cosa aspetti a baciarmi, vol. 1

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A parte quando te lo chiedono espressamente e capisci che è giunto il momento e non ti puoi certo rifiutare, per il resto capire che la persona che hai davanti ti ha dato il via libera per mettere la tua bocca sulla sua per la prima volta è un fenomeno che a coglierlo, in effetti, può dare molte soddisfazioni. Gli estremi, o casi limite, sono quando si fraintende le intenzioni altrui, a te sembra che e invece non è mica così, condizioni a cui però non ho mai creduto perché, voglio dire, se sei arrivato a quel punto e non sei ubriaco se sembra che ci siano le condizioni di farlo significa che dall’altra pare c’è qualcuno che ci ha un po’ giocato con i tuoi sentimenti. All’opposto, proprio perché a verbalizzarne il desiderio un po’ si sminuisce la magia del momento, si cerca sempre di farlo capire, di addurre indizi sempre più espliciti, e se dall’altra parte non si coglie, si è un po’ addormentati o la timidezza – succede eh – ti paralizza le fasi preliminari all’approccio, può finire che uno non ce la faccia più e lo si domanda come a dire datti una mossa che sono in fibrillazione, imbranato che non sei altro. Quante volte siete stati protagonisti di questo momento così particolare? Cinque? Dieci? Cinquanta? No perché stanotte ho fatto una specie di sogno, e dico una specie perché è come se avessi rivisto una cosa accaduta sul serio. Io e Rita che camminiamo sfiorandoci il gomito, le braccia sono nude perché è primavera, e parlando insistendo su certe cose profondamente in comune (che poi anche lì questa cosa di essere così uguali funziona o no?) scoppiamo a ridere perché lei mi dice che è da stamattina che si sente Frank Sinatra, nel senso che ascolta il cosiddetto The Voice, e io faccio finta di aver capito che lei sente di essere Frank Sinatra. Insomma che ridiamo per tre o quattro minuti abbondanti senza fermarci, quelle risate che fanno venire mal di pancia dal ridere. E nell’istante in cui entrambi torniamo seri, non so dire chi o cosa ma, insomma, quello è stato proprio il momento giusto.

lo scoto da pagare

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La carta geografica del Regno Unito si vedeva quasi ogni sera alle spalle del presentatore del tiggì negli anni dell’Ira, e io che ero bambino e molto piccolo ero convinto che non si trattasse della mappa di un paese sovrano ma che fosse la silhouette di un cane. Probabilmente in età prescolare non si capisce nemmeno che cosa sia un telegiornale, o perché una tv portatile in bianco e nero debba rimanere accesa mentre una famiglia consuma l’ultimo pasto della giornata. Di certo perché un tg nazionale dovesse a ogni edizione parlare di un cane e mostrarne un’immagine così poco dettagliata in posizione seduta, come in attesa di un comando del padrone o della cena, con la coda che si propaga sin oltre il Mare d’Irlanda, rimaneva ancora più un mistero, quasi più indecifrabile della fototessera di Mario Tuti, delle riprese ravvicinate dei terroristi e dei delinquenti comuni alla mercé delle interviste a caldo dai giornalisti.

Poi è successo che a un bel momento un po’ di gente, un bel po’ di gente, ha insistito affinché si decidesse che quel cane perdesse la testa, anzi, che qualcuno a quel cane la testa gliela tagliasse. Non stiamo a tirare in ballo la testa e le membra della celebre favoletta di Menenio Agrippa perché quell’apologia non c’entra se non nel significato che l’unione fa la forza, è l’Union Jack di forza ne ha davvero tanta.

Così ho provato a immaginare quel cane che tanto mi incuriosiva da bambino decapitato e proprio non ce lo vedevo. Sebbene il cervello inglese, inteso come centro direzionale, probabilmente risiede da qualche altra parte, a me l’autedeterminazione e le secessioni proprio non piacciono. Non sono un tradizionalista, anzi. Ed è pur vero che in certi casi, anche nella vita, una separazione dia nuova linfa ai soggetti che ne sono gli artefici. Ma insomma, ci sono così tante complessità al mondo che il legame con il territorio e tutte quelle cose lì che da noi le fa la lega a me fanno compassione, per non dire che mi fanno ridere.

