una volta eravamo guerrieri

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– Non c’è tempo, non c’è più tempo. Hai capito una buona volta? Non ho tempo.
La madre è al tracollo, la situazione è tesa. Il figlio sta rassettando la tavola, c’è puzza di fritto, la porta sul balcone spalancata per lasciare defluire l’aria ma è novembre e fa un freddo cane. Su Raiuno c’è la pubblicità di una berlina di lusso, al volante siete un uomo, un vincente, sullo sfondo una scogliera, sicuramente è un pezzo di oceano quello che si vede sotto.
– Non posso più farti da madre, hai capito? Ho ottant’anni e tu ne hai cinquanta. Non posso fare la mamma, sono troppo vecchia, dovrei essere già nonna, dovrei essere lasciata in pace. Non posso risolvere i tuoi problemi come quando mi chiamavano i tuoi professori a scuola. Non posso, lo capisci almeno questo? Voglio tirare i remi in barca.
C’è un altro televisore acceso, il marito è di là sul divano, ciuccia liquirizia con quello che gli rimane dei denti e segue un programma dedicato alle sagre locali. Funghi, castagne, prodotti di stagione. La guerra si combatte in cucina, di qua ci sono già le macerie. Ora la lavastoviglie è colma è può essere avviata, il figlio scrolla la tovaglia come ultima cosa fuori, le briciole cadono nel cortile. Poi soffia il filtro della caffettiera come fosse una cerbottana per eliminare la carica usata, come da bambino sparava le palline di stucco nelle interminabili battaglie all’oratorio, e fa centro nel sacco dell’umido anche questa sera.
– Vi preparo il caffè?

l’accento di lato

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Ho scritto un po’ con l’accento sulla o, è vero, non come lo vedete ora, perché chiunque usi un computer sa che si trovano le lettere già accentate e che per mettere l’accento di lato devi fare tre mosse con la mano molto poco pratiche quando si scrive in velocità. E così è valso per altri casi. Sarei stata ignorante se avessi scritto «un apostrofo po’» non come era evidente a chiunque non fosse animato da pregiudizi faziosi, l’aver messo accenti certamente fuori posto ma dettati dalla comodità delle nuove tecnologie. Chiunque possieda un iPad può provare in questo istante a scrivere «ne» con l’accento e si troverà un «ne apostrofato». Il resto sono refusi di stampa dovuti ai programmi dei computer che tutti coloro che li usano regolarmente sanno che correggono automaticamente gli scritti facendoti incappare in facili errori.

Esilarante, come il resto della vicenda, soprattutto nel tributo alla madre professoressa malata e alla memoria del padre. In sintesi: quando sento la parola cultura, faccio tre mosse con la mano sull’iPad.

la classe non è app

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Gli auricolari del distinto quarantenne che viaggia al mio fianco vibrano ed emettono rumori a un volume che già per l’ambiente è fastidioso, non oso immaginare per il suo apparato uditivo. Potrebbe essere un brano qualsiasi di una band industrial, ma no, è impossibile, il suo aspetto ordinario trasmetterebbe a chiunque ascolti deplorevoli (cit.). Così allungo l’occhio verso il display dello smartphone che tiene con le due mani, posizionato in orizzontale. Non si tratta di una playlist per iniziare la giornata con la giusta carica violenta e l’energia per demolire tutti gli avversari sul posto di lavoro, bensì uno di quei videogiochi ammazza-tutti, che ha lo stesso scopo della playlist da “all’arrembaggio” ma – diciamo – è un passatempo un po’ meno nobile. Lo vedo tutto concentrato a far esplodere cose e persone tramite pulsanti e ditate sul touch screen, l’audio è davvero irritante. Del mio stesso parere la signora davanti a noi, altrettanto elegante, che osserva l’eterno bambino dimenarsi e sfogare la rabbia virtuale contro nemici piccoli quanto il palmo della sua mano. Scuote la testa in un plateale giudizio tutt’altro che politically correct, come a condannare il modo inconcepibile con cui un adulto sceglie di perdere il proprio tempo, quindi torna a concentrarsi sul suo, di smartphone, e riprende a leggere i commenti al suo status di Facebook.

il nuovo dei radiohead?

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Mavalà, è il nuovo di Mariano Apicella con un po’ di fotoritocco. La copertina però stride con lo stile del menestrello alla corte dell’ex premier, e non sfigurerebbe nella discografia di un gruppo indie qualunque. Buon ascolto.

radici

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La comune provenienza è un buon argomento di discussione? Non durante un colloquio di lavoro se, come me, siete imbevuti di provincialismo fino alla punta dei capelli. Perché poi è inevitabile sondare le conoscenze, ed è chiaro che se siete entrambi di New York non verrà mai in mente a nessuno dei due di chiedere se l’altro conosce Jack o Stan. A New York ci abitano miliardi di persone.

