se non ti senti bene parla più forte a te stesso

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Il nonno della pubblicità dell’Amplifon che allena una squadra di calcio vincente non solo sembra Richard Gere ma, a parte la chioma bianca che per lo meno comunque ce l’ha al completo, ha più o meno la mia età e mentre trasmette l’idea di godersi la pensione insegnando tackle e rovesciate al nipote e agli altri giocatori io sono qui a sbarcare ancora il lunario gestendo con fatica lo stress e, per di più, con una figlia appena dodicenne. E sì, avete ragione, la colpa è mia come la mia è una coda di paglia.

Nei romanzi americani che leggo e che vorrei tanto scrivere i protagonisti cagano figli usciti dal college entro i venticinque anni e a cinquanta sono già al secondo o terzo matrimonio e non devono nemmeno preoccuparsi più del loro ruolo genitoriale perché i ragazzi sono a lavorare nelle aziende fighe all’altro capo degli USA e se tornano a casa per il ringraziamento a far vedere i loro figli ai nonni separati è già un miracolo.

Qui il sistema è al rovescio, è tutto spostato in avanti e per certi aspetti le cose sono anche più semplici. Se a cinquant’anni hai ancora l’unico figlio delle prime nozze alla primaria significa che, probabilmente, tempo che arrivi alle medie e i nonni non li avrà già più, quindi è triste ma paradossalmente la natura così in ritardo accorcia la catena delle parentele famigliari.

Poi vabbe’, dove sta scritto che ogni venti anni si debba necessariamente fare uno scatto generazionale. Ve lo immaginate? A venti madri e padri, a quaranta nonni, a sessanta bisnonni, a ottanta trisnonni, a cento la matrioska probabilmente esplode e, anche considerando di esserci con la testa, sai che fatica tenere i conti della propria discendenza. Sono convinto che la Lorenzin con le sue gaffe sul fertility day abbia preso un grosso e grasso granchio, ma se permettete la sostanza non cambia. Non è obbligatorio riprodursi, ma se lo facciamo quando la clessidra è agli sgoccioli dobbiamo assumerci responsabilmente tutte le conseguenze. Mal di schiena per caricarseli sulle spalle, occhiali da lettura per operazioni elementari come l’interpretazione dei bugiardini degli antibiotici quando hanno la febbre, partecipazione ridotta a certi giochi all’aperto, imbarazzo fuori da scuola con i nonni veri dei compagni di classe, oggettivi limiti di prospettiva per un futuro ruolo di supporto per i figli quando a loro volta saranno genitori, perché già in condizioni fisiche di dubbia utilità e, anzi, probabilmente già in stato di cenere all’interno di un’urna nel di loro salotto.

Quindi, caro american gigolò de noantri, anche se ci sentivi poco e oggi grazie all’apparecchio sei tornato a bomba nella sfera dei cinque sensi al completo sappi che qui in Italia sei davvero poco credibile o il problema siamo noi e tutte le cose irrisolte che ci portiamo dietro e che quella della famiglia nei tempi e modi imposti dalla natura forse non è nemmeno quella più urgente da sistemare.

visto da qui è tutta un’altra cosa

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Certe lenti da presbiopia senile sono utili anche quando si ha difficoltà nel leggere da vicino la nostalgia ancestrale negli occhi delle persone, quel sentimento di rimpianto verso la confort zone per eccellenza che è il guscio della propria famiglia d’origine. Si tratta della storia a cerchi concentrici come nelle sequoie di una vita intera, impressa però con un carattere piccolissimo nell’iride di ognuno di noi e ammetto che se già si fa fatica con i libri, con queste note a margine della personalità umana ci vuole molta perizia per metterle a fuoco e capire che cosa l’animo altrui nasconde. Quando ci siamo sviluppati tra le mura di casa ci sembrava tutto normale, con genitori e fratelli come pressoché unico punto di riferimento da emulare. Il modo in cui gli si vuole bene è molteplice e va oltre il comportamento che i componenti di quelle micro-società adottano nei nostri confronti. Senza tirare in ballo casi limite di violenze fisiche e verbali e di tutta la gamma dei soprusi che si fanno ai più piccoli, pensate a quanto abbiamo amato la nostra famiglia senza pensare che un giorno, quaranta o cinquant’anni più tardi, comparando i comportamenti di mamma e papà con quelli degli altri, qualcuno ci avrebbe dimostrato che siamo cresciuti in mezzo a gente completamente fuori di testa. Ne conosco almeno una decina di nuclei che hanno imposto la loro piccola follia come il naturale divenire delle cose. Fino a quando poi vivere con i genitori distanti, o quando mamma e papà non ci sono più, ci consente alla fine di ripartire da zero per ripercorrere con la lucidità dell’essere adulti quel periodo fondamentale della nostra vita e fare un po’ d’ordine, attività che da grandi o quasi vecchi, fidatevi, riesce molto meglio.

