Svizzera, io e te dobbiamo parlare

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Scusate se ritorno ancora sullo stesso tema ma, davvero, non ho mai visto un brand nazionale produrre spot così divertenti, auto-ironici e innovativi come la Svizzera. Mi sa che davvero, prima o poi, dovremo seriamente considerare di fare le ferie lì, e non solo per portare dei capitali di nascosto. Scherzo eh, amici svizzeri. Se siete davvero auto-ironici come sembra dite ai vostri creativi (tanto di cappello con l’edelweiss) di fare una pubblicità per sdrammatizzare anche quel tema lì che peccato che rovina sempre un po’ tutto. Ma non si può essere sempre perfetti come un orologio svizzerOH WAIT! Comunque, vi giuro che fino a 01:08, la prima volta che l’ho visto, pensavo fosse lo spot del nuovo Samsung.

pingu, popcorn e la strana società degli snack

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Voi non avete idea di quanti danni abbia causato questa canzone qui

perché è stato il primo pezzo al di fuori della musica classica che ho imparato a suonare ascoltandolo alla radio senza averne lo spartito. Mi piaceva il suono di synth e la mia profonda inclinazione all’elettronica deriva proprio da quell’ascolto di quando ero bambino e da quanto ho trascurato gli studi per imparare al meglio il tema di Popcorn.

Qualche giorno fa poi ho notato per la prima volta questo spot che utilizza Popcorn come jingle

in cui però si parla di riso soffiato e non di mais, e il corto circuito è evidente. Quello che invece non ho capito è che cosa c’entri quella specie di Pingu protagonista, se sia Pingu oppure no e, in ogni caso, i pinguini che mangiano barrette al cacao non fanno presa sul pubblico a meno che, appunto, non assomiglino a Pingu o magari, davvero, è proprio lui ma allora perché quelli della Nippon non lo hanno detto?

se non ti senti bene parla più forte a te stesso

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Il nonno della pubblicità dell’Amplifon che allena una squadra di calcio vincente non solo sembra Richard Gere ma, a parte la chioma bianca che per lo meno comunque ce l’ha al completo, ha più o meno la mia età e mentre trasmette l’idea di godersi la pensione insegnando tackle e rovesciate al nipote e agli altri giocatori io sono qui a sbarcare ancora il lunario gestendo con fatica lo stress e, per di più, con una figlia appena dodicenne. E sì, avete ragione, la colpa è mia come la mia è una coda di paglia.

Nei romanzi americani che leggo e che vorrei tanto scrivere i protagonisti cagano figli usciti dal college entro i venticinque anni e a cinquanta sono già al secondo o terzo matrimonio e non devono nemmeno preoccuparsi più del loro ruolo genitoriale perché i ragazzi sono a lavorare nelle aziende fighe all’altro capo degli USA e se tornano a casa per il ringraziamento a far vedere i loro figli ai nonni separati è già un miracolo.

Qui il sistema è al rovescio, è tutto spostato in avanti e per certi aspetti le cose sono anche più semplici. Se a cinquant’anni hai ancora l’unico figlio delle prime nozze alla primaria significa che, probabilmente, tempo che arrivi alle medie e i nonni non li avrà già più, quindi è triste ma paradossalmente la natura così in ritardo accorcia la catena delle parentele famigliari.

Poi vabbe’, dove sta scritto che ogni venti anni si debba necessariamente fare uno scatto generazionale. Ve lo immaginate? A venti madri e padri, a quaranta nonni, a sessanta bisnonni, a ottanta trisnonni, a cento la matrioska probabilmente esplode e, anche considerando di esserci con la testa, sai che fatica tenere i conti della propria discendenza. Sono convinto che la Lorenzin con le sue gaffe sul fertility day abbia preso un grosso e grasso granchio, ma se permettete la sostanza non cambia. Non è obbligatorio riprodursi, ma se lo facciamo quando la clessidra è agli sgoccioli dobbiamo assumerci responsabilmente tutte le conseguenze. Mal di schiena per caricarseli sulle spalle, occhiali da lettura per operazioni elementari come l’interpretazione dei bugiardini degli antibiotici quando hanno la febbre, partecipazione ridotta a certi giochi all’aperto, imbarazzo fuori da scuola con i nonni veri dei compagni di classe, oggettivi limiti di prospettiva per un futuro ruolo di supporto per i figli quando a loro volta saranno genitori, perché già in condizioni fisiche di dubbia utilità e, anzi, probabilmente già in stato di cenere all’interno di un’urna nel di loro salotto.