Crescendo ho iniziato inoltre ad associare quel cane che si vede nella silhouette della cartina del Regno Unito con il Border Collie, che è il mio modello di cane preferito e che, guarda il caso, viene proprio da lì. Il Border Collie, lo saprete meglio di me che in casa ho due gatti, è un cane da pastore, di quelli che hanno l’istinto innato di radunare, mettere insieme, non lasciar allontanare gli individui dal gruppo. Insomma, avete capito che quella del cane, oltre ad essere una visione romantica delle cose, è una sorta di cerchio che si chiude.

Per fortuna, almeno così penso io, per fortuna i no hanno vinto, la Scozia rimarrà insieme al resto del Regno Unito e il cane non perderà la testa perché la testa da sola, separata dal resto, se mi avete seguito nel ragionamento, un po’ di impressione la fa.

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cronache della vigilia

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No, non è certo un giorno come tutti gli altri e nessuno sembra comportarsi come se lo fosse. Qualcuno sta salendo le scale dal meno uno al secondo piano fischiettando strofa e ritornello di “Heart of glass” di Blondie, non è una melodia delle più semplici in più ci sono pause anomale da rispettare e, se proprio si vuole andare a tempo, c’è almeno uno dei ritornelli con una battuta dispari e nessuno si ricorda mai quale. Più o meno contemporaneamente, ma in un altro posto, una mamma sbaglia clamorosamente squadra di pallavolo, che detta così, fa già sorridere di per sé. Voleva accompagnare la figlia a provare una compagine fortissima di un paese vicino così ha cercato informazioni sul sito internet ma ha trovato la società sportiva sbagliata, così la figlia si è allenata con un gruppo di giocatrici più che dilettanti. Ora entrambe, madre e figlia, sono al telefono con mia moglie che non nascondono la delusione dell’equivoco e a scambiarsi particolari su questo aneddoto divertente, ci sarebbero infatti altri dettagli da sottolineare ma ho finito i sinonimi per definire un team di volley senza specificarne il nome proprio e cadere in ripetizioni. Poco dopo il ministro Maria Elena Boschi inizia con il suo repertorio di moine e faccette e occhioni spalancati e labbra lucide a un talk show in prima fascia serale tanto da rendersi più insopportabile di quanto normalmente è, d’altronde ve l’ho detto che non è certo un giorno come tutti gli altri e nessuno sembra comportarsi come se lo fosse.

Arriva poi il momento di radunare i compiti svolti, anche se l’equivoco di esercitarsi lungo un’estate transitoria come quella di passaggio dopo la scuola primaria lascia sgomenti un po’ tutti. Nel dubbio, è bene infilarli in cartella. Ecco, lo zaino nuovo, che era diventato un incubo, perché cercandolo in rete poi per per le settimane successive tutto era diventato un megastore Eastpak, con banner e pubblicità Eastpak in tutte le pagine e questa cosa della pubblicità sull’Internet ha davvero rotto il cazzo anche perché non credo di aver mai cliccato su un prodotto suggerito da questo sistema compulsivo di advertising in vita mia, nel senso che so quello di cui ho bisogno, dove e come cercarlo. Mi chiedo anche quanto sia redditizia la pubblicità online, o almeno questo tipo di pubblicità rispetto a quella più subdola ma efficace, quella del marketing nascosto sotto le sembianze di notizie, commenti, post e amici e gruppi di socialcosi apparentemente indipendenti.

