che rivela saggezza ed equilibrio di giudizio come quelli dell’antico re ebraico Salomone

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– Signora, la smetta però di urlare così, esclama seccata la cassiera. – Là c’è il direttore, vada a lamentarsi con lui.
– Io urlo perché mi ha detto che sono una bugiarda, incalza la cliente, una sciura sui settanta dai capelli bianchi con riflessi viola.
– Cosa le ho detto io? È impossibile che li ha presi da noi quei bollini lì, signora, non è una raccolta che facciamo noi.
– Ma secondo lei sarei scesa fino a qui se non sapessi che me li avete dati voi? Ho fatto la spesa sabato mattina.
– Signora, sabato mattina avrà fatto la spesa ma nessuna cassiera può averle dato quei bollini lì.
– Non sono una bugiarda!
Ed ecco che arriva il direttore con il suo bell’auricolare metallizzato piazzato nell’orecchio, interrompe una chiamata e si mette immediatamente al servizio della causa.
– Signora buongiorno, dica pure a me. Anzi, mi faccia dare un’occhiata ai bollini, la rassicura il diretùr.
– Sono scesa apposta per avere la mia padella, altrimenti me ne sarei rimasta a casa.
È sufficiente un’occhiata veloce, il logo della concorrenza presente sui bollini non lascia dubbi. Anche la cassiera li nota e solo un’occhiata severa del suo superiore la ferma prima di cazziare la cliente sbadata che le ha fatto perdere un mucchio di tempo. L’ora è quella di punta, le casse sono gremite di acquirenti che sfruttano la pausa pranzo per la spesa o, come me, si approvvigionano lì per i pasti in ufficio.
– Avete ragione entrambe, perché sono bollini nostri ma sono scaduti proprio la settimana scorsa. Probabilmente la cassiera non se ne è accorta. Linda, per cortesia, cambia i bollini alla signora.
Il direttore strizza l’occhiolino alla cassiera a fianco, chiedere una cortesia alla ragazza coinvolta nel battibecco sarebbe sconveniente. La sciura afferra con il piglio di chi ha vinto una battaglia per la sopravvivenza i suoi nuovi bollini e, uno ad uno, li attacca alla scheda di raccolta, e mentre intorno il flusso riprende regolare, si avvia al banco di assistenza per ritirare la sua padella antiaderente nuova.

formazione permanente

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Si insegna così, ai bambini, ad andare in bici quando non imparano da soli. Se sono piccoli, molto piccoli, è difficile che apprendano in autonomia. Quindi occorre stare dietro di loro, una mano sul manubrio l’altra sulla spalla, di corsa per far prendere loro velocità. A me è successo quando mia figlia aveva quasi cinque anni, la bicicletta bassissima e io a dovermi piegare a terra dal mio metro e ottantasei. Avanti e indietro in una stradina al sicuro, avanti e indietro senza sosta, ma in un paio di giorni i bambini imparano. Fare i nodi invece è un’attività meno divertente, per loro e per noi. Non ha il fascino della vertigine dell’equilibrio, come pedalare. Poi occorre avere la mano già salda, e lì l’età non c’entra, io non ce l’ho a quarantaquattro anni senza contare che, nel caso dei lacci delle scarpe, l’esempio occorre mostrarlo specularmente. E per i grandi è molto, molto complesso. Ho imparato a leggere al contrario per raccontare i libri con la pagina e le illustrazioni rivolte a lei quando non potevo tenermela in braccio e leggere normalmente. Ma per insegnare ad allacciare le Clark tarocche misura 32, dove l’occhio c’entra marginalmente ma occorre la manualità, sono nel panico. Provo davanti, passo dopo passo, ma il risultato non è granché. Mi metto alle sue spalle e inizia la lezione, lei si annoia e io non vi dico, mi perdo in un bicchiere d’acqua. E cerco di ricordarmi come ho fatto io ad apprendere questa tecnica aliena ma chiedo troppo. Per oggi mettiamo ancora le scarpe con la chiusura in velcro, prima devo imparare a insegnare.

emanazione di sé

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Tutti noi qui abbiamo il sospetto che il nostro capo ami il turn over del personale solo per avere intorno nuovi collaboratori. Ma la sostituzione di materiale umano avariato o difettoso con carne fresca ed entusiasta, sempre meno senior e sempre più a basso costo, ha un obiettivo che non consiste nella riduzione delle spese, nel portare nuova linfa creativa in un mercato sempre più autoreferenziale o nell’investimento in individualità pronte a portare quel qualcosa in grado di concretizzarsi in vantaggio competitivo e farci guadagnare di più. No. Il recruitment viene fatto unicamente per quell’impagabile primo giorno di lavoro della nuova risorsa in cui il capo può interpretare la parte di se stesso nella messa in scena de “il pippotto”.