cinquanta sfumature di canizie

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Il modo più efficace per sconfiggere la vecchiaia è la solitudine. Anzi la misantropia. Non vedere nessuno permette di limitare l’osservazione del tempo che passa solo su se stessi, cosa assai più lieve e sopportabile considerando che avendo noi stessi sotto gli occhi allo specchio ogni santa mattina non ci accorgiamo dei segnali. Il che non significa che dovete chiudervi in casa. Se vivete in una metropoli o una città più o meno grande potete stare tranquilli e continuare il vostro tran tran di beatitudine asociale perché difficilmente si incontrano più volte le stesse persone, o magari succede ma nessuno ci fa caso a meno di eccezioni eclatanti, come quella volta in cui due ragazze giapponesi mi hanno chiesto un’indicazione a Londra alle due di notte a cui ovviamente non ho saputo rispondere non tanto per la lingua – entrambi ci siamo spiegati in inglese – quanto per il mio inesistente senso dell’orientamento e la mia insulsa memoria geografica. Nemmeno un paio di giorni e ci siamo riconosciuti in una zona frequentatissima da turisti, forse un mercatino di Camden, tanto che posso assicurarvi che questo è diventato un mio cavallo di battaglia nell’anedottica generalista e non, potrei mettere la manu sul fuoco che l’ho già scritto altre volte qui e sono sicuro che da qualche parte nel mondo ci sono due ragazze giapponesi che sui rispettivi blog raccontano di aver incontrato un italiano a Londra per due volte e di aver tentato un approccio la seconda, in quanto palese segno del destino, ma che tale italiano ovviamente non ha capito o si è semplicemente emozionato lasciandosi prendere dall’eccezionalità dell’evento.

Come biasimarmi, del resto. Non facciamo caso a nessuno, figurati se notiamo qualcuno già visto altrove. Possiamo giocare a riconoscere i visi sfuggenti sugli autobus quando facciamo i pedoni fermi al semaforo rosso e pensare che domani, alla stessa ora, potremmo rivederli e così tra vent’anni trovarli ancora a ripassare di qui, canuti e grassi. Ed è proprio questo quello che risalta quando coltiviamo a lungo le amicizie, da ragazzi fino alla terza età ma vedendoci poco di persona perché magari uno vive fuori e l’altro è rimasto nella città di origine. Vecchi, grassi e canuti se non calvi, ci specchiamo negli affetti perché sappiamo che anche costoro sono pronti come noi alla comparazione delle esistenze. Se lui è messo così, anch’io non sarò da meno. Così c’è qualcuno che dice che l’isolamento magari incupisce un po’ ma per lo meno lascia le persone al proprio consumarsi senza termini di paragone, prendetelo come un avvertimento, mica che pensiate che è una mia idea o uno scoop, questo blog non è una testata giornalistica e grigia.

inizia il secondo tempo

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Osservare le cose camminando, mettendo a fuoco un punto senza perdere di vista lo sfondo, dà più o meno lo stesso effetto di quelle tecniche di ripresa che vanno molto di moda oggi, in cui c’è una cosa o un volto al centro del quadro e il resto dietro che si muove svelando il background. Quello che altri hanno definito il sistema dello slider, che è appunto lo strumento che consente di usare una telecamera con movimenti lenti e regolari. Edifici che scoprono altri palazzi dietro più alti, i quali a loro volta lasciano subito dopo spazio alle nuvole prima parzialmente coperte e così via. Scorci di città possono essere visti differentemente anche se si passa di lì ogni giorno, questo non l’ho detto certo io ma trovo sia un buon deterrente agli alti e bassi ma non quelli dei livelli prospettici dei palazzi che dicevo prima. Mi chiedo come possa essere la vita in presenza di soli alti, tutti i santi giorni grandi notizie, gente che ti dedica attenzioni, apprezzamenti sul lavoro, voti sopra il nove dei figli, essere a proprio agio. Con il sistema dello slider si può cogliere però la bellezza pur non vivendo a Roma, e ve lo dice uno che sta alla periferia di Milano. La bellezza più o meno ovunque e la musica che si sprigiona dai tacchi che camminano a ritmo, dai campanelle dei tram, dalle sigarette accese negli spazi angusti e dal serrare i denti per ostentare la grinta. Vedete, è da vecchi che si gioca la vera partita, altro che tutte quelle cose sopravvalutate che si fanno da giovani. Probabilmente si concentra molto negli occhi per poi pervadere tutte le membra perché davvero, ci sono certe sensazioni di benessere che non avevo mai provato prima e non so spiegare se è perché, da un certo punto in poi, inizia una specie di restituzione di non so bene cosa al resto del mondo.