Ma, messe a tacere le polemiche, è meglio fare il punto sui libri di testo, sulla cancelleria e chissà se, il primo giorno di prima media, serve portare un quaderno. Nel dubbio, qualche foglio a righe e qualche foglio a quadretti in un contenitore è meglio averlo a portata di mano, non si sa mai. Che poi questo darsi da fare per i figli alle medie può essere un controsenso. Io me l’ero sbrigata da solo, non mi aveva accompagnato nessuno il primo giorno. Conoscevo già la sezione in cui ero stato estratto, tutta maschile e senza nemmeno un compagno delle elementari, ma nel giardino della scuola non riuscivo a trovare il punto di raccolta della mia classe perché un pluri-ripetente si era messo davanti al cartello per nasconderlo ai nuovi arrivati come me.

La degna conclusione di questa serie di presagi è una pizza surgelata scaldata in forno e colma di peperoni, il cui ritorno mi sveglia in piena notte come segno inconfondibile che è meglio ricordare da qualche parte come è stata la vigilia dell’inizio di un nuovo ciclo della vita, quella di mia figlia e di conseguenza la nostra di genitori. Forse ho fatto lo stesso prima del primo giorno di scuola elementare, ma mi viene il dubbio perché questo blog mi pare non fosse ancora nato.

maniera compita e amabile di trattare e di comportarsi

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Aveva trovato il riferimento sul suo paese di provenienza in una rivista che in confronto Ragazza In era il bollettino della comunità accademica di ricerca del CERN, l’occasione era troppo ghiotta per non lasciarsela scappare. Munitosi di carta e Tratto Pen, giacché la posta elettronica era ancora solo un escamotage per ridurre le barriere spazio-temporali degli scrittori e registi di fantascienza, aveva composto una facciata di protocollo a righe comprensiva di presentazione, elogi, domande e richieste di curiosità al limite dello stalking, anche se le persecuzioni personali in via epistolare non costituivano ancora un reato vero e proprio, considerando la lentezza delle Poste che, in quegli anni, si confermava ben più che proverbiale.

Pur non conoscendo la via dove potesse abitare, aveva considerato che l’Artista doveva essere una celebrità in un borgo di provincia, un po’ come oggi si scrivono le cartoline delle vacanze a Vasco Rossi, 41059 Zocca (MO), e che comunque di riffa o di raffa arrivano a destinazione. Ma non aveva considerato che magari l’Artista potesse non abitare più a 22070 Fenegrò (CO), tutte le star poi lasciano il luogo natio e si spostano nelle metropoli a fianco di studi di registrazione, locali, pub, pusher e propri simili. Ad oggi, mi assicura, non ha ancora ricevuto risposta dall’Artista, ma il fatto che la lettera, su cui aveva posto correttamente il nominativo e l’indirizzo del mittente, non gli sia mai stata rispedita a casa, lo rende fiducioso che le sue righe siano giunte a destinazione e, semplicemente, l’Artista non abbia mai trovato il tempo di rispondergli in modo esaustivo a domande del calibro di “Cosa ne pensi della scena post-punk nazionale?”.

Tra l’altro, anni dopo l’invio, aveva persino avuto la fortuna di vedere un suo concerto anche se, ormai, la fama dell’Artista era sfiorita e lui stesso aveva definito meglio i suoi gusti, delineandoli più intorno all’ambito new-wave anglofono. L’ispirazione dell’Artista era nel frattempo ridotta quasi a zero, a giudicare dall’ultimo disco.

Memore però del contributo che l’Artista aveva dato allo svecchiamento di una certa estetica che lui comunque aveva ritenuto fondamentale anche per la sua personale formazione, musicale e non, si era presentato al concerto con un anticipo vergognoso, mentre ancora gli operai del comune stavano montando il palco. Qualcuno gli aveva detto però che l’Artista era appena sopraggiunto e si era offerto addirittura di accompagnarlo nel camerino, come se un fan esaltato di un cantante ormai démodé potesse comunque contribuire al miglioramento del suo umore, almeno in vista del previsto flop della sua esibizione.

