the twilight sad – another bed

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eccezionale veramente

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Si fa un gran parlare di semplificazioni, finalmente è stato appurato che rendere le cose più facili rende la vita più semplice e, soprattutto, fa risparmiare. Semplificare però non mi sembra un verbo felice, anche se è il più appropriato a descrivere il processo di sfoltimento di norme e procedure che è in grado di migliorare addirittura l’economia di questo Paese, possiamo dire che è il termine più semplice da utilizzare in questo caso ma non mi suona in tutta la sua positività. Userei apparenti sinonimi come “ottimizzazioni” o “razionalizzazioni”. C’è un libro in commercio dal titolo “Come semplificarsi la vita”, per farvi un esempio, che un giorno ho visto in mano a un tizio con la testa rasata, e mentre ne sbirciavo le pagine mi è saltata agli occhi la ricchezza di vignette e esemplificazioni grafiche versus la penuria di parole, un vero e proprio manuale illustrato pensato con l’obiettivo di rappresentare situazioni tipiche del quotidiano. E tra me ho pensato quanto ancora vuoi semplificarti la vita, figliolo, più del tuo sistema binario di interpretazione della realtà che ti ha già riempito l’immaginario storico di croci celtiche. Il suo amico, di fronte, leggeva però “Il fucilatore” di Giorgio Almirante, e detto tra noi forse è meglio, a quei personaggi lì, lasciargli in mano le innocue dispense di training comportamentale.

Questo per dire che non vorrei che l’atto della semplificazione fosse confuso con un modo di procedere un po’ grossolano, l’arrivare da un punto A a un punto B usando la traettoria meno curvilinea possibile e tagliando fuori le complessità di alcuni metodi sfrondandoli dalle eccezioni, la negazione delle quali comunque non ne implica la cancellazione. Quel che è successo tra istituzioni e imprese e cittadini, nel tempo, ha generato una eccessiva customizzazione delle normative tale quasi da costituire un unicum per ogni soggetto, questo dall’alto verso il basso, consentendo spesso anche interpretazioni opportunistiche con l’avallo degli apparati politici e giudiziari.

Dal basso verso l’alto, al contrario, il sistema in essere ha favorito la diffusione di una intricatissima giungla burocratica senza precedenti, un labirinto mascherato da prassi nel quale ci si perde con facilità. Pensate a quanta documentazione firmiamo, nella nostra vita, senza nemmeno leggerla, in banca come nelle agenzie assicurative, negli studi di avvocati o notai, presso gli uffici della Pubblica Amministrazione. La cosa importante è che la semplificazione non giustifichi l’approssimazione, per eccesso come per difetto, tagli di grana grossa, numeri senza virgola che lasciano fuori dal gioco decimali impossibilitati a completarsi nell’intero più vicino.

che ci fai piangere abbracciati ancora

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Al termine del match i tifosi si rovesciano fuori, la tensione tra gruppetti con vessilli differenti è alta come in ogni occasione in cui è la squadra ospite a vincere la partita e i supporter ebbri del risultato e della birra si sentono come conquistatori in una terra alla loro mercé. Se non fossero in netta minoranza e se non si trattasse di una partita di calcio con una compagine che è poco più di uno sparring partner. Ma il problema non si pone: i gruppi organizzati di ultras casalinghi non hanno nessuna intenzione di cercare la provocazione, in campo tutto si è svolto nel più sportivo dei modi con abbracci e scambi di magliette finali, i perdenti hanno accettato la superiorità dei vincitori e di conseguenza fuori la folla si disperde senza particolari ostacoli. Gli ospiti si dirigono verso la stazione che è a pochi passi dallo stadio, i padroni di casa si dirigono ai baretti delle vie intorno dove continueranno a scolarsi birra e panini con le acciughe e stabilire un continuum con quanto avvenuto sulla curva fino a pochi minuti prima.