mi sento bene, non mi sento bene

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Il sistema informatizzato da sanità 2.0 per la gestione delle code in ambulatorio, che consiste in una specie di caramella polo in legno dell’anteguerra del diametro di un bottone impilata in uno spuntone di ferro e recante su una faccia, impresso a penna in una calligrafia in linea con gli standard dei dottori, il numero progressivo di attesa per la visita, mi attesta tra gli ultimi a esser ricevuti. Mi sono classificato in sedicesima posizione subito dopo uno che fisicamente potrebbe essere il modello da cui è stato disegnato Carl Fredricksen, il protagonista di Up. Trascorre il tempo prima del suo turno a consultare una risma di impegnative per visite mediche, ognuna con un foglietto pinzato su, in perenne lotta con gli spessi occhiali da vista che gli scivolano giù da la fronte e che continua a tirare su per leggere bene da vicino, come fanno tutti quelli che posizionano i fogli a pochi millimetri dalla pupilla nuda. Tiene tutto in una borsa di quelle che una volta regalavano le agenzie di viaggio in occasione delle gite organizzate in pullman, una foggia a metà tra il borsello e lo stile sportivo, in finta pelle. Alla fine rimaniamo noi due soli, siamo gli ultimi dopo la badante ucraina che è appena entrata nello studio tutta fiera della sua residenza appena ottenuta. L’anziano signore, comunque piuttosto distinto, a quel punto inizia a commentare le sue carte ad alta voce. La frequenza con cui si reca in bagno tradisce un problema alla prostata. Poi si rimette al suo posto e va avanti nel suo soliloquio. Poteva iniziare prima, penso, perché ha cominciato proprio ora che ci sono solo io a doverlo ascoltare. Nomi di medicine, diagnosi, terapie, qualche parolaccia. Ed è lì che ammetto che anch’io ho sempre più voglia di parlare da solo, camminare per le strade e parlare da solo e il bello è che non ci vedo proprio niente di male. Ma non come fanno i matti che dicono cose strampalate, imprecano e spremono il loro volto per far crescere il valore semantico del loro vaneggiare e spaventano le persone. Io il lume della ragione non l’ho ancora perso. Quindi voglio andare in giro e parlare da solo e dire cose sensate. Non so che cosa ci trattenga dal farlo e quanto ci costi, in termini di equilibrio, tutto questo autocontrollo. Perché la convenzione sociale impone che parlare da soli per la strada è una cosa che non si fa e che suscita ilarità. Anche io, come il paziente di fronte a me che si sta agitando sempre più, si conferma da solo che alla sera si sente sempre un po’ peggio, ho tante cose da dire. Chiacchierare in autonomia libera poi dalla necessità di ascoltare i pareri altrui e dall’educazione di non interrompere nessuno. Sentirsi in questi monologhi a senso unico, una volta superato l’imbarazzo del silenzio intorno a sé, è anche un buon metodo per stare più a proprio agio. Quando viene il suo turno, la sala d’attesa piomba nella calma che la sacralità di quel luogo impone. Dalle stampe appese alle pareti, illustrazioni di soldati vestiti dalle uniformi degli eserciti del passato hanno l’aria di essere rimaste immobili solo per non far spaventare di più gli esseri umani seduti ciascuno con il proprio disturbo. Io ho solo la massima a 140 e me lo dico ad alta voce, così, per provare l’effetto che fa, potrebbe essere l’inizio di qualcosa di nuovo.