L’Artista sembrava però in gran forma, accompagnato da una donna bellissima che poi, la sera, aveva condiviso con lui il palco in qualità di corista davanti a una manciata irrispettosa di spettatori. In quella visita benaugurante, orgoglioso del fatto che ci fosse ancora qualcuno che ascoltava le sue canzoni, aveva accennato una sua strofa al fan, a commento delle incerte condizioni meteorologiche, prima di firmargli una dedica su una cartolina pubblicitaria con la sua foto risalente ai tempi d’oro, marchiata addirittura Sorrisi e Canzoni TV. In quel frangente si era presentato con il suo nome e cognome ma l’Artista non aveva mostrato alcun cenno di sorpresa.

Così, ancora oggi, lui sogna di nascosto come sarebbero potute andare le cose. Lui che pronuncia il suo nome e cognome e l’Artista che, mostrandosi meravigliato, estrae una vecchia missiva dal quaderno con i testi, quello che alcuni cantanti sistemano sul leggio come pro-memoria per le esibizioni live. Tira fuori una busta ingiallita, gli dice “sei tu”, aggiunge che finalmente può rispondergli di persona, lo invita a sedere – magari davanti a un bicchiere di qualcosa – e gli confida il suo parere sulla scena post-punk nazionale.

sempre meglio non iniziare nemmeno

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La signora Grazia, che è la moglie del panettiere che vive al quarto piano e che non si lamenta mai del ragazzo sopra di lei che si esercita al pianoforte otto ore al giorno, mi vede ritornare da scuola con la cartella sulle spalle e solo col grembiule nero, siamo a maggio inoltrato e non c’è più bisogno del giubbotto. Si sporge sul balcone e mi chiede se posso cercarle uno dei divisori che lei usa per separare le dita dei piedi durante il sonno. Soffre infatti di alluce valgo a entrambi i piedi e prima di coricarsi si mette questa specie di anelli di plastica nell’incavo tra il primo e il secondo dito per raddrizzare il metatarso. Poi succede – non è la prima volta – che se li dimentica nelle lenzuola e quando le scrolla alla finestra finiscono di sotto. Provo a dare un’occhiata dalle parti del tombino, trattandosi di un cilindro facilmente sarà rotolato seguendo la pendenza dei canali di scolo dell’acqua, ma non vedo nulla che possa essere ricondotto alla funzione di divaricatore. Trovo in compenso ben due pacchetti vuoti di Marlboro.

Si è diffusa da tempo questa leggenda metropolitana tra noi ragazzini, secondo la quale sotto le alette del cappuccio della confezione rigida di quella marca di sigarette sono stampati dei punti, raccogliendo i quali e cercando di raggiungere una cifra non ben definita – chi dice mille, chi sostiene tremila, chi spaventa i concorrenti al premio con cinque o addirittura 10mila – e consegnata la prova a un qualsiasi tabaccaio, si ha diritto a una vincita che alcuni identificano in un prezioso zippo in argento brandizzato Marlboro, altri invece addirittura parlano di soldi. Cento lire a punto. Il problema è farsi vedere a cercare nella spazzatura in giro, recuperare pacchetti vuoti, togliere la stagnola e rivoltarne il cartoncino per poi magari trovarsi con un pugno di mosche. In effetti però sotto le alette del cappuccio i numeri si trovano. Ogni volta diversi e spesso anche ben auguranti.

Io sono già a buon punto, ho amici che sono più avanti di me ma ho tutta l’estate per raggiungere la quota necessaria. Pare che il concorso termini a settembre, ma il bello è che sembra essere valido su tutto il territorio nazionale. Infatti proseguo la raccolta nei mesi successivi durante le vacanze estive in campagna, anche se alcuni amici mi hanno persuaso a consegnare i punti e a richiedere il premio in una tabaccheria di città, non è detto che nei paesini dell’entroterra i commercianti siano aggiornati su queste iniziative. In campagna vado in cerca di pacchetti di Marlboro lungo le strade fuori dal paese in bici e quasi sempre con Silvia, che abita vicino a me e siamo amici anche se è un po’ più grande. Alcuni pensano che stiamo insieme ma non è vero, siamo tutti e due bruttini e non ci piacciamo reciprocamente, quindi il nostro rapporto è di sincera voglia di fare cose insieme. L’aspetto lungo la strada seduto su un muretto e poi decidiamo la zona di perlustrazione. Oggi, per ingannare l’attesa, ho fatto secco un moscone con un rastrello che qualcuno ha lasciato lì. Gli ho fatto cadere il manico addosso e quello non ha fatto in tempo a spostarsi. Silvia ha gli occhiali e l’apparecchio, comunque è sveglia e riesce a individuare il rosso delle Marlboro anche da lontano.