Il pippotto consiste in una pièce in atto unico, massimo due se inizia a ridosso dell’ora di pranzo, il cui il capo concentra la storia dell’agenzia, come si lavora qui, l’organigramma e relative funzioni, il clima, i processi, le risorse e gli strumenti. Quindi passa alla storia delle aziende clienti, la struttura del principale cliente che, trattandosi di un colosso multinazionale, non lo si può certo liquidare in un poche parole. Quindi la descrizione dei processi produttivi, la struttura marketing e communications, comunicazione esterna e interna, la terminologia da utilizzare per la localizzazione del materiale dall’inglese all’italiano. A questa prima sessione dalla durata variabile segue la raccolta della bibliografia a supporto. Brochure, guideline, materiale utile a precipitare senza tanti complimenti nel vivo della produzione. La bibliografia comprende inoltre contenuti utili allo svolgimento dell’attività della nuova risorsa, i vari manuali del nomelavoroqualsiasi, l’agenzia è provvista di una nutrita biblioteca tutta rigorosamente datata e obsoleta. Dopo la full immersion il nuovo acquisto è pronto per il secondo giorno di lavoro e può in autonomia dedicarsi all’attività per la quale è stato contattato, ovvero fare di tutto, indipendentemente dal suo profilo. Sempre che si presenti la mattina dopo.

la storia, e che sarà mai

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non me ne parlare

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Giusto per chiudere il cerchio sulle complesse dinamiche famigliari nel caso in cui tutti i componenti hanno un’età compresa tra i quaranta circa e gli ottanta o giù di lì, è significativo sottolineare l’idea che gli anziani genitori hanno dei figli adulti e quali ricordi portano con sé del loro vissuto. La componente materna tradizionalmente si sofferma spesso sul periodo tra i zero e i dieci anni. Tutto il resto della vita, magari anche fatto di successi e soddisfazioni personali e professionali giace invece in una memoria back-up raramente consultata, il che induce a pensare che i suddetti successi e soddisfazioni personali e professionali in realtà abbiano un misero valore relativo. La componente paterna, invece, specie se tende a quell’esplosivo mix di umore nero (giustamente) causato da età avanzata e depressione più o meno latente, conserva con sé pronti da sfoggiare a ogni incontro con i figli – occasioni in cui, essendo rade e tenendo conto che la memoria non è più brillante come un tempo, facilmente si tende a ripetere sempre le stesse cose – quei due o tre aneddoti fortemente imbarazzanti per la controparte. Cioè capita che sei lì a cena e così d’emblée ecco che senti tuo padre raccontare di quella o quell’altra volta che e così via. Ora è piuttosto naturale avere commesso errori nella propria vita e avere cose di cui vergognarsi, pochi sono immuni dalla normalità, ma diciamo che in quattro decenni e rotti di esistenza argomenti inediti di discussione possono essere facilmente rinvenuti. Così uno inizia da capo ogni volta con lo stesso spirito positivo e i buoni sentimenti fino a quel momento di rottura: rottura dell’armonia, rottura di coglioni.

tanto di cappello

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Provo un pizzico di invidia, lo ammetto, per quella coppia di padre e figlio che sosta davanti all’ingresso della scuola elementare ogni mattina, come me, prima del suono della campanella. Il padre si riconosce perché, da quando è arrivata la brutta stagione, indossa un modello di coppola all’inglese di cui mi sfugge il nome, la stessa che usa Andy Capp, per farvi capire. Nell’insieme non ha propriamente uno stile inglese, sfoggia solo quel berretto che lo distingue dagli altri genitori. Poi anche il figlio ha iniziato a indossarne una identica, stesso colore, solo di taglia diversa. E si assomigliano molto padre e figlio, hanno gli stessi lineamenti un po’ albionici, in effetti, pallidi e rossicci. Vestono lo stesso cappello e sono molto teneri. E sapete perché li invidio? Perché hanno un tratto distintivo che mostra il loro legame, sembrano uno la piccola copia dell’altro. Ora a me non piacerebbe di certo che mia figlia sembrasse la mia versione in miniatura, non sopporto questo genere di leziosità nell’abbigliamento. E poi io vesto tutto di blu scuro con il loden, per esempio, look inadatto per una bimba. Ma io e lei, sono certo, siamo altrettanto uniti. Quando ci avviamo per il vialetto della scuola, per farvi un esempio, ci divertiamo a parlare di insetti, di quella volta in cui mi sono preso una zecca in un bosco e lei mi assilla perché vuole tutti i particolari. O passando per strada nei pressi di un cartellone pubblicitario, quelli appesi ai pali sul marciapiede, io vado da una parte, lei dall’altra e insieme ci facciamo “bù!” quando lo superiamo e ci ricongiungiamo. Sostiamo insieme nella calca mattutina e se non ci sono le amiche del cuore sono io a tenerla per mano. Questo e tanti altri particolari sono il segno di quanto siamo legatissimi, ci mancherebbe, siamo padre e figlia. Ma gli altri lo noteranno come io noto i copricapi altrui? Non vi nascondo che mi piacerebbe avere un indumento comune, un accessorio, un vessillo, una qualsiasi in grado di indicarlo a tutti. Un led luminoso, con una freccia rivolta verso di noi e un testo a scorrimento:  io e questa bambina, questa bambina ed io, siamo più o meno la stessa cosa a trentasei anni di differenza.