Ma se il manager che vi sta esaminando è nato in quel paesino dove avete trascorso un periodo importante della vostra vita, vicino alla città in cui siete nati e dove vi recavate al sabato perché c’era quel locale che metteva la vostra musica preferita, e poi ci si andava a rimorchiare, e poi c’era anche il gruppo di amici, la congiunzione di eventi riposiziona su on quell’interruttore che la grande in città vi ha messo in stand-by.

In meno di un secondo la meeting room in cui chi vi sta selezionando, quello che potrebbe essere il vostro futuro capo, vi ha appena servito sotto gli occhi il suo biglietto da visita con quel cognome che lascia fugato ogni dubbio circa i suoi luoghi natii, quella stanza non ha più pareti e va fuori fuoco per lasciare spazio alla panchina sul lungomare di quasi trent’anni prima. E allora voi che non riuscite a trattenervi, nemmeno di fronte al tizio che ha pure le iniziali ricamate sulla camicia e sembra rinnegare origini che gli vanno strette come le punte delle scarpe che calza con orgoglio, gli buttate lì un “ma tu sei di Cogoleto?”

“Si”, risponde con disinvoltura il manager, ed è chiaro che avendo il vostro curriculum sotto il naso vi avrebbe potuto mettere subito al corrente del particolare, e se non lo ha fatto un motivo ci sarà, no? Ma vi va di fortuna che il manager in questione è meno rigido di altri, e smorza la tensione con l’inciso sul paesello, su come era allora, perché tra l’altro siete anche coetanei, e come è oggi.

Ma la débâcle è dietro l’angolo, quando è lui a stuzzicarvi chiedendovi di fare qualche nome, contando sulla conoscenza comune. Perché siete ingenui, e senza alcuna valutazione sulle conseguenze fate il nome di Luca P., con cui avete trascorso nottate inenarrabili. “Ah Luca? Ma è mio cugino!” incalza lui, un sorriso che si spalanca qualche secondo, uno sguardo di intesa che poi si spegne subito, contemporaneamente al vostro, e gli occhi, i suoi, tornano sulle vostre esperienze professionali stampate in un A4.

Luca era un noto pusher, si è fatto anche un paio di giorni dentro, ed è chiaro che l’empatia tra voi e il vostro ex potenziale nuovo capo non può basarsi su trascorsi così torbidi. Anche se sarebbe stato peggio scoprire di aver condiviso la stessa ragazza in una storia d’amore importante per entrambi. Magari pure contemporaneamente. Chissà.

è permesso?

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Basta uscire di casa due ore dopo e cambia tutto, è il sole alto che ti fa sentire improduttivo, probabilmente si tratta di un retaggio culturale. È sufficiente tornare indietro di pochi decenni, quando alle dieci e trenta uomini e donne erano già nei campi da un pezzo, insomma gli odori forti della nostra storia sono ancora nell’aria, non è difficile riuscire a distinguerli dal resto. Ci si chiede chi sia però tutta questa gente a spasso in orario di ufficio. Disoccupati? Rappresentanti? Ausiliari del traffico in incognito? Quelli che lavorano li riconosci subito. I consulenti camminano di fretta con la borsa del pc a tracolla, stanno andando dal cliente. Le badanti è più facile, hanno anziani claudicanti e ripiegati sulla loro cassa toracica aggrappati al gomito, col bastone e il loden e il cappello, quando non spingono le carrozzelle e sussurrano parole in linguaggi sconosciuti ai casi terminali che portano a spasso, ma a loro interessa solo guardarsi intorno e preferirebbero farlo in silenzio. Poi ci sono quelli che fanno le consegne, con le quattro frecce sfidano vigili e automobilisti indignati, caricano e scaricano e hanno aree di sosta dedicate e ambitissime. Fuori concorso i pensionati con le borse della spesa in mano, anche loro sono autorizzati a transitare in questa sorta di coprifuoco sociale grazie al lasciapassare che gli è stato fornito. Perché poi ci sono quelli che hanno avuto un imprevisto e si stanno recando al lavoro a metà mattinata. Questi individui invece il lasciapassare non ce l’hanno. Sono i veri clandestini e si muovono guardinghi e a disagio, la luce è diversa, la gente è diversa, i luoghi solitamente assiepati dalla calca nelle ore di punta sono deserti. Non hanno alcun certificato che attesti il loro diritto di entrare dopo. Soli, sui vagoni della metro, fanno gli gnorri ma sudano freddo per la paura di un controllo, chissà qual è la punizione per le due ore e mezza di produttività negata all’economia globale. Ma anche oggi tutto fila liscio, ai tornelli passano inosservati e, giunti in superficie, si affrettano verso il posto di lavoro. Cercano di non dare nell’occhio e si precipitano alla scrivania. Accendono il pc. Tutto è ancora come prima.

