fiscale, mentre il resto del corpo stramazza al suolo inerme, fine della corsa, potete trasformarvi in humus quando volete, grazie e arrivederci, la nostra responsabilità è limitata. Ma ora, con un solo euro, potrete provare anche voi la stessa ebbrezza. Chiudo con un siparietto comico giusto per tirarci su il morale.

art e copy

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La sfida era portare un oggetto da casa, un qualcosa qualsiasi a cui si è particolarmente affezionati, per poi fotografarlo e inventarci su una storia illustrata con la tecnica del collage. Poteva essere Tao, il panda che ti teneva compagnia quando ancora, al nido, facevi il riposino dopo pranzo. Ma poi hai pensato di no, ormai sei grande. Poteva essere Boomer, la celebre testa di supereore adibita a contenitore di caramelle che troneggia sul frigo e che avevo acquistato in un mercatino delle cianfrusaglie. Ma hai rifiutato anche quella proposta, perché un po’ ti saresti vergognata, e come biasimarti. Così alla fine abbiamo deciso all’unanimità di prendere lo scheletro di baobab che siamo soliti addobbare con le collane elastiche piene di perline e il cammello con bisaccia, entrambi cimeli africani provenienti dalla precedente vita da weltburger e turista consapevole di mamma. L’appuntamento era in una sala del Museo della Fotografia, dove abbiamo trovato allestito un vero e proprio set con tanto di reflex e luci, e la parte di laboratorio, con fogli colorati, pennarelli, colla, forbici e tante riviste da tagliuzzare. Ci siamo confrontati per qualche minuto, ma date le proporzioni tra i due soggetti immortalati e stampati è stato facile concordare la trama della storia. Un cammello si era pappato tutta l’erba nel prato, e a un secondo cammello non era rimasto nulla. Ma all’animale sfortunato era bastato dare uno sguardo sulla cima del baobab per notare la frutta e i fiori colorati provenienti dalle pubblicità patinate che avevamo ritagliato e incollato sui rami più alti. Quindi, come una specie di supereroe elastico, aveva allungato a dismisura il collo per assicurarsi il pranzo, si era riempito la pancia e aveva deciso di rimanere così, un’evoluzione genetica istantanea e utile per il futuro, da cammello a una specie di giraffa marrone con la gobba. Niente male come coppia creativa, vero? Ah, per la cronaca, il cammello si chiama Ibrahim.

il gioco dei quindici

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Il mercato è saturo in ogni suo anfratto e il problema degli eccessi produttivi si scontra anche con la riduzione forzata del modello di consumo ai tempi della crisi, laddove un ridimensionamento potrebbe invece essere invocato in forma di autodisciplina del consumatore. La sfida alla sopravvivenza, che si protrae comunque di gara in gara ed è il segnale che là sotto fortunatamente c’è ancora qualche organismo vivente imprenditoriale, fino ad oggi è stata vinta da chi è riuscito a creare intelligentemente i bisogni, prima ancora di immetterne l’antidoto sul mercato sotto forma di prodotto consolatorio, IVA esclusa. Mi viene in mente, come esempio più eclatante, la maestria di Apple nell’essersi reinventata cose che esistevano già, imbellettarle per i dì di festa (leggi perfezionarle e aggiornarle) e sbaragliare i competitor o fare piazza pulita di prodotti borderline, concentrando in un unico dispositivo tecnologie che prima svolgevano anche funzioni collaterali, convincendo il mercato della superfluità di tutto il resto. Ora che anche i bisogni sono agli sgoccioli, erosi da necessità di sempre più basso livello a fianco delle quali il valore esorbitante di accessori extra assume un carattere di oggettiva oscenità, e non a caso è proprio l’osceno a regolamentare alcuni aspetti della contemporaneità primo fra tutti le scelte di acquisto, e i sogni si infrangono intorno al quindici di ogni mese scoperti oramai da buste paga inadeguate per non dire giocattolo, si tratta di fare breccia nell’individuo attraverso canali innovativi tutti da inventare. Buon lavoro, ci viene da dire. Il guaio è che i nostri difetti, nostri nel senso di noi che stiamo dall’altra parte del bancone nel negozio in fila per pagare, si fanno largo nell’anima stessa delle aziende, perché i ruoli chiave e i posti di chi prende le decisioni ma anche degli addetti alla produzione stessi sono occupati da individui che mangiano le stesse cose e respirano la stessa aria quindi non possono che fare sempre peggio, e alla fine il corto circuito è inevitabile, fa scoppiare tutto, lascia terra bruciata intorno. Non c’è più posto, mi spiace, siete arrivati tardi.