generazione vincente

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società liquida

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L’evoluzione della civiltà non è da mettere in dubbio, se non altro per l’invenzione degli strumenti volti a porre rimedio a necessità contingenti. Problema: all’umanità occorre un riparo mobile della pioggia, per evitare di camminare sotto i tetti e passare attraverso spazi aperti con disinvoltura. Soluzione: ecco l’ombrello. Questo ci differenzia dagli animali. E sempre in tema di maltempo, non bagnarsi i piedi nell’acqua piovana è altresì importante, per questo l’uomo ha inventato le scarpe in materiale idrorepellente. Ora, non è per fare quello che si stava sempre meglio prima, ma un tempo l’asset calzaturiero base in dotazione alle middle class era composto dalla scarpa da bel tempo e da quella da pioggia, laddove quest’ultimo articolo era disponibile sul mercato in una gamma comprendente dai modelli più spartani come le galosce o gli stivali in gomma alle scarpe più eleganti o anche di tendenza, come i Dr. Martens. O le polacchine in pelle. Tutto infatti va bene in caso di pioggia, non certo le scarpe di tela. Perché è proprio qui che, partendo dagli uomini primitivi, voglio arrivare. Benedetti giovani d’oggi che indossate le All Star sempre, con il sole e con l’acqua, in estate e in inverno, con il caldo e con il freddo. Quando piove così tanto non sono proprio adatte. Trascorrere una giornata intera con i piedi a mollo nelle scarpe da tennis inzuppate riduce enormemente la qualità della vita.

in armonia

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Oggi parleremo delle principali deformazioni professionali del musicista, anche se il musicista non è professionista, e mi permetto di aggiungere: quando il musicista è professionista e quando non lo è, dato che nella classifica delle posizioni retribuite più difficilmente raggiungibili il musicista professionista che campa solo di quello che vuole suonare è secondo solo al mestiere del Papa (senza accento, sì intendo proprio quello vestito di bianco che vive al Vaticano). Voglio dire, il musicista può essere professionale anche da semiprofessionista o da dilettante, e siccome è un’attività che quando la si esercita essa si impossessa della natura dell’individuo, è facile che l’individuo si comporti da musicista anche non necessariamente collegato a un impianto, o a un ampli, con uno strumento a tracolla o un microfono in mano. Insomma, ci siamo capiti.

Dicevo? Ah, si, tra le principali deformazioni professionali del musicista c’è quella dell’andare a tempo. Chiaro che ci sono i musicisti che non vanno a tempo nemmeno mentre suonano, ma questo è un altro paio di maniche. Quello che intendo io è cercare di andare a tempo sempre. Tralascio le situazioni che i più maliziosi di voi si staranno figurando e vengo al punto con qualche esempio. Autoradio a palla, macchina lanciata in autostrada. Si passa su un viadotto o in un qualsiasi punto in cui il manto stradale comprende giunti che, al passaggio dei pneumatici, generano un sobbalzo o un semplice rumore in due tempi (ruote anteriori e ruote posteriori, tu-tun). Il musicista facilmente rallenta o accelera, indipendentemente dalle condizioni del traffico, affinché il tu-tun sia perfettamente a tempo con il bpm della canzone in ascolto. Accade anche con le frecce, in quel caso sarebbe però necessario intervenire con un quantize del tic-tac almeno in sedicesimi, il synch non è modificabile con l’intervento dell’autista. Al massimo si può togliere e rimettere la freccia, un po’ come fa il dj quando per entrare al meglio con un pezzo da mixare a quello in quel momento sul piatto alza e abbassa il volume del canale interessato. Inutile affrontare il discorso della musica di sottofondo in situazioni qualsiasi della giornata, quando si è a spasso, con un carrello alla mano durante la spesa o impegnati in una qualsiasi attività domestica. Il musicista cerca di far coincidere un movimento forte con il battere e quello meno forte con il levare, per esempio si agguanta la caffettiera sull’uno, la si svita sul due, la si posa sul tre, ci si china sul quattro. Poi si apre lo sportello dell’umido sull’uno, si soffia nel filtro sul due, lo si batte ritmicamente sul bordo del contenitore secondo le proprie capacità tecniche sul resto della misura. Due battute da quattro quarti e la caffettiera è pronta per essere riempita.