la misura conta

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È solo perché è bastato un attimo e otto anni sono volati, puff, forse davvero hanno ragione quelli che giustificano la percezione del tempo dicendo che in realtà l’universo non si espande ma si restringe, le distanze relative si accorciano e ogni unità temporale, per esempio il minuto, dura sempre di meno ma noi non ce ne accorgiamo perché anche i mesi e gli anni sono sensibili allo stesso processo. Una percezione che riguarda anche le distanze se tutto si restringe. Cioè, tra casa mia e l’ufficio ci sono sempre dieci chilometri ma sono meno di dieci chilometri rispetto alla stessa misura di ieri, solo che non me ne accorgo perché nel frattempo si è ridotta anche l’ampiezza della mia falcata, la lunghezza del vagone del passante e così via, ci siamo capiti.

Ma io ho la prova per smascherare questa truffa degna della fine del mondo dei Maya. Come? Semplice. Prendo un pezzo che so per certo essere stato registrato a un determinato bpm. Per esempio “Enjoy the silence” che è stato inciso a 113 bpm nel 1990, e lo so perché ho ancora una base midi che avevo realizzato allora (ed è scritto anche qui). Metto su Violator oggi a 21 anni di distanza e il pezzo suona allo stesso tempo di allora. Cioè l’Enjoy the silence di allora dovrebbe suonare più lento, e non venitemi a dire che anche il piatto del giradischi gira più velocemente perché non è vero, in quanto in tal caso dovrebbe influire sul pitch del brano che invece resta invariato, cioè con un supporto analogico e accelerando l’esecuzione il brano dovrebbe sentirsi in un tono più acuto no? A meno di non assistere a un prodigio fanta-ingegneristico di resampling con intonazione automatica.

Ma questo non è un film e il mondo reale non ha l’estensione di un file Cubase. E gli otto anni sono davvero svaniti ma io me l’aspettavo e oltre ad aver documentato più che ho potuto l’evento, cioè la sua vita (avete capito di chi sto parlando) come potete immaginare, sono sempre lì a organizzare ogni mia attività a seconda del suo tempo libero. Per esempio il martedì dopo l’ufficio vado a fare un po’ di attività fisica, così stamattina accompagnandola a scuola le ho fatto notare che il martedì è una giornata lunga per entrambi. Io ho ginnastica, lei pallavolo nel tardo pomeriggio, e fino alle 19.30 non ci possiamo rivedere, proprio così le ho detto. E dopo, quando è suonata la campanella e con il nugolo di amichette è scattata verso l’ingresso, si è girata e mi è corsa incontro per darmi un bacino, “allora ci vediamo alle 19.30”, mi ha ricordato. Sì cara, e per accelerare ancora di più il tempo in cui staremo separati tenterò uno stretch a 180 bpm della giornata lavorativa (praticamente un djset drum’n’bass).

old media

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Sono entrato nel mondo di quella che allora si chiamava editoria digitale dalla porta di servizio, quella dei programmatori. Internet non era così importante come la multimedialità offline, i cd rom per intenderci, la posta elettronica si scaricava un paio di volte al giorno a meno di urgenze, ma ci si avvisava prima per telefono dell’invio di qualcosa. Ho trascorso almeno cinque anni a scrivere righe di codice, la faccia inebetita e rischiarata dai monitor a 256 colori, l’autoironia proverbiale, perché assente, degli ingegneri. Purtroppo i posti per gli esperti di contenuti erano tutti pieni già allora, perché erano già tutti presi dal personale in esubero dell’editoria tradizionale. Ho dovuto quindi attendere che le figure intermedie, gli esperti di contenuti ottimizzati per i new media, acquistassero credito e attendibilità. In quel periodo ho fatto di tutto: software per giochini didattici per le scuole elementari e calendari interattivi soft porno di uomini svestiti, un ipertesto di storia per le superiori e persino la versione multimediale di un noto dizionario. Ma programmare è uno di quei lavori che ti brucia il cervello, e nella sfortuna di una società che stava affondando trascinata dagli scarichi della bolla esplosa a fine millennio scorso ho avuto l’opportunità finalmente di tornare a scrivere in una nuova agenzia ottenendo, con il tempo e la pratica, lo status di copywriter. Troppo tardi, perché già si stava traslocando tutto sul web duepuntozero. E vabbè, nessun problema, faccio anche quello. Ora, una delle cose che mi ossessiona di più è immaginare me a 65 anni ancora qui a fare il creativo, a pensare titoli, trovare le parole giuste, essere sempre acuto e pronto sui socialcosi, ottenere interviste, scrivere articoli, produrre video corporate, adattarmi all’ennesima piattaforma su cui il mercato si sposta. Colleghi, compagni (si fa per dire), lavoratori: avremo ancora lucidità sufficiente per tutto questo? (ammesso che esista ancora una economia).