la vita spiegata a un turista che non voleva esserlo

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Dicono che certi imprevisti fanno germogliare il seme – latente in noi – della vulnerabilità. Occorre però prima dimostrare quali sono i fattori che ne aumentano le probabilità del manifestarsi, ammesso che esistano. Voglio dire, uno passa l’adolescenza a girare in lungo e in largo facendo l’autostop e il massimo che gli capita è respingere l’approccio innocuo di qualche esponente della terza età attirato dagli studenti delle superiori e poi, l’unica volta che noleggia un’auto di quelle che mai penserebbe di acquistare, qualcosa di non bene identificato gli si pianta nel parabrezza causando una crepa impossibile da occultare al proprietario e chissà a quanto ammonterà la riparazione. Ma le cose si susseguono senza capo né coda, così quando di corteccia ne hai poca paradossalmente sei più impermeabile di quando hai una scorza spessa quanto una noce di cocco e trasudare fuori le ansie in circolo costituisce un’operazione complessa quanto il monumento più duraturo del bronzo degli antichi romani. Ma cosa dovremmo fare? Passare il resto della nostra vita su divani Chateau d’Ax a far scorrere canali di televendite e a mettere su chili lasciandoci vivere solo nelle funzioni involontarie? No, ma fare i conti con il mix tra età e indole non c’è proprio nulla di male. La cassetta con il kit del pronto soccorso psicologico non la trovi in ogni frangente, e portarsi il proprio fardello da casa ogni volta che ci si muove fuori dall’ordinario – tra la gente, per il mondo, ma anche nell’inesplorato delle esperienze mai provate – purtroppo fuoriesce dai canoni accettabili del confort. La sensazione è la stessa di sbagliare clamorosamente l’abbigliamento per un viaggio con quelle giacche che ti fanno sudare la schiena ma non si possono legare in vita. Che volete farci, anzi, non c’è proprio nulla da fare. Io ho parzialmente risolto lasciandomi nella piacevole balia di chi ne sa più di me, se avete la fortuna di averne almeno uno a portata di mano accozzatevi come se non ci fosse un domani, anche se magari ce n’è più di uno.

senilità, o della vecchiezza latente dentro

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Invecchiare in un ambiente e in una società pesantemente ordinari come i nostri costituisce una delle principali cause di annullamento del desiderio di evasione. Si tratta di un decorso di cui non ci rendiamo conto per via del fenomeno dell’assuefazione al presente, che è un po’ lo stesso che ci fa stemperare il passato in brodo annacquato ma con il minimo necessario di sostanze vitali necessarie a una sussistenza vegetativa di base. E non mi riferisco certo alle esperienze di sopravvivenza estrema di quella famigliola di fricchettoni del sud con cui ho scambiato quattro chiacchiere oggi nel centro di Amsterdam. Lui che di mestiere fa l’artista di strada, un concetto vago e opinabile tanto quanto lo stesso concetto di arte e che per darmi indicazioni usava come riferimento l’ubicazione dei coffee shop che conosceva, con la compagna e una bimba di due anni ad abitare in porzioni di case subaffittate da profughi di guerra del medio oriente che ottengono appartamenti gratis dal governo olandese per poi trarne profitto così alla faccia del welfare.

Credo che l’annichilimento della curiosità sia il male del secolo per noi italiani, e senza entrare nello specifico delle cose che ci ripetiamo tutti i giorni e che riguardano il modo in cui trattiamo la cultura, la tv che guardiamo, la qualità di quel poco che leggiamo eccetera. Oggi ho pensato che anche solo gli standard che siamo abituati a osservare dentro e fuori gli spazi che abitiamo sono cose che assottigliano il nostro cervello come le saponette consumate, quelle che non gettiamo perché comunque continuano a fornirci il minimo indispensabile per lavarci mani, faccia e ascelle la mattina.

Osservavo invece persone con scale di priorità completamente ribaltate rispetto alle nostre proprio ad Amsterdam: dagli appartamenti piano terra con vetrate che non capisci mai se è un negozio o una casa privata da quello che contengono agli spazi oltre l’IJ che tra avanguardie artistiche e architettoniche possono costituire un presagio di città apocalittica tanto vanno oltre la nostra immaginazione urbana fatta di standard sociali e ed estetici. Intendevo invece famiglie normali, mica gli sconvoltoni che vanno ad Amsterdam per stracannarsi senza sosta, comunque altrettanto rilassati nel prendere la vita, le cose, il prossimo a differenza dei nostri stereotipi con cui insistiamo nell’interpretazione dl nostro ambiente più famigliare.