A meno di non rendere partecipe platealmente il prossimo con questi piccoli dettagli maniacali, nessuno generalmente se ne accorge e la vostra reputazione è al sicuro. Ma c’è una deformazione più pericolosa per la salvaguardia dei rapporti interpersonali del musicista, e vi assicuro che si tratta di un’abitudine talmente diabolica e nefasta che è impossibile da trattenere. Il suo nome è armonizzazione e si manifesta tramite il canto. Già questo particolare è sufficiente a farvi capire la gravità: non tutti sono intonati, non tutti hanno una voce gradevole, non tutti sanno armonizzare, non tutte le canzoni sono armonizzabili, il gradimento degli intervalli armonici è soggetto alla cultura e al vissuto sonoro, diverso da persona a persona. Pensate per esempio alle misteriose voci bulgare, capaci di armonizzare con una seconda voce a un intervallo di semitono, cosa che suona ostica all’orecchio occidentale. Ma senza tirare in ballo fenomeni limite, non a tutti piace sentire una persona a fianco raddoppiare costantemente le melodie più celebri con terze, quinte e settime aumentate soprattutto quando nella canzone oggetto dell’armonizzazione seconde e terze voci non sono state contemplate. Per esempio, con un pezzo dei Beatles, che già contiene coretti e uacciuuariuari in tutte le salse, non è difficile mascherarsi da George Harrison e infilarsi tra i passaggi melodici. In altri casi è facile essere sgamati in pieno. Come sei stonato, come canti male, ti dicono in coro (non armonizzato) gli astanti. Una coltellata in pieno petto per te che ti stai arrampicando su una difficile modulazione per arrivare tramite sostituzioni acrobatiche alla sesta sotto della tonalità perché la terza sarebbe troppo alta e non ti piace cantare in falsetto. Ma il musicista sa meglio di chiunque altro che ogni brano, ogni linea melodica è sempre e comunque armonizzabile, la musica è stata inventata per quello, non ci si ferma alla critica del primo incompetente che passa. La polifonia vince sempre, come l’amore: chi vi minaccia di divorzio non andrà fino in fondo.

un pianeta terra terra

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Sabato più pioggia uguale centro commerciale. Non fa una piega, e sono in molti a non farla. Come si usa dire, la crisi non c’è perché mangiano tutti da Spizzico. Sarà.

Il centro commerciale in questione una volta era il Gigantesco Supermercato in mezzo a una galleria di negozi, i soliti brand che resistono perché con la loro solidità economica che si chiama franchising sono gli unici a potersi permettere l’affitto dei muri. In quel Gigantesco Supermercato, nel cuore del centro commerciale, fino a qualche tempo fa era messo tutto alla rinfusa, essendo talmente grande da rendere vano un modo strutturato e intelligente per guidare il visitatore lontano dalle sue necessità segnate a matita su un post-it e vicino alle offerte di tutto quello che non avrebbe mai voluto comprare ma che poi alla fine si ritrova nel carrello. Su questo, lo sapete meglio di me, ci sono studi e strategie mica da ridere. Così si sono inventati la formula Planet, che consiste nell’aver reso il Gigantesco Supermercato un vero e proprio sistema di consumo, il pianeta acquisti su cui si atterra dopo aver sorvolato i negozi satellite intorno e i vari spazi di ristoro. Dentro, ora colpisce il perfetto ordine, l’estetica ammiccante del restyle, il corpo perfetto di una creatura feroce quanto disciplinata composta di tutti i prodotti, tutte le scatole, tutti i barattoli ognuno nel proprio spazio dedicato. Congegni vitali che rendono l’esperienza del visitatore un viaggio allucinante nell’organismo di un essere vivente spietato e pronto a digerirti per poi espellerti, scontrino alla mano.

Nella apparente calma delle funzioni involontarie, la respirazione nel reparto alimentari, il battito cardiaco al banco gastronomia con il continuo bip bip del display che aggiorna di una unità alla volta il turno di chi deve essere servito, ecco l’apparato riproduttivo che è quello che attira di più l’utenza maschile e giovane: elettronica informatica e videogiochi. Un percorso segnato in rosso tra gli scaffali conduce a un salottino, due poltrone di fronte a una playstation con tv lcd. Due ragazzini obesi, conciati alla moda e con i capelli passati alla piastra, stanno giocando a sparare e uccidere persone finte, dentro lo schermo a non so quanti pollici tanto che assassino e cadavere sono in scala di poco inferiore all’1:1. La grafica è impressionante, sembra un film. L’audio è in qualità perfetta: dialoghi, colonna sonora e i colpi di pistola risuonano tutto intorno. Dietro, la fila dei curiosi che vogliono provare.