Ancora all’interno dell’area del cancelli si nota un folto crocchio di cameraman nel loro consueto inventarsi stratagemmi per togliersi la visuale l’un l’altro e guadagnarsi il punto migliore per le riprese. In mezzo alla scena, tutti gli obiettivi sono puntati su di lui, c’è un noto cantautore di quelli già sul viale del tramonto, famoso per i suoi pezzi strappalacrime che hanno attraversato almeno tre generazioni. È un tifoso sfegatato della squadra vincitrice nonché assiduo frequentatore delle tribune anche in caso di trasferta. Si sta rivolgendo a un gruppetto di ragazzini locali, probabilmente suoi fan oppure giovani attirati dal profumo della celebrità, anche quando è ormai evaporato del tutto. Uno di questi si fa avanti, si toglie la sciarpa della sua squadra e gliela offre in omaggio. Il cantautore la indossa, si rammarica di non averne una per contraccambiare il gesto e stringe la mano dei tifosi avversari. “Mi spiace, non meritavate di perdere oggi, avete giocato col cuore, si vedeva, non meritavate di perdere”. E si vede che sono parole sincere, continua a stringere la mano e a scusarsi per la vittoria della sua squadra. “Non lo meritavate”, continua, “il risultato perfetto sarebbe stato un pareggio”. La sua squadra, candidata allo scudetto, ha rifilato due gol a zero agli ospitanti che lentamente stanno scivolando verso le zone basse della classifica, l’anticamera della serie B. Ma il cantautore, ora ha persino gli occhi lucidi, continua a dare pacche sulla spalla e a tentare di offrire consolazione. I cameraman a uno a uno spengono la loro attrezzatura e si allontanano per raccogliere qualche altra testimonianza, entro poche ore ci saranno tutti i servizi da montare.

wilco the sailor man

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Il nuovo video di Wilco con Braccio di Ferro e tutto il suo entourage è carino, il pezzo lo conoscete, immagino, per cui su Dawned On Me non mi pronuncio, tanto non riuscirei a essere oggettivo.

ci ha reso liberi

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Il miglior contributo a questa giornata, per chi non ne fosse ancora provvisto, è trovare un modo a propria scelta per avere sempre tra le cose da fare il rivolgere un pensiero a quel sistema storico, non saprei come altro definirlo, in cui ci sta tutto quello che è successo nella prima metà del secolo scorso. Un post it, un nodo al fazzoletto, un qualcosa che appena lo vedi pensi per una manciata di secondi che non è così distante, ci separa solo qualche generazione da loro. C’è un passaggio del report di Levi che è alla base della nostra opinione sull’olocausto che costituisce il mio reminder quotidiano, e badate che non si tratta di un assillo, né di una fissazione, e non bollatemi come un maniaco depresso solo perché ci sono pensieri che più o meno ogni giorno mi balenano nella mente, è che ho trascorso un’infanzia in cui una parte di quel sistema storico era ancora un tema caldissimo, vivevamo la quotidianità ad appena trent’anni di distanza, e questa componente individuale di un processo di redenzione collettiva, paradossalmente redenzione verso le vittime ma anche nostro malgrado verso i carnefici, ha creato una sorta di palinsesto di argomenti di riflessione. E quando mi capita di preparare qualcosa da mettere sotto i denti per mia figlia ritrovo mentalmente le righe in cui l’autore di “Se questo è un uomo” racconta le madri che preparano la cena per i figli nei centri di raccolta consapevoli che la mattina dopo probabilmente andranno a morire, e si chiede che senso ha allestire con cura quell’ultimo pasto, quale ne sia l’utilità. E la voce narrante pone la domanda: voi non fareste lo stesso? Neghereste cibo ai figli affamati anche se fosse l’ultima cosa da fare? Lo strazio emotivo che ne deriva si smaltisce entro le mura della tiepida casa e tra i visi amici, nella tranquillità della libertà e dell’assenza di un rischio così disumano, nella certezza che questo è stato, e non dovrebbe accadere più. Fino a prova contraria.

dodici minuti

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Ogni volta sono costretto a ruotare la scatola su ogni lato, se è di cartoncino, o ancora peggio a palleggiarla se si tratta della confezione trasparente, e ogni volta penso che se fossi un product manager dedicato a quel tipo di articoli metterei quella che è l’informazione più importante a caratteri cubitali, più del nome che coincide con la tipologia che basta vedere dentro come sono fatti per capire di cosa si tratta. Poi se ne ho voglia può essere anche interessante avere più notizie sul loro processo di lavorazione, sì perché no, anche se potete essere i più fighi e i biologico-oriented del mondo che comunque la produzione industriale è – lo dice il nome stesso – l’antitesi di quella artigianale. Il che non costituisce un limite, anzi, è molto più facile tracciare la filiera e controllarne la qualità, magari meno genuina, ma difficilmente sofisticabile.