Quando rientro in città, prima che ricominci la scuola media, ho un valore in punti altissimo, penso che potrei meritare o due accendini o un sacco di soldi. Forse preferisco lo zippo, perché ogni tanto nei pacchetti abbiamo trovato una o due siga e io e Silvia abbiamo provato a fumare. Quindi magari ho preso il vizio e avere da accendere può farmi comodo. Quando però gli porto tutti i brandelli di cartone per rivendicare il premio il tabaccaio mi conferma di non saperne nulla, non c’è nessun gioco a premi ma apprezza il mio sforzo nell’aver raccolto tutti quei pacchetti vuoti e me ne offre uno pieno come omaggio, anche se si vede che non ho nemmeno tredici anni. Così penso a Silvia che ha il doppio dei miei punti e alla delusione ancora più grande che potrà provare ma invece mi sbaglio. L’estate dopo Silvia sfoggia un accendino in plastica con il logo Marlboro – e probabilmente era solo una questione di recarsi dal tabaccaio giusto.

buono come la gomma pane

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Io che sono notoriamente un cane nelle arti figurative, con tutto il rispetto per i cani, manifesto da sempre una predisposizione per gli articoli di cancelleria e gli strumenti ad esse preposti. A partire da quei manichini in legno usati a modello del corpo umano e delle sue parti tutti articolati, che poi si possono vedere ritratti in certi dipinti di De Chirico. Si trovano spesso nei book shop delle gallerie d’arte e dei musei e ogni volta devo mettere a freno la tentazione, considerando che poi non saprei che farmene. Per non parlare delle confezioni di matite colorate o tubetti di tempere: mi fermo con la bava alla bocca davanti alle vetrine dei negozi quando le mettono in mostra con le loro nuance perfette e ammiccanti. Poi ci sono tutti quegli articoli inutili, se non per soddisfare più sensi contemporaneamente, della cui imprescindibilità i figli convincevano i genitori con l’assicurazione di un miglior rendimento scolastico. Ci si riempiva l’astuccio di inchiostri profumati, gomme dalle fogge e tinte più improbabili che poi alla fine mica si usavano, con tutte le macchie che lasciavano sui fogli. Eppure ogni scusa era buona per buttare via i soldi dal cartolaio. Mia figlia da piccola aveva ricevuto in regalo un set di pennarelli bellissimi, ogni colore associato a un’essenza di frutta, e non vi dico quanto piaceva usarli anche a me. L’idea è vincente perché vista e olfatto, uniti alla morbidezza della punta, aumentavano l’esperienza d’uso arricchendo non solo il risultato finale ma le fasi intermedie. Quelli più buoni sono finiti subito, ovvio. Una analoga associazione sinestesica era offerta dalla gomma pane, la cui funzione mi sfuggiva ma che mi induceva a un continuo pastrugnamento con le dita durante le ore di lezione, una specie di oggetto anti-stress ante litteram e molto più della plastilina, del pongo o della pasta di sale. Mi sono sempre chiesto se qualcuno a un certo punto non ce l’ha più fatta e le ha tirato un morso, perché tante volte l’avrei voluto fare io. Anzi, se qualcuno di voi ha mai provato a masticarla e a mandarne giù un pezzetto, vi prego di condividere con me la sua esperienza. Sempre che sia sopravvissuto.