Quindi, caro american gigolò de noantri, anche se ci sentivi poco e oggi grazie all’apparecchio sei tornato a bomba nella sfera dei cinque sensi al completo sappi che qui in Italia sei davvero poco credibile o il problema siamo noi e tutte le cose irrisolte che ci portiamo dietro e che quella della famiglia nei tempi e modi imposti dalla natura forse non è nemmeno quella più urgente da sistemare.

purché se ne parli, no?

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Da giovane ero molto più bravo e lesto nello schiacciare tasti a caso del telecomando quando il mio programma preferito veniva interrotto dalla réclame. Ora non solo sono meno reattivo, ma se non ci sto attento mi ritrovo a seguire con curiosità gli spot. Un po’ come accadeva ai tempi dei divertenti cortometraggi di Carosello in cui primeggiava la bravura dei creativi pubblicitari e quella degli interpreti, oggi si è verificato un nuovo sorpasso da parte dei consigli per gli acquisti in quanto a sforzo realizzativo degli autori rispetto ai programmi tv. Ma, a differenza dei tempi di Bramieri e Calindri, oggi è per demerito delle trasmissioni e non certo per la pubblicità.

Volevo quindi soffermarmi su tre spot in onda in questo periodo. Il primo è questo:

L’idea è un po’ banalotta, soprattutto con i rimandi a quello che comunemente si utilizza per esemplificare i periodi culturali citati nel video. I testi, però, li trovo raffinati e molto efficaci.

Il secondo è questo:

ovvero culi che se la ballano e se la cantano. L’ho visto è non credevo ai miei occhi. Non oso pensare a questo format applicato agli assorbenti.

Il terzo infine è questo:

L’ho visto e ci sono cascato, perché la storia mi ha distratto rispetto al finale, in cui viene presentato il prodotto, e fino a poco fa ero convinto non si trattasse di un fake ma di una vera e propria pubblicazione a fascicoli di quelle che tengono in vita le edicole delle nostre città. Poi ci ho riflettuto e ho pensato che qualcosa non tornava, perché non si sente parlare di modellismo ma solo dell’aereo. Insomma, in un modo o nell’altro hanno colpito nel segno e la cosa mi ha fatto sorridere e non è vero che il brand scompare. Anzi, la prossima volta in tv lo seguirò con maggiore attenzione.

pubblicità stupefacente

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Non dovreste sorprendervi del fatto che esista la pubblicità a preparazione istantanea come la polenta. La polenta istantanea la trovo utilissima e mi spiace deludere i miei lettori masterchef. Si tratta di uno dei piatti preferiti di mia figlia, e quando occorre preparare qualcosa di caldo e a colpo sicuro nei momenti in cui si va di fretta, la classica situazione in cui mamma e papà rincasano tardi e poco prima che lei rientri dall’allenamento, ci si mette veramente poco a metter su un paio di porzioni di polenta concia. Allo stesso modo esiste la pubblicità precotta, e se avete un buon spirito di osservazione vi sarete accorti anche voi che, complice il primato della comunicazione low budget imposta dai tagli al marketing dovuti alla flessione del mercato, in giro si vedono pubblicità fighissime con foto o footage bellissimi e musiche evocative ma che hanno una grave lacuna e cioè che è facile trovarne di uguali. Non intendo dire che si somigliano, ma che le agenzie di comunicazione utilizzano materiali per realizzare spot e visual già pronti e messi in commercio per due lire dai venditori dei contenuti royalty free. Mi spiego meglio. Siccome nel settore dell’advertising non ci sono più i profitti di una volta (sono finiti i tempi dei Mad Men) sono nati fornitori on-line di foto, video e musiche a prezzi stracciati. Internet è in grado di distribuirli ovunque nel mondo, e l’affacciarsi a un mercato globale compensa i singoli guadagni più bassi. Quindi può capitare che una foto per la pubblicità dell’agenzia viaggi X in Italia la usi anche il discount Y in Nuova Zelanda, tanto chi se ne accorge? Oppure la musica della card per il sistema museale della città di Z sia poi lo stesso jingle degli assorbenti W.

