una qualche radicale trasformazione dell’umanità in senso spirituale

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Mentre da oltre due giorni intorno alle violenze di Londra si incrociano commenti severi e indignati con tentativi di spiegazioni sociali – e la morte di Mark Duggan si è ormai persa sullo sfondo – lunedì sera tra le molte immagini di quello che sta avvenendo qualcuno ha messo YouTube questo video di un ragazzino, ferito o in difficoltà, a cui un giovane incappucciato grosso il triplo di lui ruba dallo zainetto col concorso di diversi altri giovani mascherati e incappucciati.

L’articolo e il video sono su Il post. Il mondo che gira al contrario. Ecco, forse i Maya si riferivano a questo.

fa novanta

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La prima volta è stato con un film comico in bianco e nero, quelli con Stanlio e Ollio, o Cric e Croc secondo il lessico famigliare. Uno dei due faceva il bagno nella vasca, l’altro ha tolto il tappo ed è stato inghiottito dal buco dello scarico, insieme all’acqua. Una specie di evoluzione del noto proverbio dei bambini e l’acqua sporca, ma qui c’è il paradosso delle dimensioni e guai a mostrare un paradosso a un bambino. Paure da grande e piccolo schermo, come quella nata a seguito della visione de Lo squalo. C’erano svariate possibilità che un esemplare gigantesco, catturato nel mediterraneo e trasportato tramite TIR per le strade della città, proprio sotto casa avesse uno scatto di sopravvivenza, gli stessi che hanno i pesci nei secchi senz’acqua, e saltasse fino al quinto piano sfondando le finestre e atterrando sul letto fino a mangiare il bambino che al buio non riusciva a chiudere occhio. O ancora il liquido nero con cui gli extraterrestri riempivano i caschi dei militari della Shado, un’agonia che poi è tornata in auge con il video di No surprises, per fortuna era almeno trasparente e non caffé e dava l’idea di essere più friendly. Mai mettere la testa in un casco. Ma la peggiore di tutte era l’annunciatrice RAI che ti si rivolgeva direttamente, roba degna di Cronenberg e del suo Videodrome, passando da un generico voi punto-multipunto a un diretto tu punto-punto. In confronto la foto di Mario Tuti al telegiornale era tutto relax. Già, anche le ansie generate dal momento storico politico. Per esempio la paura che qualcuno entrasse in casa e ti rapisse, o una bomba nel portone, o un semplice incendio dovuto a uno scontro tra manifestanti e polizia sotto casa.

Nel tempo le paure poi diventano più specifiche e contestualizzate all’individuo. La paura dello scontro fisico, quella del rifiuto dei pari e del non piacere a chi ti piace. Farsi del male. Ma gli strumenti a disposizione sono maggiori, l’equilibrio diventa più strutturato. Tanto da permetterti di attraversare la fase del senso di invincibilità fin troppo da spavaldo, e atterrare poi alla maturità e alla razionalità indenne e sufficientemente intelligente da tornare alle paure da irrazionale. Il terremoto, il viaggio in aereo, i luoghi alti e aperti e gli aerei che ti si vengono a schiantare contro, gli oggetti che cadono dalla nave in mare, o cose più serie come le malattie e la morte, propria e altrui. Per non parlare delle paure nate con la genitorialità, lì persiste un intero campionario destinato purtroppo ad aumentare con la crescita dei figli. Inutile ricordare come si definisce il rapporto tra i problemi e la loro età. Oppure la paura di parlare delle proprie paure in prima persona in un post. Ma, tra tutte, la paura più grande è ancora una. Dire di no, vedere lo sgomento altrui di fronte al rifiuto di qualcosa, soffocare l’entusiasmo di una proposta, non accontentare un desiderio, usando se stessi come transfert della delusione altrui. No. Due fucking lettere appaiate, spesso accompagnate a un movimento oscillatorio del capo che, malgrado i progressi della tecnologia, risultano essere ancora una delle armi anti-uomo più comuni. No. E non esistono poligoni di pratica della negazione per esercitarsi, affinare la mira, colpire, ferire. L’esperienza si fa solo sul campo.