alla maniera di mamma e papà

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Nella fase in cui si indossano i vestiti dei propri genitori dovrebbero passarci tutti, secondo me, a meno di evidenti incongruenze di taglia e non necessariamente abbinandosi con il genere corrispondente. Perché è una specie di mettersi nei panni altrui anche se lo si fa con il senso della sfida: decontestualizzare un modello che abbiamo avuto come riferimento per dimostrare che nella nostra reinterpretazione funziona di più e si compie il riscatto con i giovani che fanno meglio degli adulti. In pieno periodo Joy Division sfoggiavo un paio di giacche di mio papà di un paio di taglie più grandi, non ero nemmeno maggiorenne e avere quell’aria gotica avvolto in indumenti extralarge conferiva l’effetto David Byrne in Stop making sense. Quella nera del suo abito da matrimonio, risalente al 1960 quindo con un taglio già vintage allora, per il look all black. Poi una grigia a righine verticali scure che poi mia mamma ha scelto come abito per la sepoltura, cosa che mi ha fatto sorridere perché di certo mio padre quel completo non deve averlo mai più indossato da quando lo portavo io, essendo aumentato di stazza per poi ridurre il peso negli ultimi mesi di vita, così ho immaginato che nelle tasche di quella giacca, destinata a vestirlo nel viaggio finale, ci potesse esser rimasto qualcosa della mia adolescenza, spero nulla di compromettente come qualche biglietto dell’autobus arrotolato. Nell’armadio dei miei era rimasto anche qualcosa della loro giovinezza, che in me suscitava curiosità. Come quella specie di polo bianca a rete fittissima da uomo, con il collo segnato da una v blu e il colletto ampio, un residuato degli anni 50 di mio padre che reinterpretavo in chiave psychobilly. A me sembrava un capo di tutto rispetto. Poi alla vigilia di uno dei miei primi concertini con la band di quegli anni lo proposi al mio batterista che non sapeva che cosa mettersi. Ma il bassista, che era quello più influente in fatto di look, con un’occhiata gli fece capire che non era il caso. E anch’io, dopo quel giudizio iniquo, mi ero però fatto convincere dell’eccessiva complessità derivante dall’uso di un indumento che i più non avrebbero capito. Troppo ironico? Poco in linea con la moda? Usare vestiti vecchi e del passato non era ancora in auge, in una fase storica in cui si dovevano ancora chiudere a tutti i costi i conti con la memoria. Quella polo a rete con il collo a v blu, che oggi ricordo molto simile a una maglietta da tennis di altri tempi, poi non so che fine abbia fatto. Di certo noi degli anni ottanta non ce la meritavamo, una cosa così particolare.