questione di genere

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Tenete conto che mentre impazzava il grunge, noi addetti alle macchine elettroniche dotate di tasti bianchi e neri eravamo i meno richiesti, anzi sembrava che nessuno sentisse la nostra mancanza. Giusto qualche esagitato metallaro con tendenze industrial o i punk dal rumorismo incontrollato ci consentivano di amplificare sampler e tastiere. I primi solamente se in grado di riprodurre trapani, trivelle e noise delle peggiori nefandezze, i secondi solo se intercettati da un distorsore. Un gran bordello insomma. Così, dalla nostra lontana colonia di esilio, salutammo con un anelito di speranza l’uscita di Blue Lines dei Massive Attack, ancora molto acerbo e troppo in anticipo sui tempi tanto da essere considerato né più né meno di un album di pop dance raffinato. Unfinished Sympathy, pensata per i club, passava alla grande in discoteca, non in tutte, ma la voce soul e il loop breakbeat non sembravano certo il primo passo verso uno dei generi più caratterizzanti degli anni 90 passato alla storia come trip hop, di cui di questi tempi si celebra il ventennale. Da Bristol questo mix di un po’ di tutto si svilupperà in molteplici sottogeneri ed evoluzioni, si unirà ad altri sound, percorrerà strade e spopolerà ovunque. Lo troveremo dall’India al Brasile, dal Belgio al Canada sino all’Africa e all’Italia, addirittura cantato in dialetto. Insomma, per chiudere come farebbe un vero giornalista musicale, venti anni e non li dimostra. Lunga vita al trip hop, abbiamo detto qualche anno dopo quanto è stato coniato il termine. Oggettivamente, noi addetti alle macchine non ci siamo mai divertiti così tanto.

ops, volevo dire:

tutto io

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Il mio istinto sarebbe quello di coprirmi le orecchie a intermittenza e lasciar defluire il tuo fiume di inutilità cantando una canzoncina come fanno gli adulti che imitano i bambini, ma la costanza con cui cerco di far prevalere la componente razionale di me, che mi vuole accondiscendente e benevolo verso il prossimo, in un’ottica commerciale s’intende, è mirata solo all’obiettivo di trovare un punto per fare breccia nel tuo egocentrismo e colpirti con una domanda, una di quelle a cui non sei più abituato almeno da quando eserciti immeritatamente il tuo potere. Solo una domanda, che agirà come un cavallo di Troia nel tuo essere egoriferito separandosi in particelle programmate per diffondersi come un virus informatico a tutti i livelli, decine centinaia e migliaia di stralci di codice che ti indurranno a cercare una risposta che non troverai da nessuna parte. Non nella tua memoria, che ha conservato solo le informazioni in uscita. Non nelle tue mani, abituate a stringere nodi di cravatta allo specchio. Non nel resto del tuo corpo, allenatissimo a muoversi innaturalmente sotto macchine da palestra sovraccariche di pesi. Così, esaurito il tempo regolamentare per elaborare una reazione verbale degna di te e di tutto quello che rappresenti, che non arriverà mai, tutte le particelle si ricomporranno al centro della tua scatola cranica tutt’altro che irsuta come componenti tecnologici di un robot in un cartone giapponese. A quel punto si attiverà una forza centripeta tale da indurre la parte superiore del tuo corpo, quella che dovrebbe essere stata progettata per guidare il resto, a un fenomeno raccapricciante di implosione degno di un b-movie splatter, dal quale si librerà nell’aria una nube di vapore a forma di punto interrogativo, quello che avresti potuto mettere al termine di una banalissima richiesta di chiarimento anziché cercare, come sempre, la soluzione nelle tue sovrumane capacità professionali.