Così facendo le agenzia pubblicitarie possono risparmiare sui materiali utilizzando quelli precotti e continuare a fare il loro mestiere per i clienti a costi competitivi. Si tratta di un metodo che usano tutti, a parte chi ha ancora i soldi per fare comunicazione di un certo livello (auto, telefonia, cibo, case farmaceutiche). In queste banche dati dove davvero c’è tutto basta inserire i termini di ricerca per ottenere risultati sorprendentemente in linea con le proprie necessità. Vi faccio un esempio: provate a cercare “Gang Of Young People Taking Drugs ” sul sito di immagini on line www.shutterstock.com. Non vi sembra di aver già visto quell’immagine da qualche parte?

Ecco, tutto questo discorso per dirvi che tutto sommato mi è andata di lusso. Una trentina d’anni fa, in una foto come quella di sotto dell’ormai tristemente celeberrimo opuscoletto per la campagna del “Fertility day” avrei potuto esserci anch’io e mi avreste riconosciuto tutti, in contrasto con i figli dei primari e dei dentisti della foto di sopra. Nel dubbio, mi sono riprodotto in tempo.

da me funziona

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Un classico della comunicazione tra me e i clienti dell’agenzia in cui lavoro riguarda le lavorazioni video. Preparo una bozza del video da sottoporgli e gli invio una e-mail dicendo hey cliente, attenzione: si tratta di una bozza, il video che stai per vedere contiene riprese o immagini in bassa risoluzione quindi di qualità scadente e provvisoria ma che, una volta che mi darai l’OK, provvederemo a sostituire con le stesse ma nel formato definitivo e quindi di alta qualità. Nell’ottanta per cento dei casi, una percentuale ottimista, il cliente mi risponde via e-mail dicendo hey Plus1gmt il video non va bene, lo spunto mi piace ma le immagini sono di qualità scadente, non posso certo utilizzare riprese così sgranate.

Con questo esempio voglio spezzare una lancia in favore di Luigi Di Maio che ha dichiarato di aver frainteso il testo di una e-mail, anche se sapete che a me i grillisti e il loro establishment non mi sono granché simpatici.

Le cause che generano questo tipo di interruzioni della comunicazione, per dirla alla Led Zeppelin, sono molteplici. Possiamo parlare in primis di analfabetismo funzionale che tanto va di moda, sia nei mittenti che nei destinatari dei messaggi. Chi scrive non sa scrivere e di conseguenza compromette in partenza la comprensione del contenuto. Chi legge lo fa distrattamente o addirittura non capisce, e la frittata è fatta. La forbice della comprensione tra chi detiene il significato e chi dovrebbe comprenderlo è ampia tanto quanto, se non di più, la grammatica come l’abbiamo studiata e il suo surrogato che applichiamo sui nostri blog, nei commenti su Facebook e nei messaggi di Whatsapp. C’è anche un altro fattore: non abbiamo tempo per leggere tutto, a malapena guardiamo le figure, figuriamoci arrivare in fondo a una lettera. Non so a quale categoria appartenga Di Maio, di certo un movimento nato e cresciuto sull’onda della demagogia digitale se ha dei problemi con le e-mail ha qualche paradigma da ricalibrare.

Ben altro paio di maniche per la giustificazione in sé. Sbagliamo tutti, io lo faccio quotidianamente, ma “non ho capito l’e-mail” in un ambito in cui ci si aspetta l’ineffabilità – e in un contesto che la condanna negli avversari politici – è una scusa che non si può vedere. Presto avranno valore legale dichiarazioni quali “a casa mi veniva” o “me l’ha mangiato il gatto”.