raptor, un volo da brivido

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Riflettevamo a cena sul fatto se, con quello che sta accadendo, è il caso di preoccuparsi o no, se al ritorno dalle ferie sarà ancora tutto come prima. Se fallisce tutto e boh. Poi ripenso alla nonna che ogni sera sentiva la sirena, fuggiva nel rifugio antiaereo, pregava di ritrovare casa sua dopo il bombardamento, e una volta non l’ha più ritrovata. E ho pensato che, in confronto, tutto questo continua a sembrarmi una gita a Gardaland (cit.).

bum cha bum bum cha

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– Leggo qui nel tuo curriculum, tra le varie competenze e attitudini, la voce beatbox. In che senso?
– Beatbox, la batteria con la bocca. So fare la batteria con la bocca, suono con un gruppo hip hop molto noto a livello locale, i Xxxx, non abbiamo strumenti e il dj fa solo scratch e niente ritmo. Prima rappavo anche io, poi quando si è trattato di scegliere se prendere strumentisti o suonare con le basi abbiamo pensato che il nostro stile sarebbe stato più crudo e grezzo senza musica. Solo ritmo. Vuoi che ti faccia sentire qualcosa?
– No, ma….
– Bum tz k tz bu-bu-bum k tz
– Vabenevabene, ho capito, cioè sapevo il significato di beatbox ma non capivo il senso di inserirlo come voce in un curriculum, cioè in un curriculum per candidarti a una posizione di web designer.
– Ah, certo, ma nel curriculum ho messo tutto quello che so fare, ho pensato che non avendo così tanta esperienza di agenzia ma avendo fatto anche tanti altri lavori, il beatbox potesse fare massa.
– Massa?
– Si, fare numero. Se suonavo la chitarra lo avrei scritto (sic), dal mio punto di vista il canto è uno strumento come gli altri, il beatbox lo faccio con la voce, quindi ha senso metterlo nel curriculum. La mia band comunque mi fa guadagnare qualcosina, tra concerti e set, quindi perché no?
– E da quanto tempo ti occupi di beatbox?
– Vivo hip hop da dieci anni, più o meno, ho imparato quasi subito, in freestyle. Sai, senti i pezzi e inizi a tenere il tempo sopra. Con il microfono e qualche effetto le possibilità sono infinite. Vai a vedere il nostro myspace, ci sono un po’ di pezzi, davvero, non è male, abbiamo anche un contratto con un’etichetta indipendente, abbiamo suonato al Yyyyyyy la scorsa primavera.
– E tu fai la batteria con la bocca.
– Esatto, il beatbox. Tu invece che musica ascolti? Non in ufficio, intendevo che musica ascolti in generale.

uber alles

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Gli aneddotti sugli stranieri in vacanza versus italiani in vacanza sono un tormentone estivo vecchio quanto l’unione europea, la libera circolazione dei cittadini comunitari o, almeno, la moneta unica. Ogni nucleo familiare ha i suoi, e sono certo ci siano quelli meno esterofili, che si concentrano sui sandali con i calzini, sulla pasta usata come contorno o sulle carnagioni che passano dal bianco latte al rosso prosciutto crudo senza tonalità intermedie. Ci sono quelli che invece sono più esasperati dai propri simili, un motivo per tutti è aver permesso, tramite il diritto di voto concesso indifferentemente, governi come gli ultimi eletti dal 94 a oggi, e si sentono, anche solo un po’, inferiori nei confronti di nazioni a caso che hanno integrato interi Paesi poveri da cui erano stati separati dopo la Seconda Guerra Mondiale e di averli assorbiti nel giro di poco tempo.