finestre aperte, sensi spalancati

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Ci sono buone possibilità che i miei chemiorecettori distribuiti sulla superficie della mucosa nasale stiano subendo una evoluzione dovuta a tutti i fattori che conosciamo – inquinamento, effetto serra, scie chimiche, gruppi bilderberg e sirene varie – ma è molto più plausibile che il vostro gusto in fatto di profumi stia cambiando perché rispetto a prima, e smentitemi se ne avete le prove, sono molto più forti, più intensi, più barricati direi, se sapessi che cosa significa esattamente. In ascensore c’è da sentirsi male. Per strada rimangono scie gassose inalterate malgrado le trombe d’aria. L’altro giorno mia moglie ha provato una crema dell’Erbolario sul dorso della mano e non è andata più via fino a sera. Chiaro che è meglio morire soffocati da traumi olfattivi, pensati per il piacere dei sensi, rispetto alle secrezioni naturali cui siamo soggetti e che spesso, specialmente nella bella stagione – bella a chi? – omettiamo di coprire. E se la smettessimo di tenere gli occhi ad altezza short riusciremmo anche ad associare essenze a personalità, non trovate? Io invece che sono uno puro e guardo solo in alto, ad altezza attico per intenderci, sono un appassionato di tetti (niente battute please), stamattina ho avvertito un orologio a cucù suonare le otto con il caratteristico verso e il mio caratteristico incedere mi ha permesso di individuare immediatamente la finestra da cui il suono proveniva. Mia nonna, come tutte le nonne, ne possedeva uno ma non ricordo come si facesse a disattivare l’uscita dell’uccellino meccanico nelle ore notturne. Forse non si poteva ma non ne sono sicuro. Comunque mi ha sorpreso il fatto di sapere che nel 2014 nelle case di qualcuno di voi si possono ancora trovare dispositivi meccanici d’altri tempi, con le pigne e le catenelle per dare la corda. E così alla fine, prestando attenzione all’origine di quel suono che scandiva il tempo, non ho visto una anziana signora che faceva giocare un ingombrante incrocio di husky con non so quale razza, tutto bardato da cane d’accompagnamento anche se la signora, che zompettava con un galletto di gomma in mano sfidando il cane a mollare la presa, sembrava tutt’altro che bisognosa di essere accompagnata. Anche il cane puntava la finestra del cucù, così per scusarmi per il fatto di averlo scontrato mentre tenevo il naso per aria l’ho accarezzato. La signora si è avvicinata per proteggermi temendo chissà che cosa, questo mi ha permesso di sentire la fragranza di un’acqua di colonia di altri tempi, quelle alle essenze floreali che un tempo si usavano e che in campagna attiravano le vespe. Ecco, forse le nuove profumazioni sono pensate apposta per tenere alla larga tutti gli insetti che, con i cambiamenti climatici, oggi popolano le nostre latitudini. Un amico, che lavora nel centro di Milano, si è trovato un geco – che lo so che non è un insetto è ma per farvi capire che non si capisce più niente – in ufficio, per dire. Molto più strano di un orologio a cucù nel 2014.

l’ingiustizia di un processo graduale

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Tutto è iniziato quando, qualche mese fa, ho messo un cucchiaino di zucchero nel caffè, io che l’ho sempre bevuto amaro, e ho scoperto che non era poi così male sentire la densità nera e bollente scivolare lungo la lingua lasciando strascichi di quella dolcezza che allappa. Un piccolo rifugio dalle asperità della vita, una consolazione almeno dentro di me di tutto quello che poteva essere ostile là fuori. Un manto immaginario sotto cui rifugiarmi per riscoprire un microcosmo di appagamento interiore. Un compromesso con il passato: amaro è bello, lo diciamo anche per il cioccolato fondente, ma poi di nascosto ci strafoghiamo di quello al latte o, sacrilegio, di quello bianco.

Poi è stata la volta dell’acqua con le bollicine, io che rigorosamente l’acqua deve essere naturale e per non parlare di quella bauscia delle ferrarelle che non è né arte né parte. D’altronde era nell’aria. La birra, con il suo spirito frizzante, è l’unica bevanda che mi placa realmente la sete senza quell’illusorietà propria delle bevande dolci gassate che appagano nell’immediato ma poi, come tutte le sostanze che danno dipendenza, spinge a volerne sempre di più, ancora di più, senza smettere mai e tutto quello zucchero che ti entra dentro chissà dove va a depositarsi. E l’acqua con le bolle, lo sanno anche i bambini, no magari i bambini no perché si presume non bevano birra, ne unisce il potere lenitivo con l’innocuità trasparente dell’acqua, quindi perché non dovrebbe essere meglio. Così, al bar, per cercare ristoro dal caldo e soddisfare il bisogno di liquidi che in estate lo dice anche Studio Aperto, ecco che mi vedo fare il cenno di no con la testa alla domanda “naturale?”, ho persino imparato a pronunciare perfettamente sparkly quando sono all’estero, che per loro è comunque la norma e chissà che margini hanno, con quello che ce la fanno pagare.