Poi trovo sempre il peso della confezione in evidenza, che ha un senso al momento dell’acquisto e lo capisco, se vuoi sopra ogni cosa vendere il prodotto punti tutto sul convincere un potenziale acquirente alla scelta. Il cliente che prende in mano l’articolo, cerca il prezzo sullo scaffale, lo mette nel carrello e lo va a pagare. Bravi, missione compiuta. Soldi che entrano, era questo il vostro obiettivo. Ma quello che succede dopo, a casa, che in altri settori di mercato è definito fase di post vendita ed è considerato un momento fondamentale del rapporto cliente-fornitore perché se non c’è assistenza o chi ha sborsato i soldi si trova in difficoltà, ha qualche problema, riscontra differenze tra quello che pensava di avere e quello che ha ottenuto, alla fine l’affare può sfumare. I tanto celebrati Service Level Agreement sono stati inventati mica per altro, e nel nostro caso parlare di metriche di servizio non è possibile, ma è quello a cui mi appellerei se potessi in questo momento, perché non riesco a trovare un dato fondamentale, quello di cui ho bisogno per portare a termine quello in cui mi sto cimentando che è un compito delicato da cui dipende la soddisfazione di tre persone questa sera, una moglie una figlia e una sua compagna di scuola che sono sedute alla tavola imbandita e stanno aspettando la cena e io che in piedi ai fornelli cerco disperatamente il tempo di cottura della pasta che ho già buttato in pentola e che è già un po’ che è sul fuoco.

Ma questa una delle mie più grandi difficoltà, più del riuscire a distinguere correttamente tra lavastoviglie e lavatrice quando voglio avvisare mia moglie che sto per attivare l’una o l’altra in modo che lei non accenda il forno facendo saltare il contatore, devo concentrarmi e pensare che se contiene piatti sporchi è l’una, se ha un oblò e l’altra. Così ho deciso di lanciare un appello ai grandi brand del food. Vi prego. Stampate più grande l’informazione sui minuti di cottura e costituite una associazione di categoria per stabilire alcune regole deontologiche come mettere sempre l’indicazione nello stesso punto, una guideline universale tale che io impari che quel numerino sta in alto a destra, faccio un esempio, e prima che la pasta scuocia lo leggo lì e salvo la serata. Grazie, ho finito.

dopolavoro

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Sarà stato l’effetto della scossa sismica di ieri se ti si è rovesciato tutto il lavoro addosso e adesso, anche oltre l’orario di ufficio, ce l’hai appiccicato sui vestiti, puzzi di riunione e di brief e si vede che non vedi l’ora di cambiarti, tornare a casa e metterti qualcosa di pulito e di comodo nel tuo appartamento che condividi con altri ragazzi come te che si chiederanno cosa è successo. Ma la giornata lavorativa non finisce con il suono di una sirena o un cartellino timbrato, queste cose si vedono oramai solo più nei film in bianco e nero, e quello strumento di comunicazione che ti segue ovunque, personale perché di tua proprietà anche se te lo hanno regalato mamma e papà per festeggiare il tuo primo impiego pardon, la tua prima collaborazione continuativa, quella mattonella con la plastica touch screen che ora tieni inclinata tra bocca a orecchio e alla quale stai rivolgendo una serie di giustificazioni in risposta all’accusa di un invio di formati di file sbagliati, è solo uno dei numerosi link che rimandano la tua vita privata a quella postazione che hai lasciato vuota poc’anzi, con il monitor in stand-by.

Ora, mentre dirigi parole a un dispositivo sproporzionato per la semplice funzionalità di trasferimento voce che dovrebbe assicurare, scruti il vuoto che hai davanti ma che vuoto non è, perché ci sono io e c’è un sacco di altra gente, ma tu hai eretto una barriera artificiale che vedi solo tu e che osservi sbigottito come se fosse un desktop virtuale sul quel stai cercando convulsamente la risposta giusta da dare a quell’interlocutore che è in grado di raggiungerti ovunque. Qui, tra un’ora a casa, magari stanotte mentre stai dormendo ti telefonerà per chiederti di risolvere il suo problema e tu dovrai riferire tutto domani al tuo responsabile, che c’è stato un problema di formati e di estensioni e di versioni differenti di programmi, ma se a malapena la chiamata personale ti sarà rimborsata dall’azienda che già ti sottopaga tutto il resto, il tuo essere quello che fai 24*7 giorni festivi inclusi non ti verrà mai restituito da nessuno, e l’aver consumato l’esistenza giorno per giorno a piccole ma sostanziali porzioni per colmare le difficoltà di bilancio altrui non diverrà mai una competenza riconosciuta ufficialmente in grado di fare curriculum, e al prossimo head hunter che ti esaminerà apparirà solo come una normale menomazione fisica di gravità insufficiente per autocertificarsi appartenente a una categoria protetta riconosciuta.