beati voi che non sbagliate mai

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Una volta era impossibile sbagliare una pubblicità e i motivi dell’ineffabilità della comunicazione commerciale erano svariati. Pubblicitari professionisti parlavano a un pubblico intelligente o nel peggiore dei casi ingenuo ma tutto sommato umile, inoltre i canali sui quali veniva veicolata consentivano un ciclo di vita degli spot maggiore. Senza contare che, in caso di problemi – al massimo turbative del senso del pudore o lesione della sensibilità su temi difficili – i tempi in cui si intimava il ritiro di una campagna era lunghi e, faccio l’esempio delle provocazioni di Oliviero Toscani, comunque sortivano sempre l’effetto del messaggio giunto a destinazione, nel bene o nel male. Oggi, manco a dirlo, il teatro di ogni discussione sono i Social Network e cani e porci hanno l’opportunità di dare visibilità alla propria opinione, senza contare gli stagisti e i ragazzotti poco portati, sottopagati e vittime di corsi di studio fuorvianti che popolano le agenzie di questi tempi. Non solo. Lo scenario della comunicazione è assai più complesso perché gli italiani sono sempre più stolidi e, di conseguenza, molto più presuntuosi, con una bella spruzzata di invidia ignorante sopra. Nel giro di qualche giorno il popolo del web ha fatto – giustamente – a pezzi due campagne sbagliatissime: il ragazzino del Decathlon che gioca al pallone perché lì non ci sono libri e il caso Fertility Day del ministro Lorenzin, un vero e proprio fatal error, più che un epic fail. Non so di chi sia la colpa dell’insuccesso delle campagne e da dove siano partite le due idee creative. Se lavorate in pubblicità saprete come funziona. Ci sono i clienti che ci dicono che cosa vogliono ottenere e ci incaricano di trovare il modo più efficace, ma oggi sono una rarità. Perché i clienti chiedono anche che si faccia a modo loro. Si arrogano il diritto di scegliere il modo dimenticandosi che gli esperti in pubblicità siamo noi che la facciamo, e non loro che ce la chiedono, e se non fossimo così bisognosi di fare soldi per sopravvivere di fronte a tale stupidità dovremmo dire che no, non vogliamo prenderci la responsabilità di cose che non si sa come poi vanno a finire. E suona strano che tra tutti i cervelli dall’una e dall’altra parte non ci sia stato qualcuno che abbia sollevato la questione perché la facilità con cui i messaggi potevano essere fraintesi era palesissima. Insomma, fare comunicazione pubblicitaria è una bella gatta da pelare e, se volete un consiglio da amico, tiratevene fuori appena potete.

il ciclo di vita delle idee creative

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1. All’orizzonte del nulla si intravede sorgere la luce dell’unicità del proprio pensiero creativo, quello che ci rende superiori rispetto al resto della gente condannata a eseguire e a portare borse al resto dell’umanità che conta, noi in primis.
2. All’idea si dà corpo e forma, colore e sostanza, anzi no prima la sostanza e poi il colore se no non asciuga bene, occhio a maneggiarla che scotta e ricordatevi sempre gli occhiali da sole meglio quelle mascherine per saldatori o al massimo anche quei sistemi fatti in casa per seguire le eclissi senza lasciarci la retina.
3. La potenza diventa atto e nulla sembra così disruptive come dicono gli americani.
4. Si cerca il canale più adatto per la diffusione dell’idea creativa. Può essere visual o un post tagliato su misura per social media più adatto a veicolarlo. Hai deciso Facebook? E Facebook sia.
5. Su Facebook il post in cui ha preso vita l’idea creativa ci farà assurgere a pionieri del futuro della comunicazione.
6. Passa una nuvola sulla nostra autostima che o mette in dubbio il fatto che l’idea creativa in sé sia una roba senza precedenti o che invece ci identifica con la nostra fan base che pensa che la nostra idea non ha proprio niente di speciale.
7. Ma chi cazzo se ne frega di pubblicare sta cagata.
8. Si cancella l’idea creativa, a partire da post come questo che come vedete è partito bene ma alla fine è diventato banalissimo.

Tempo trascorso: meno di un minuto.

ecco che cosa aveva previsto per il 2017

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Lei era veramente brutta, lui poco meno, ma stravaccati sulle poltroncine ci davano dentro con i baci con la lingua e una delle addette alle informazioni si era lasciata sfuggire un commento notando che si comportavano come se lo stessero facendo per la prima volta. Intorno a loro quindi ormoni impazziti e il litro di profumo smaccatamente afrodisiaco che si era messa lei, in cui lui sembrava affogarci dentro. Qualcuno stava raccontando l’ultima puntata di ciao Darwin a qualcun altro che invece starnutiva per l’allergia di stagione quando i terroristi fecero irruzione nella centrale di controllo della stazione ferroviaria, e la loro portavoce si impadronì del sistema di annunci mentre i complici legavano e imbavagliavano alle loro scrivanie gli addetti alla gestione del traffico.