C’è stato anche il caso dei bocchettoni dell’aria condizionata sulla macchina indirizzati altrove, tutto quel gettito di fresco artificiale sparato a manetta contro parti ben circoscritte del proprio corpo, di cui a un certo punto della vita si inizia a percepirne la forzatura come una qualunque componente imposta dalla modernità. Dapprima facendo finta di nulla, dopo ostentando pure tutto il fastidio del caso trovandomi nella condizione di passeggero e non di autista, ho iniziato a spegnere gli impianti, ruotare rotelle, occludere aperture, puntare altrove l’erogazione fottendomene se quel flusso tutt’altro che salutare recasse disagio a qualcun altro. Mors tua vita mea.

La vecchiaia si manifesta anche in piccoli trascurabili episodi come questi, quelli che non l’avresti mai detto, #eppure. Non è tanto il calo della vista, quello del desiderio, spostarsi più o meno impercettibilmente su posizioni moderate se non addirittura a destra, odiare tutto e tutti, osservare con meraviglia il calo dei freni inibitori nella formulazione pubblica dei propri giudizi, la radicalizzazione di certe posizioni, l’impeto di rifuggire da qualunque cosa faccia perdere tempo come un Jep Gambardella qualsiasi.

L’età avanza erodendo gradualmente piccoli spazi alla propria personalità consolidata, smuovendo anche gli elementi più solidi di certe sfaccettature del quotidiano come il tempo tinge gradualmente di bianco le teste e tutte le altre pelurie del corpo. Probabilmente un giorno chiunque stia affrontando questa parte del viaggio, guardandosi riflesso, non si riconoscerà più. Meglio disseminare tracce di quello che è stato, nascondere biglietti al proprio sé che subentrerà domani per abilitare la possibilità di sorprendersi ritrovandoli in un poi, dedicare risorse all’organizzazione del proprio vissuto allo stesso modo in cui disponiamo le provviste in dispensa. Ed ecco che la casa, la tana, il rifugio, improvvisamente ma mica tanto acquista un significato senza precedenti. Come a dire che saremo qui e per sempre, sul nostro divano, seduti al nostro scrittoio, sdraiati nel nostro letto. Meglio abituarcisi.

v per visto che stempiatura?

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Gli uomini di una volta si dividevano in poche macro-categorie a seconda dell’attaccatura dei capelli, prima che l’acconciatura divenisse un vezzo anche per il genere maschile e si diffondessero i crani rasati, i ciuffi, le creste o i codini. Sono sempre stato affascinato dall’attaccatura a V, che non era necessariamente sinonimo di stempiatura. Nella cinematografia del neorealismo italiano, o se vi mettete a cercare nei vostri archivi qualche foto di nonni e bisnonni nel secondo dopoguerra o giù di lì, vi imbattere nelle pettinature brillantinate all’indietro a mettere in risalto questa forma aerodinamica del confine tra fronte e cuoio capelluto, molto più eleganti di quei tagli che sembrano fatti con l’accetta, paralleli alle classiche righe/rughe delle espressioni di stupore. Questo mio orientamento deriva dal fatto che mio papà rientrava in questa macro-categoria a V, almeno finché ha avuto i capelli neri e folti. Me lo ricordo visto dall’alto della finestra della scuola, in prima o seconda elementare, mentre attendeva l’uscita e la maestra che mi invitava con lei, in punta di piedi su una sedia, a vedere sotto per salutarlo da lì. Un’altra volta mia nonna mi aveva sottoposto una pagina di un quotidiano con una foto di uomo a V e mi ero entusiasmato del fatto che mio padre potesse essere sul giornale. E infatti non si trattava di lui, mia nonna voleva solo farmi vedere Sandro Mazzola che io avevo scambiato per papà. Probabilmente si trattava di un momento in cui mi ero appassionato all’Inter, chissà, o forse anche nonna aveva ravvisato una somiglianza tra i due. L’attaccatura dei capelli a V l’ho ritrovata poi in qualche pop star, il cantante degli Heaven 17 per esempio ma se non ricordo male anche in David Bowie. Io no, probabilmente ho preso da mia mamma. O, meglio, la forma a V un po’ è sopraggiunta, ma in questo caso non parlerei di evoluzione genetica quanto di stempiatura da caduta di capelli, per un banale avanzare dell’età.