Io, per esempio, mi ritengo una vittima irrecuperabile di questo processo di de-evoluzione. L’ordinarietà dell’Italia e degli italiani mi ha fatto passare la voglia di viaggiare, mi ha fatto fare il pieno di paure e mi costringe a sforzi emotivi molto frustranti quando mi trovo in contesti completamente diversi come quelli mitteleuropei. Mi sento assalire dalla paura del nuovo, del moderno, di un futuro incomprensibile che in realtà altrove, ma non da noi, è già parte del quotidiano. A me trasmette l’essenza della catastrofe, dell’ineluttabilità del tempo, del fatto che è difficile che noi, abituati alla totale immobilità, potremmo mai tenere un passo così superbamente rapido di popoli di corsa per allontanarsi da una situazione economica globale così difficile.

Forse la causa è tutta nelle piccole cose di comodo con cui ci facciamo consolare: il patrimonio artistico, si mangia bene e le donne sono belle e prodighe di passione, chissà. O forse sono io che sono vecchio, ormai trovo complesso l’adattamento all’ambiente anche se sono certo trattarsi di un’età che ho dentro che, per certi aspetti, era già piuttosto avanzata prima.

il regista che scegliereste per un film sulla vostra vita

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Probabilmente i vostri genitori, come i miei, hanno trascorso trenta o quarant’anni nello stesso posto di lavoro, magari iniziando con altri colleghi stanziali quanto loro, in forza alla stessa organizzazione o azienda da chissà quanto e magari in quelle dinamiche di una volta in cui entravi fattorino e, a furia di studio e impegno, andavi in pensione direttore di qualcosa. E forse i vostri genitori, come i miei, hanno assistito ai primi segnali di cedimento della baracca, nel senso del sistema Paese e del lavoro su cui per costituzione era stato fondato, la modernità fatta di quel carrierismo misto a inappetenza professionale e a trasformazione sociale ed economica con una spruzzata di informatizzazione, per cui la gente dopo qualche tempo si spostava, cambiava reparto, se ne andava e chi si è visto si è visto.

E non ditelo a me, che in quasi vent’anni ho cambiato sei posti di lavoro. So bene cosa vuol dire imballare le proprie scartoffie, il portapenne e i gadget che nell’ufficio successivo saranno soppiantati da complementi d’arredo obbligatori e che quindi destinati a finire in cantina. Portare la focaccia e i pasticcini in onore di tutto il tempo trascorso insieme, le battaglie, le sconfitte, i caffè alla macchinetta, i dialoghi superficiali nei tempi morti, le pause pranzo surreali quanto qualunque altra attività naturale come masticare del cibo con commensali con cui non ci si trova così a proprio agio. Per fortuna, o per disdetta, si tratta di situazioni sempre più rare, vi sfido a trovare qualcuno che sua sponte cambia lavoro di questi tempi in cui butta davvero male.

Restano però le esperienze professionali chiuse per motivi anagrafici, come quella che chiamiamo pensione e alla quale non sappiamo più se avremo diritto o meno. Cerco di immaginare così come possa essere l’ultimo giorno di lavoro per professioni particolari, o almeno molto diverse da un banale impiegato quale sono io. Il bagnino che provvede a chiudere ombrelloni e sdraio l’ultima sera e poi si avvia a una cena a base di pesce presso lo stabilimento balneare in cui lavora. La guida che racconta il dipinto nella sala che conclude il percorso del museo in cui svolge la sua attività e magari, proprio in quella descrizione finale, riesce a cogliere un particolare che, nella riproduzione mnemonica dei suoi studi di storia dell’arte, non aveva mai notato in tutta la sua carriera. L’arbitro che fischia la fine dei tempi supplementari di una finale e si avvia definitivamente tra gli insulti del pubblico vero gli spogliatoi, una metafora mica male per una vita professionale.

Ma leggevo poco fa di un tizio della NASA che, a ottant’anni e in pensione da un pezzo, amava tanto il suo lavoro da continuare a voler trascorrere le sue giornate portando i turisti a spasso per Cape Canaveral e di come ha condotto l’ultimo giro per i suoi visitatori prima di doversi ritirare per sempre. Ho pensato che uno così potrebbe essersi procurato, come me, il documentario che tenta di spiegare che il primo allunaggio in realtà è stata tutta una messa in scena, una specie di complotto cinematografico ordito contro gli avversari della guerra fredda per il quale è stato scomodato come regista addirittura Stanley Kubrick. Ecco, magari l’ex impiegato della NASA ha pensato di celebrare il primo giorno di lontananza dall’ambiente astronautico con un programma televisivo che avrebbe potuto aprirgli un nuovo punto di vista su quello che è stato il lavoro di una vita e dare una inedita chiave di lettura dei valori che ha cercato di trasmettere da sempre a migliaia di americani. Per poi scoprire che in quel documentario non c’è niente che possa essere considerato veritiero, come è successo a me, e cambiare canale dopo un po’, fino a spegnere la tv e a cercare un altro modo per passare il tempo.