memori di Adriano

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Ma vi rendete conto di essere testimoni di una delle più grandi rivoluzioni culturali e sociali di tutti i tempi? Se avete all’incirca la mia età, potrete vantare ai posteri di aver assistito a evoluzioni storiche come il passaggio dalle cabine a gettoni all’iphone, dai televisori in bianco e nero ai Social Network, da Adriano Celentano a… Adriano Celentano. C’è qualcosa che non mi torna e che anzi, ecco cosa mi fa tornare in mente, la pubblicità che passava nelle radio locali di un noto negozio di abbigliamento, un messaggio che puntava tutto sulla tradizione: mio nonno vestiva da Mauri, mio padre vestiva da Mauri, io sono giovane e vesto da Mauri. Che nel nostro caso suonerebbe “a mio nonno veniva propinato Celentano in tv, a mio padre veniva propinato Celentano in tv, io sono giovane e devo subire Celentano in tv”.

E a dire la verità non ho capito bene che cosa sia successo perché, come direbbe Battiato – altro esempio di longevità – per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali di infotainment, ma se la notizia poi passa al telegiornale la cosa si fa seria e dobbiamo farcene una ragione. Pare che ci sia un tira e molla tra il Clan e la Rai sulla partecipazione del loro guru a Sanremo. E questa frase raccoglie un po’ tutto il fallimento di più di una generazione, individui apparentemente cresciuti grazie a una lingua, una religione, una educazione civica comune che in realtà non hanno nulla che li unisce di più di un tipo di sottocultura pop, ma non nel senso sano di popolare come La bella gigogin, per dire. No. Quel pop di dominio della gerontocrazia dello spettacolo nazionale che trova la sua catarsi nel Festival di Sanremo.

Quindi nell’anno di grazia 2012, Adriano Celentano si presenta di fronte a telecamere e giornalisti facendo le sue mosse da molleggiato, le stesse che faceva nei musicarelli che vedeva mio nonno classe 1904 al cinema. Celentano accolto dai fans che lo inondano di flash e di mani da stringere, come negli eventi itineranti tipo il Cantagiro, in uno scenario in cui si auspica la sua presenza in uno spettacolo già discutibile di per sé, il Festival, davanti al quale milioni di persone assisteranno al suo show che non ho idea di come potrà essere. Canterà una canzone, parlerà di temi ambientali come li vede lui, farà uno dei suoi rock’n’roll con l’inglese inventato tipo prisencolinensinainciusol di cui facevamo la parodia alle elementari con “presi in culo un etto di acciughe”. Si sa, eravamo piccoli ed era il 1974, posso contare sulla vostra comprensione.

Sembrerebbe che dalle nostre parti i bambini nascano già con Celentano nel DNA, un elemento genetico che viene trasmesso al momento del concepimento dai genitori ai figli, se siamo così in pochi a stupirci che sia naturalmente accettato come un dato di fatto l’esistenza stessa di Celentano in uno show business nazionale (se non l’esistenza di Celentano tout court), e che anche se crescendo non ne abbiamo sentito parlare se non marginalmente, perché abbiamo letto o ascoltato di tutto fuorché quel tipo di prodotto culturale, si pensa che Celentano sia una istituzione che si deve tirare in ballo necessariamente quando occorre fare una sintesi di quello che c’è di buono in Italia. Il Festival, chi lo dovrà presentare, chi saranno le vallette, l’ospite da pagare profumatamente e che ti fa fare il salto di qualità. Una metafora molto più calzante del naufragio del Costa Concordia.