Per esempio, all’imbarco dei traghetti per la Corsica. Tu sei lì con la tua ovomobile stipata di trolley, giochi da mare in plastica, snack farciti di conservanti e coloranti, ma fiero delle tue Geox. Al massimo in tre, i genitori già over quaranta con un figlio/a sotto i 10 – spesso abbondantemente -, ti posizioni in una colonna di auto e scendi e, come prima cosa, ti stiri la schiena perché già tre ore di viaggio su quel cassone iniziano a farsi sentire. Ed ecco che arrivano loro, sul Transporter o sul Caravelle di colori sgargianti, almeno in cinque, genitori trentacinquenni con almeno un figlio/a di 12 anni seduto a fianco del padre alla guida. E sì, magari vestono in canottiera e sandali da scogli, però quando aprono il portellone del furgone dietro vedi il resto della famiglia. Madre, figlio/a di mezzo sugli 8 anni e terzogenito, intorno ai 4. Il furgone è ordinatissimo e dietro sembra un salotto, i sedili sono uno di fronte l’altro, in mezzo un ripiano con un gioco da tavolo, canoe sopra e bici legate dietro.

Sulla nave sembra che pochi di loro abbiano preso anche la cabina, allestiscono mini-campi sul ponte o nei corridoi completi di tutto, a differenza di noi che una notte senza un materasso può pregiudicarci il resto della vacanza. E non credo lo facciano per problemi economici.

In campeggio sono i primi a svegliarsi. Mentre stai convincendo tua figlia ad alzarsi, loro tornano dal minimarket con il pane fresco e il latte. I nonni rientrano dal quotidiano giro in bicicletta, bici da corsa con tanto di caschetto, il tempo di fare una doccia e sono già seduti a imburrare fette di pane da ricoprire con miele e marmellate, mentre noi si è ancora lì con caffelatte e biscotti. Prima di andarsene sulla spiaggia, i loro figli hanno la consegna di lavare piatti e stoviglie, a qualsiasi età, e si mettono in fila verso i bagni. Attività che invece, da questa parte, svolgo soventemente io, mia figlia è troppo occupata a leggere e non si può disturbare.

Arriva poi l’immancabile famiglia Bradford. Il furgone è più grande, e quando scendono capisci il perché: genitori e sei o sette figli, tra i 2 e i 14 anni, e quando fai amicizia con loro, il cui inglese, pur non essendo la loro lingua, è costantemente mille volte meglio del tuo, chiacchieri con la madre e ti rendi conto di cosa significhi avere un welfare e rispettarlo pagando le tasse. Nel frattempo il campeggio sembra già una colonia per bambini, la maggior parte non italiani. La sera si riuniscono tutti insieme, sono la metà di mille, e organizzano in quattro e quattr’otto – pur parlando lingue diverse – giochi nella natura. Un sera li vedi con le torce in un ibrido tra una caccia al tesoro e nascondino, in mezzo alla macchia all’interno del campeggio. La sera dopo sono ancora tutti insieme sulla spiaggia: i più grandi, ancora preadolescenti, stanno costruendo una capanna indiana con le canne che hanno trovato vicino agli scogli. C’è anche un telo abbandonato che viene subito riciclato come tenda. Qualcuno chiama il papà che accende un fuoco, e i bambini si mettono lì intorno a raccontarsi a gesti e a versi chissà quale storia di fantasmi. Ci sono solo un paio di ragazzini che non stanno giocando con loro, si sono fermati nella sala giochi insieme al padre, c’è una partita di calcio in tv, il padre per seguire in santa pace l’incontro gli rifila continuamente monete per i videogame. E sono gli unici. Indovinate un po’.

alle undici e undici

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è un po’ come perder tempo

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Le iniziative tipo “Cinema sotto l’ombrellone” o “Cinestate” o “R-estate al cinema”, insomma, naming a parte avete capito a cosa mi riferisco, sono perfette per chi, come me, come da copione – è proprio il caso di dirlo – ogni anno perde il meglio della stagione cinematografica perché organizzarsi e andare a vedere un film che non sia per bambini non è così immediato, e lo sarà finché tutti i membri della famiglia non saranno indipendenti. Ma tali rassegne, che appunto riuniscono il meglio o giù di lì di quanto realizzato negli ultimi 12 mesi, non dovrebbero mettere in scaletta film come Biutiful. Un film eccezionale, ma, converrete con me, estivo quanto un punch caldo al rum.