no pentole, no party

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Ci sarebbe questa bellissima foto da fare con il pezzo finale di Corso Garibaldi – siamo a Milano, nota del blogger – con tutte le sue illuminazioni natalizie a forma di arco, a partire dal sagrato della chiesa di Santa Maria Incoronata. I caratteristici lampioni, l’ottocentesca Porta omonima e, dietro, i nuovi grattacieli di César Pelli e la guglia, uno scorcio tutto acceso all’imbrunire. Ecco che cosa mi aspetto dai Google Glass o da qualche altra diavoleria simile da indossare. Vedi una cosa che ti piace o che ti ispira, strizzi l’occhio – attenzione a non far equivocare le tue intenzioni a qualche avvenente passante – e la foto si salva in una micro-memoria flash che porti con te senza accorgertene. Non vedo perché non impiantata direttamente in un organo senza rischio di rigetto.

Vedo però qualcuno di quelli che sono con me utilizzare persino cellulari di vecchia generazione per fermare quel momento. In effetti non sono il solo a cogliere l’attimo, vista la profusione di intenzioni rivolte proprio da quella parte. Mentre sono persino sorpreso di riconoscere l’essenza familiare di un tabacco da pipa, mi chiedo con il naso all’insù chi siano i fortunati ad abitare gli appartamenti di queste zone un tempo operaie, ora tutt’altro. Che è un po’ lo stesso destino dei pescatori proprietari delle case in riva al mare di Camogli, per intenderci, la cui rivalutazione possiamo considerare un segno del cambiamento di fortuna a premio della tenacia di sopportazione del quartiere popolare nel primo caso, l’accanimento del tempo e la salsedine nel secondo. Se quelli che ci abitavano sessant’anni fa sono ancora vivi, sanno di cosa sto parlando.

Quanto a me, ho appena cambiato il canale di ricezione di uno di quegli apparecchietti che servono ai gruppi in visita turistica per seguire le spiegazioni della guida. Mi sembrava difettosa ma poi non era settata sulla frequenza giusta, comunque la spiegazione deve ancora incominciare e non mi sono perso nulla. La visita a questo suggestivo contrasto tra la vecchia e la nuova Milano, che non è ancora ultimata ma sembra che, a parte il parco che sorgerà, ci siamo quasi, non è ancora iniziata.

Fa freddo ma ci sono lo stesso ragazze in tuta da running che passano di corsa e si gettano dentro alla chiesa per un’Ave Maria ristoratrice. Il quadro è completato dai soliti venditori abusivi di tutto resi più agguerriti dall’atmosfera natalizia e dalla prossimità con la carità cristiana. Una donna del mio stesso gruppo acquista un fiore, mentre con me il ragazzo africano e i suoi libri non hanno nessuna possibilità.

La signora è la stessa che più tardi sarà l’unica a uscire con una busta di carta dal punto vendita Feltrinelli, aperto proprio nella nuovissima piazza Gae Aulenti, segno che ha interpretato perfettamente il senso dell’iniziativa. La gita, anche se gita non è perché viviamo tutti a una manciata di chilometri da qui, si deve concludere con un ricordo o più di uno. Gli altri, come me, si guardano reciprocamente a sincerarsi che il momento storico con crisi annessa e rivoluzione di contorno non ammette spese superflue, che già la visita guidata con tanto di pullman ha avuto il suo costo.

Ma non è questo il punto. Lungo la breve strada del ritorno, proprio mentre passiamo attraverso i nuovi snodi costruiti nell’area che davvero fa sembrare Milano una città europea – per qualche istante ho avuto l’impressione di trovarmi al Sony Center di Berlino – e la nostra guida preparatissima conclude il percorso con tutti i dettagli sul progetto dal punto di vista urbanistico, dal mio posto in fondo al pullman vedo le doppie file di teste canute che si sono iscritte, insieme a me, all’iniziativa. Era naturale, l’associazione che ha organizzato la proposta si rivolge a quel target di pensionati o giù di lì. Non è un problema, probabilmente la coppia di trentenni dietro di me sta pensando la stessa cosa ma, nell’insieme di capelli bianchi, ci ha messo anche i miei.