dolce casa

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Abbiamo bevuto un cappuccino in fretta, il bar della stazione di servizio è come al solito preso d’assalto dalle comitive di turisti provenienti dall’est, né mia moglie ne io siamo degli esempi di tolleranza alle resse, ormai siamo persone di una certa età. Abbiamo tentennato sino all’ultimo per decidere se fosse meglio affrontare il viaggio in automobile o utilizzare il treno. Io preferisco il treno, in genere, perché ormai guidare mi stressa soprattutto per i viaggi lunghi, anche solo di un paio d’ore, quando oltre la distanza subentra la fatica di stare seduto, tenere le mani al volante a lungo. Mia moglie invece preferisce l’auto, e alla fine mi convinco anche io a patto che ci si fermi a metà strada, un minimo di ristoro, una visita in bagno. Poi però la fretta di arrivare prevale sempre, e la sosta dura sempre una manciata di minuti, la consumazione al bar che è sempre tiepida, il clamore e il fastidio degli entusiasmi delle trasferte altrui o di chi viaggia per lavoro e non sa di che parlare se non delle cose che vendono gli autogrill e non si vedono altrove.

L’idea era venuta a me, ma si trattava di un’esperienza che avevo pianificato da tempo. Ci avevo pensato la prima volta a venticinque anni o giù di lì, quando rientrando a casa – la casa in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima – avevo notato nell’androne del condominio i pezzi smontati del vecchio letto matrimoniale e dell’armadio della camera dei miei genitori, quella che da sempre era rimasta al suo posto e la cui presenza davo per scontato. Ma dopo che li avevo lasciati, avevano pensato a dotarsi di qualche comodità in più a rinnovare un po’ l’ambiente in cui vivevano, in concomitanza con i vuoti affettivi che si erano creati, a partire da una nuova camera da letto. Io me l’ero presa con la loro fretta di fare piazza pulita del passato, non capivo che urgenza ci fosse, anzi la capivo ma era come se si disfacessero di qualcosa che era anche mio anche se ora non ero più fisicamente lì a controllare ogni giorno che tutto fosse al suo posto. E avevo anche fantasticato su come sarebbe stato recarmi in visita in quell’appartamento da vecchio, quando i miei non ci sarebbero stati più, e quelle stanze sarebbero state affittate da chissà chi. Lo considerai un impegno, e decisi di non rimuovere mai più quel proponimento.

La seconda volta ci avevo pensato una mattina d’inverno, sul treno che mi stava portando in ufficio, provato da un riscaldamento irrazionale e tutto preso da un libro di DeLillo. Una ragazza, al telefono, stava raccontando a un’amica di aver stretto amicizia per caso, mentre era in fila per rinnovare l’abbonamento, con un’anziana signora che ora abitava il vecchio stabile in cui sua mamma era nata e cresciuta. Si meravigliava per la coincidenza e non vedeva l’ora di metterle in contatto per consentire alla madre una visita ai luoghi natii. Ricordo che avevo interrotto la lettura, cosa che sul treno mi capitava spesso, non è facile concentrarsi tra tutte quelle comunicazioni personali. Avevo riflettuto sulle possibilità che la madre non avesse granché desiderio di ritornare nelle stanze della sua infanzia, magari aveva subito maltrattamenti, era cresciuta nella miseria, oppure semplicemente come difesa dall’essere sommersa dalla commozione, a una certa età fa male. Poi però ricordo di aver ricondotto quella conversazione a quell’altro episodio precedente, quella sorta di promessa che mi ero fatto. Quindi mi ero segnato tutto sul taccuino, quello che portavo sempre con me per appuntarmi le cose che vedevo e i passaggi più toccanti dei romanzi che divoravo, e addirittura ne scrissi un post, ai tempi tenevo un blog come quasi tutti quelli che conoscevo che facevano il mio mestiere.