Tutti i passeggeri in attesa non si accorsero subito dei passaggi dell’ultimo canto dell’Inferno della Divina Commedia che una voce femminile declamava a memoria dagli altoparlanti smistati sui binari e in sala d’aspetto. A caldo sembrava proprio uno di quegli annunci di servizio, come poco prima una voce piuttosto simile aveva deluso le attese di quelli che avrebbero voluto rientrare a casa a un’ora decente per discutere con qualcuno della morte di un personaggio importante, l’ennesima di quell’anno cosi lugubre, annunciando che a Pavia qualcun altro era morto schiacciato da un treno. La gente muore, rientra nella norma e l’immunità parlamentare non ci mette al riparo, altrimenti altro che vitalizi.

Ma all’ultimo passaggio di quel canto dantesco fu lapalissiano che stava accadendo qualcosa, che da qualche parte si stava consumando un’azione dimostrativa contro il sistema che aveva sottratto a una delle realtà politiche più innovative del secolo la guida e il guru rendendo il movimento acefalo, cieco e in balia dei seguaci delle credenze primitive e ignoranti di cui era popolato. E la terzina cruciale, quella delle stelle che si rivedono e che di quel movimento di fanatici era diventata una specie di mantra, venne coperta in modo imparziale dallo stridore di un convoglio in arrivo dalla parte opposta di quello in ritardo per il morto, e non furono in pochi quelli che ammisero che l’unico modo per portare a compimento la redenzione verso il loro guru con il dovuto rispetto sarebbe stato quello di investire i rimborsi dei parlamentari riconsegnati nella ricerca di un sistema per risolvere il problema dei treni che frenano facendo un baccano infernale. Anzi, forse proprio Lui l’aveva previsto, ma per il 2017.

fanno due etti di creatività in più signora, che faccio, glieli lascio?

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Per dare un contentino agli individui che soffrono di esuberanza di personalità e che stanno stretti nelle regole, nella tecnica, nelle linee guida e nell’esecuzione degli ordini, la società moderna si è inventata intanto quel tipo di solidarietà grazie al quale organizzazioni pubbliche e private non battono ciglio a sobbarcarsi sulle proprie spalle certi costi fissi – a cui magari uno rinuncerebbe pure – di gente che altrimenti (e questo avveniva in civiltà primitive, prendete ad esempio quegli illuminati di Sparta o anche alcuni regimi di matrice totalitaria) morirebbe di fame. In seconda battuta sono stati istituzionalizzati i cosiddetti lavori creativi, quelli in cui è ammesso che uno ci metta del suo nei processi e soprattutto nel modo di fare le cose. Siamo tutti d’accordo che nel compilare le fatture c’è ben poco da menare il torrone, come direbbe mia suocera. In altri contesti però il creativo porta in ufficio alcuni aspetti della sua vita privata, come la personalità, e la mette al servizio dell’imprenditoria. La creatività non si impara a scuola. Ci sono certi corsi di studi che ti insegnano la storia della creatività, le tecniche, le pratiche, le figure ispiratrici. Ma poi, conseguito un (inutile) diploma, il creativo è allo sbaraglio e se dentro di sé non ha davvero quello strumento che spruzza la cosa giusta al momento giusto in grado di fare la differenza, l’imprenditoria tornerà a investire nei ragionieri che sanno compilare le fatture e il creativo a godere dei benefici della solidarietà, un concetto esistente ai tempi dello stato sociale e oggi presente in certa letteratura fantasy o solo nel cinema italiano. Il creativo quindi mette se stesso nel lavoro che fa. Ciò significa – per farvi un esempio – che se il creativo è un appassionato di vinili, può proporre come gadget a conclusione di un’iniziativa di marketing un fac simile 33 giri a scopo pubblicitario. Se invece il creativo è un nazifascista che va ai raduni delle teste rasate può proporre una svastica in peltro con incisa in caratteri gotici una citazione da un libro di Michel Houellebecq come ricordo di un evento corporate. Ora, sta alle aziende scegliere quindi la matrice di personalità individuale della quale avvalersi, non so se mi seguite in questo ragionamento. Le riflessioni che vi propongo sono molteplici: quanto monetizzare poi cose come queste; se uno cambia organizzazione porta se stesso di là quindi la nuova organizzazione corre il rischio di esprimersi come la vecchia, un po’ come gli atleti che, lavorando con il proprio corpo, giocano nella nuova squadra come giocavano in quella precedente; infine, punto cruciale, se ha senso tutto ciò, se cioè la creatività invece debba essere come tutte le altre discipline una tecnica standard di trasformazione della materia prima e il creativo un manovale (con tutto il rispetto per i manovali) che si comporta come un saldatore qualunque.