E non è nemmeno la prima volta in cui mi trovo ad abbassare l’età media di un gruppo. È la formula in sé che, riflettendoci, ha una serie di caratteristiche che, prima o poi, dovrò sempre meno considerare aliene. In quell’istante però provo il caratteristico sollievo alle membra, il contrasto tra il calduccio del riscaldamento contro l’intirizzimento e la spossatezza dopo appena tre ore di camminata, una cosa che sicuramente mi accomuna al resto delle persone che iniziano a sentire, come me, i morsi della fame. Finalmente siamo sulla via di casa.

memorie di un’estetista

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Poi arriva il giorno in cui sei costretto a darti una rassettata alle sopracciglia a causa di quei peli anomali che si ergono dal resto dell’arcata che sovrasta le palpebre in pieno spirito (tardo-)anarcoide di almeno due dita, proprio mentre poco prima consideravi con soddisfazione il piacere di immedesimarti ancora con un passaggio di una canzone tratta da “17 Re”. Ma il giocattolo, come vedi, si è rotto, e il gap anagrafico tra il dentro e fuori diventa incolmabile, complice anche l’illuminazione del bagno della casa in cui sei ospite che è diversa da quella solita con cui ammiri la tua età allegorica ogni mattina. Se bastava cambiare l’angolo di incidenza delle lampadine bastava dirlo subito e uno non si faceva tutti quei piani sul futuro.

Comunque è bene sapere che non c’è un servizio assistenza o una bottega aggiusta-tutto a cui portare la tua vita per fare il tagliando, perché se hai già superato la soglia della revisione con cadenza biennale, non è ancora stato inventato un espediente per indurti a considerare una frequenza sempre più ravvicinata di controllo come monito che sei sempre più da buttare via, in un mondo in cui l’innovazione a basso costo impone di stare al passo ma solo per convenzione. In realtà l’economia funziona in modo diverso e noi certo non saremo come i vecchi che ci hanno preceduto, in pensione da quarant’anni e a quarant’anni, con un potere d’acquisto che noi che sgobberemo senza nessuna garanzia fino agli ottanta ce lo possiamo scordare. Tanto meno esiste un alter-ego di cortesia come le Punto che ti mettono a disposizione quando ti rivolgi a uno di quei service di meccanici carrozzieri elettrauto a 360 gradi che ti igienizzano pure gli interni nemmeno aveste tutti la macchina come la mia.

Quindi? Ah be’, i casi sono due. O fai la tessera per essere ammesso nel club dei pittoreschi, quelli che guidano berline d’epoca ai raduni per fanatici in cui l’età non conta perché è il contesto stesso ad essere fuori da ogni tempo. Trovi i ragazzotti di provincia con la bianchina di papà e i papà con la millecento del nonno e i nonni con la topolino dei bisnonni e così via. L’alternativa è fare lo sportivone fino a quando il fisico te lo permette e portare la moglie imbiancata e il cane sul camper fino alle piazzole vacanza raggiungibili al limite del teletrasporto. Darti alla montagna, per esempio, che tanto poi altro non è che una interminabile quanto soddisfacente alternanza tra sentieri impervi lungo i quali è d’obbligo salutare tutti e piatti sugnosi di specialità locali, da consumare facendo finta di esserseli meritati. L’inganno che camminare in quota con la camicia a scacchi mette appetito. Mentiamo sapendo di mentire.

Se hai problemi di colesterolo e uova, wurstel, patate saltate e birra sono agli antipodi della tua dieta, ci sono però un paio di possibilità, sempre che tu voglia risparmiarti a un sereno declino verso il parcheggio a pagamento che la società riserva agli improduttivi ipertesi, talvolta incontinenti che è comunque un lusso rispetto a non starci più con la memoria ed esprimerti a versi. Puoi fare quello un po’ tocco, che se sei povero al massimo dai spettacolo alle comunioni dei tuoi nipoti ma se sei ricco finisci a organizzare festini scollacciati con travestiti brasiliani e igieniste dentali nella taverna della tua villetta a schiera ad Arcore. Oppure ti resta solo una possibilità per superare ogni ostacolo e trovare la sintesi, ed è diventare un anziano tedesco.