fight club

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Impeccabile dal punto di vista narrativo, coinvolgente solo a tratti, alla terza o quarta scazzottata descritta nei minimi dettagli si inizia a voler entrare nella storia – il che potrebbe essere una qualità rara per un romanzo – e separare i bulli di turno coinvolti nella rissa. Perché non si può avere questa morbosità del cambiare i connotati al prossimo tutte le sere o ogni volta che si mette il naso fuori di casa con il rischio di farselo spaccare. Capisco che subire angherie e avere un padre così, anzi non avercelo proprio, possa acuire quel senso di strenua ricerca di un target contro cui far convogliare rabbia e frustrazione, ma la china oltre la redenzione potrebbe scattare un po’ prima per evitare il knock out che aleggia nell’aria. E poi, ragazzo mio, deciditi su quello che vuoi fare. Vuoi diventare un boxeur? Vuoi imparare il mestiere di barman? Vuoi essere uno studioso di scienze sociali? Vuoi diventare uno scrittore? La risposta è retorica quanto la domanda, visto l’argomento di cui sto scrivendo e trattandosi di un libro autobiografico, ma per giungere a questa conclusione tutte quelle pagine sono troppe e ricche in eccesso di piccole cellule narrative costruite sempre con la stessa architettura, tanto che alla fine crolla tutto e rimpiangi i bei tempi dei pugni in faccia.

il diavolo A4

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Tramontata l’era delle catene di divulgazione culturale tramite Power Point inviate via e-mail, roba che in confronto le rime di Max Pezzali sembrano estratti da opere di Kierkegaard, la palma dei repository della saggezza da cazzeggio in ufficio va ormai da tempo assegnata a Facebook, il vero tempio della creatività alla portata di tutti, la democratizzazione della battuta come aggregatore di reti umane. Una pillola filosofica piuttosto in voga che circola da qualche tempo in formato di fotografia a un foglio redatto in Comic Sans o giù di lì e appeso a una porta a vetri, riflessi inclusi, recita una inconfutabile verità che avrete almeno una volta nella vita letto, vista la sua diffusione trasversale tra tutte le tipologie di amici su FB: “tutti siamo utili, nessuno è indispensabile, ma onestamente qualcuno non serve a un cazzo”. E come dargli torto, a questo anonimo pensatore del ventunesimo secolo, che già solo per non aver utilizzato puntini di sospensione a sproposito costituisce comunque una piacevole eccezione.

Da qualche giorno la stampa di questa foto che ritrae un foglio appeso a una porta a vetri – scusate se ripeto di cosa si tratta ma è fondamentale per la comprensione del seguito – è appesa a una porta a pochi passi da me in una sorta di installazione tra il pop e il surrealista, tanto che sarebbe da fare una foto, stamparla e appenderla a un’altra porta e così via, per continuare all’infinito. Il dato inquietante è che la porta in questione, la seconda della catena qui sopra per intenderci, chiude o apre, seguendo l’indole pessimista o meno dell’osservatore, l’ufficio di due dei tre soci dell’agenzia in cui lavoro, i boss insomma. L’allegoria è evidente: lavoratori siate avvertiti, non solo il mondo è precario ma ci scherziamo pure su. E giustamente, mi vien da dire; come sosteneva un mio caro amico, non c’è nulla di sacro se non l’omonimo osso. Passando lì davanti si percepisce come un sussurro che invita ad avvicinare l’orecchio a quel foglio A4 stampato in bianco e nero: risorse umane, voi siete le colonne del nostro fatturato, ma attenzione perché siete caduchi come i denti da latte. Tornate a lavorare, e i fannulloni sono pregati di astenersi e di recarsi direttamente nella categoria più bassa della cinica quanto indispensabile classifica meritocratica interna.

Detto tra noi, a me quell’aforisma non fa ridere per niente. E ha anche amareggiato non pochi qui, che passano davanti e gettano un’occhiata per vedere se quel foglio stampato è ancora lì e poi, attestata la presenza, scappano via come per non farsi cogliere sul fatto. Qualcuno vedendoli potrebbe pensare che hanno la coscienza sporca, sono inutili e l’azienda dovrebbe lasciarli a casa per risanare le casse e così leggono di nascosto la loro diabolica condanna solo per esorcizzarla. Ma no, non dovete preoccuparvi, amici, è solo un file mandato in stampa, è solo suggestione, non siate giù di toner.