un blog è per sempre

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La maniera più efficace per tenere la mente allenata, così le ha detto il dottore, è tenere un diario. Provi a scrivere la storia della sua vita e, allo stesso tempo annotare come ha trascorso la giornata, questo farà bene sia alla memoria breve che a quella storica. Inoltre potrà lasciare una consistente parte di sé ai suoi figli e nipoti. Così, a ottant’anni, si è messa china sullo scrittoio, penna e fogli bianchi, e ha iniziato a ripercorrere tutta la sua vita, una storia lunga e anche originale se filtrata con gli occhi del presente. È stata, a volte suo malgrado, protagonista di alcune traversie forse piuttosto comuni all’epoca e che oggi, nel villaggio globale fatto di sabati al centro commerciale e di donzellette use alla città, sembrano curiosamente fuori moda. Storie di altri tempi, quelle che popolano la letteratura italiana della metà del secolo scorso, un’Italia tra il rurale e l’urbanizzazione, incerta nella direzione da prendere.

Ma il genero di questa arzilla signora, uno di quei tipi over quaranta che smanetta tutto il giorno su Internet, ha un consumo compulsivo di socialcosi ed è tanto malato di presenzialismo online che sbandiera tutto quel che gli pare sul suo blog, vuole convincerla a scrivere le memorie direttamente sul computer, anziché a mano. La suocera possiede e sa usare il pc, naviga anche sul web, quindi perché non farlo direttamente in digitale? Perché non condividere le informazioni direttamente su wordpress, o fare un tumblr? Insomma, la partita è ancora aperta perché i contenuti sono realmente densi, e così potrebbe essere che, un giorno di questi, il genero convinca la suocera a sfidare i tempestosi mari del duepuntozero. O tempora, o mores. Scegliete voi.

turn it on again

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La cantante e il chitarrista di quel gruppo pop con cui avevo fatto un paio di prove ma la cosa non è andata in porto, tuttavia siamo rimasti in contatto, mi stanno raccontando delle difficoltà della lavorazione del secondo album, che vanno dal mantenere il livello del primo al fatto che un esordio può raccogliere tutto il materiale composto in anni e anni di impegno e gavetta, il secondo invece conterrà quello realizzato – magari forzosamente sancito da un vincolo contrattuale – entro un lasso di tempo piuttosto ridotto, anche se ormai sono passati tre anni da quel primo singolo che si era candidato a tormentone dell’estate. Ma, torno a ribadire, fare musica in Italia è quasi più difficile che sconfiggere l’evasione fiscale, e conciliare lavoro con la passione, gli impegni, le teste e i costi associati a un gruppo non è certo una passeggiata. Dicevo, loro sono seduti davanti a me mentre me ne sto sdraiato scomodamente su un sedile in legno di quei vagoni ferroviari che viaggiavano ancora una ventina d’anni fa, quelli che un po’ tutti chiamavamo i vagoni del far west con il riscaldamento sotto che se appoggiavi le scarpe di gomma correvi il rischio di sciogliertele e, una volta in stazione, ti toccava camminare con la pianta dei piedi al posto delle suole come nelle comiche. E non riescono a distrarmi che per poco, perché mi basta sfiorare il fucile che tengo pronto al mio fianco che mi ricordo di essere in viaggio verso il fronte, non so di quale guerra e contro quali nemici, così mi sovviene che potrei anche morire ucciso in combattimento e non tornare più indietro a casa. Che tristezza, vero? Ma capisco che sto sognando, perché non c’è guerra da combattere malgrado indossi la mimetica e gli anfibi. E i due amici seduti sulla panca davanti a me hanno le stesse facce e la posa della foto che si vede sul profilo Facebook, con quell’espressione e quel look troppo “civile”, quasi new wave, per essere reale in un periodo di stenti come quello bellico o in uno tamarro come gli anni dieci. Che ridere. Mi sveglio e sono le cinque del mattino, ho un gatto sul petto che mi lecca la barba perché ha fame ed è lunedì. Ok, iniziamo.