Penso alla chiusura del cerchio, la resa dei conti, mentre risaliamo nell’abitacolo della vettura. Mia moglie ed io ci avviamo così per l’ultimo tratto del viaggio, che poi è la parte più bella perché sbuchi fuori dall’appennino e a un certo punto vedi il mare, che è quello che mia moglie preferisce prima del pezzo finale che, non ho mai capito perché, ritiene sia il più faticoso, malgrado siano una manciata di chilometri. Forse si riferisce alle curve, o a quel punto si ha solo voglia di arrivare e non ti passa più. Ci scambiamo impressioni sul fatto che ormai nostra figlia è distante, ha la sua vita, e trovare il tempo per organizzare questa gita di cui so già che mi pentirò non è stato difficile. Ha giocato a mio favore l’aver rintracciato facilmente i nuovi inquilini, la famiglia del figlio di un mio vecchio amico, i quali si sono prestati senza problemi ad accontentare un anziano milanese in pensione.

La città è sempre la stessa, è sempre stata la stessa e ce lo dicevamo sempre quando trascorrevamo i fine settimana in visita qui, e io le raccontavo di come fosse sempre stata uguale, che non ci sarebbe stata mai nessuna possibilità, e chissà come sarà ora. Mentre parcheggio l’automobile, lei mi ricorda di comprare un po’ di focaccia come eravamo soliti fare, anche se adesso so già che mi risulta pesante, non è che digerisca l’olio così facilmente. Il portone è diverso da come ce lo ricordavamo, non c’è nemmeno più la farmacia a fianco, dopo le liberalizzazioni del 2012 probabilmente non ha retto alla concorrenza, in un città già economicamente dimessa. Cerco il numero corrispondente al nome sul citofono, suono, e mentre aspetto una risposta mi stringo a lei, e le dico troppo tardi che mi sto commuovendo, che fa male a una certa età, e che forse è meglio tornare indietro.

uno speciale riconoscimento

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Ed eccoti lì, sei proprio tu. Sbuchi dal nulla che poi è tutto quello che c’è intorno al momento ripreso dalla telecamera ma che non esiste per chi sta guardando e non si trovava in quel posto, entri in campo da destra quando il cantante sul palco incita il pubblico ad avvicinarsi, avanti c’è spazio, venite ad agitarvi qua sotto. Così, malato di divertimento com’eri, non te lo fai ripetere due volte. Tu e i tuoi amici vi ammassate davanti al gruppo che suona e inizi a muoverti in un modo che non saprei riprodurre nemmeno assistito da un coreografo, la giacca di pelle nera e la pettinatura di un’altra epoca.

E già l’aver ritrovato quella registrazione digitalizzata da una vhs chissà da chi e caricata su youtube è stata una bella sopresa, miracolosa come qualsiasi coincidenza di quelle che solo Internet consente. Persone che casualmente si trovano in un posto muniti di telecamera o macchina fotografica, immortalano qualcosa, per esempio una festa in una piazza con un gruppo locale che suona, e poi venti anni dopo, probabilmente decisi a gettare il loro archivio fisico di reportage audiovisivo, digitalizzano tutto e decidono di farlo addirittura in rete, nemmeno su supporti personali.

Dall’altra parte della storia, qualcuno fa una ricerca sui motori con parole chiave improbabili il cui esito mostra una thumbnail in cui c’è qualcosa di familiare. Ma sì, non proprio loro, la band di cui stavo cercando notizie, chissà se addirittura quella sera c’ero anche io tra il pubblico. Così ecco la sensazione di meraviglia nel ritrovarsi all’improvviso da un’altra dimensione, in una sequenza di frame di cui si ignorava l’esistenza. Situazioni rimosse dalla memoria, riprese in cui non si è protagonisti nelle quali anzi si svolge il ruolo di comparsa casuale, un punto indefinito dello sfondo, un elemento di passaggio al quale può fare caso solo il diretto interessato. Ma a malapena.

È infatti in occasione di quell’incontro insperato con il proprio sé animato di decenni prima in cui ci si chiede quale sia l’elemento che rende così difficile riconoscere sé stessi in istantanee o filmati di cui si ignora l’esistenza. Cosa ci fa lì quella persona che sono io? La scena dura una manciata di secondi, il tempo di dare qualche spallata ai vicini di pogo, qualche salto sulle file davanti, e poi il cameraman zooma sulla corista in minigonna, ben più degna di essere ripresa da una posizione così bassa rispetto al palco.