E tu, caro Alejandro Gonzalez Inarrittu, tu sei uno dei miei registi preferiti, e lo sai perché? Perché riesci a rappresentare i miei peggiori incubi in storie talmente ansiogene e deprimenti che il contenuto dell’incubo, alla fine, risulta talmente un tipo di paura così banale da rimanere confinato ai margini della storia, sopraffatto da altri contenuti pronti a soffocarti per tutto il resto del film. E alla fine ci ridi su, della tua paura. Ed è successo tutte le volte, in Amores Perros, in 21 grammi, in Babel, persino nel tuo cortometraggio incluso nel film sull’11 settembre: gli uomini che cadono dall’alto, pensa che io soffro di vertigini anche sui ponti di Venezia. Pensavo che la tua bravura fosse tale soprattutto grazie a Guillermo Arriaga, la sua scrittura e i montaggi a zig zag che hanno reso i vostri film ancora più capolavori, passatemi l’espressione. Ma sono certo che la vostra trilogia sulla morte può diventare una tetralogia e accogliere questo tuo nuovo film, perché, in Biutiful, di morte ce n’è ancora tanta.

E in un montaggio così lineare, questa volta, la vedi incorniciare tutti i protagonisti, la città di Barcellona, la Spagna intera e tutti gli spagnoli e i tanti clandestini che, nella finzione e nella realtà, sopravvivono oppure no. Ce l’hai sempre lì a fianco della narrazione, come i binari dell’alta velocità quando vai in autostrada verso Bologna. Non c’è un solo elemento di speranza, nemmeno Ana, la figlia maggiore di Bardem che raccoglierà l’eredità del padre, tanto povera quanto ingombrante. Un film che continua fuori, nella città vuota, quando cerchi dopo di addormentarti e le automobili che sfrecciano nelle partenze ignoranti sono l’unica forma di vita udibile nel mondo là fuori messo in stand-by. Di fronte a tanta miseria, anche se frutto di una favola, sono certo che non occorra volare fino a Barcellona per trovarne un esempio ma siano sufficienti pochi minuti di bicicletta per arrivare in un quartiere come Quarto Oggiaro. E ancora di fronte a tanta miseria, una delle notizie del giorno di ieri, inerente la depressione di un miliardario italiano, fa sorridere amaramente. Che non è che i soldi o la celebrità facciano la felicità o ti facciano morire meno soli. Ma io non ci credo.

non ci siamo dimenticati

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In perfetto mood con il cielo plumbeo, ecco un’infilata di versioni del pezzo reggae più malinconico della storia della Giamaica, tanto il pezzo è stato composto a Napoli. Sarete d’accordo con me nel considerarlo una delle vette della civiltà musicale italiana. Dalla versione di Sanacore, all’ultima tratta dal documentario Passione, mettete gli altoparlanti al massimo e ballate insieme a me.

non posso rifiutarmi

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Sono nato e cresciuto tra le cose, figlio di un magazzino e di un archivio male organizzato, segnato da una pesante forma di disturbo da accumulo, o disposofobia prolungata. E temevo di non aver speranza, il mio nemico più acerrimo è dentro di me e ha tutta l’aria di essere una sorta di tara genetica compulsiva. Ma mia moglie è stata la mia salvezza, ogni anno mi viene in soccorso e fa un lavoro di convincimento nell’affrontare coraggiosamente l’ultimo stadio. Perché nel frattempo le cose sono passate dall’effettivo proprietario alla sostituzione temporanea, quindi al dimenticatoio in un cassetto o sullo scaffale, dopodiché nello sgabuzzino. Poi il primo grande salto, dallo sgabuzzino, che è comunque casa, ai ripostigli esterni, ovvero cantina o – peggio – garage. Da lì partono per l’ultimo viaggio verso la discarica, e mi viene sempre il paragone dei viaggi finali da Garage Olimpo ai voli della morte dei desaparecido argentini che ho visto nel film. Eh lo so, la metto sempre sul tragico.

Il disturbo da accumulo, che nel ramo genealogico precedente al mio ha raggiunto livelli maniacali e del quale tralascio i particolari, o almeno vi dedicherò uno scritto ad hoc, in me ha raggiunto il suo apice solo recentemente, in una forma che potrei definire collezionismo digitale da cui sono stato salvato in extremis solo dalla dematerializzazione sempre più pervasiva (ne ho già scritto altrove), tanto che in un paio di hard disk da 2 tera riesco a concentrare tutto ciò che mi interessa. So già che il cloud potrebbe essere la salvezza definitiva. Ma, spostandoci in ambito oggettistica, ho ancora qualche problema con tutto ciò che è appartenuto a mia figlia e che ha caratterizzato le fasi della sua crescita fino ad oggi. Ma la terapia non deve conoscere ostacoli, la forza di volontà è la medicina più efficace.

L’ultimo viaggio nel paradiso delle cose che non servono più oggi ha avuto come passeggeri veri e propri pezzi di cuore, ma ho imparato che è la strada giusta se non si vuole invecchiare soffocati dalle cianfrusaglie (ho corretto un refuso, prima avevo scritto cinafrusaglie, il che è curioso). Ho dato addio a una giostrina di pesci rotanti intorno a una rana sorridente, abbiamo una foto di nostra figlia a un mese e mezzo che segue il circo ittico interessatissima. Uno zaino rosa tutto macchiato di pennarelli con la cerniera rotta (indovinate la nazione di provenienza) che si prestava a essere riempito di passatempi per le gite del sabato pomeriggio, libri e animali di plastica. Un set di formine da spiaggia, quante storie ci siamo inventati con quella banda di personaggi immaginari: granchio, stella, marinaretto, pesciolino e conchiglia, nelle prime vacanze al mare insieme.

E mentre siamo lì nel box, con la coscienza che insiste sull’essere razionali contro l’accumulo bulimico, io che cerco di inventarmi scuse per salvare questo o quello, alla fine riusciamo a trovare un compromesso su due o tre cose, che vanno a riempire un sacco di ricordi che magari, chissà, prima o poi butteremo via tutto insieme. Lì dentro ci sono già un paio di scarpine e qualche vestitino, a volte riusciamo a essere meno severi. E ora vi trova posto anche un gioco che ricordo come fosse ieri, un finto cartone portauova in plastica, abitato da sei ovetti ognuno con un’espressione diversa. Ho avuto una vero e proprio scatto di orgoglio quando l’ho visto e sono riuscito a chiedere clemenza. Per il resto, mi accontento delle foto digitali, lì ricordi ce ne sono già a quintali, altrimenti, ci diciamo, non avrebbe senso tenere pure quelle. Così tante.

ma come ti vesti

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La sua camicia azzurrina – si legge nella lettera – sportivamente slacciata, ed il suo scuro maglioncino a “v” (oltre ai pantaloni troppo abbondantemente ricadenti sui talloni), certamente appropriati per presenziare ad una cerimonia di scambio di gagliardetti fra bocciofile, non hanno conferito, all’evento in fieri (lo scambio di consegne tra Julia e Folgore, ndr), quell’importanza ch’esso si proponeva di raffigurare“. Non gli sembrerà vero: alla prossima occasione Ignazio Benito La Russa presenzierà direttamente in camicia nera. Il resto su Repubblica.