emancipate yourselves from mental slavery

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Il 27 giugno del 1980 ero lì, non proprio sotto il palco ma nella massa di persone arrivate un po’ da ovunque per un concerto che è già passato alla storia. Bob Marley a San Siro, Milano. Stavo con I., ai tempi, che aveva una R4 scura costantemente satura di fumo, in tutti i sensi. Soprattutto di fumo di fumo. Di canna. Ma I. ed io eravamo già passati oltre. E quel pomeriggio, stesi nel prato in attesa della sera, tra una canzone di Pino Daniele e un groove della Average White Band, ci siamo strafatti. Eroina, certo.

Eravamo in tanti a strafarci. Se mi guardo indietro, non c’è stata la solita gavetta. Le Camel, la canna e la siringa. C’è stata tanta sfortuna, molta emulazione, un incidente dietro l’altro, un po’ di debolezza e di disinformazione, solitudine percepita non a livello individuale, ma di massa. Un esercito di giovani, soli tutti insieme, specialmente nel posto dove sono nata e dove ho vissuto. Gli spari intorno e i boati delle bombe che deflagravano lontano, sì, qualcuna anche in città. Ma chi se ne importa, stava già tutto per finire. Meglio chiudere la realtà in bianco nero fuori e concentrarsi sugli effetti stupefacenti e multicolore della droga. Hai mai provato l’eroina tu per parlare? Guarda, provala e poi mi dici. Non smetteresti mai.

E la cosa paradossale è come mi sono lasciata convincere a iniziare, così mi sono lasciata convincere a smettere. La mia famiglia si è ribellata e ho mollato I., quindi ho mollato l’eroina e ne sono uscita. Ma la sfortuna, dicevo. Non dalla sfortuna. Oramai si stava diffondendo come metastasi nella mia vita. Le scelte sempre sbagliate. Un marito alcolizzato, qualche anno dopo, quanto me. Ironia della sorte: ci siamo conosciuti in ospedale, entrambi già con il fegato a pezzi e l’epatite. Quando si è speso tutti i soldi del suo lavoro ancora in droga è scappato via, per fortuna.

Così ho puntato tutto sui miei genitori, su mia sorella, su un paio di cugini e qualche amico, quelli che però se ne approfittavano (avevate ragione voi, mannaggia), mi hanno chiesto soldi per i loro problemi e glieli ho dati. Praticamente tutti. Poi ancora tante bevute, un lavoro tutto sommato decente, ma che fatica. Qualche anno fa, infine, ho iniziato ad avere seri problemi. Psicofarmaci e alcol, a volte a giorni alterni, a volte contemporaneamente.

Avrebbe potuto essere altrimenti? Prima è morta mia mamma, poi poco dopo mio papà, che ormai era nel delirio più completo. Ed ecco che mi sono sentita nuda, non ho niente (se non una tetto che mi avevano comprato i miei, per fortuna) e non so cosa devo fare. Qui non c’è mai stato niente da fare. Sempre più vecchia, sempre più in crisi. Sempre a piangere, al telefono con tutti. E non c’era più mia madre, nessuno mi avrebbe più consolato.

Qualche mese fa, ho bevuto di brutto e preso le pastiglie. Sono salita sul motorino ma il coma etilico mi ha buttato giù. Hai pensato anche tu che fosse l’inizio della fine, vero? Io si. La polizia mi ha sequestrato lo scooter, non sarei potuta più andare al lavoro, ma quello era irrilevante. Il mio fegato ormai era finito. In ospedale sono stata messa in lista d’attesa per un trapianto. Sì, un trapianto. Non me l’avrebbero mai fatto. Perché se continui a bere, perdi il tuo posto. Vai in fondo.

Mia sorella e la sua famiglia, gli unici rimasti a prendersi cura di me, sono stati così cari. Ho trascorso il natale con loro, gonfissima, ma con un po’ di speranza. Di essere fortunata, almeno una volta, nella vita. E lo sono stata: stanotte sono morta. Ho spento tutto, a 50 anni. Anzi, una polmonite mi ha spento. Fa sorridere, vero? Sopravvissuta a un investimento in vespa, siringhe condivise, botte di alcool e tranquillanti. Chissà che altro che non ti ho mai detto. Per poi morire per una polmonite.

Scusa, ho perso il filo. Ti dicevo del concerto di Bob Marley a San Siro. Qualche settimana dopo, quell’anno, sul divano di velluto blu che era nell’ingresso di casa della zia, tua mamma. Io, tu, le tue sorelle. Ascoltavamo musica. Tu avevi 13 anni, giusto? Ma ti eri impallato con il reggae. Lo eravamo un po’ tutti ai tempi. Insomma, ho tirato fuori dalla borsa il biglietto, quella parte che rimane a chi va ai concerti, e che i fanatici come me e te tengono nel portafoglio. C’era Marley di profilo con una canna in bocca, su sfondo verde giallo rosso. Senza che me lo chiedessi ti ho regalato quella reliquia, visto che tu, a 13 anni, non avevi giustamente avuto il permesso di andare.

Senti però, prima che questa tua elegia funebre diventi patetica, e già lo è abbastanza, fai una cosa. Chiudi le virgolette, metti un punto e finiscila qui. E, se proprio vuoi dedicarmi un pezzo, che non sia Redemption Song“.

Ok Gabri, niente Bob Marley. Rimaniamo in silenzio.

buonanotte, sì, buonanotte.

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Buonanotte, detto un po’ alla romana. È così che Masi saluta Santoro al termine del suo intervento telefonico, con il quale dichiara di dissociarsi a priori (lo riporta integralmente Il Post). Mai un saluto fu più appropriato, anche se ormai ci siamo già, in piena notte. Parla di questa notte Giannini su Repubblica, e pensavo giusto poco fa al paragone tra i 2 momenti più difficili della Repubblica. L’altra notte, quella zavoliana, per intenderci, non l’abbiamo mai superata del tutto, a differenza di quanto si creda. Prova ne sono gli incubi che ci tormentano, quelli più di moda (Battisti dal Brasile) e quelli un po’ demodé (Zorzi dal Giappone). E questa notte, altrettanto terrificante perché, non essendo sanguinaria, permette a molti di fare sonni tranquilli, rendendo tutti ignari di come ci si sveglierà domani.

del casco di scipio

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Le teste rasate erano nove, compresa quella vuota e inutile di sallusti.

be-bop-a-Lula

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ancora tu? ma non dovevamo vederci più?

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Se Lula anziché Battisti ci manda indietro gli Audio2, LaRussa nemmeno se ne accorge.

P.S. Ma esistono ancora?

anarcronismi

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Sparare sulla croce bianca in campo rosso. Tutti i dettagli sui pacchi insurrezionatalizi da Il post, e, da Repubblica, qualche info in più sulla creatiNità che si ribella.

Sotto la Fai hanno infatti rivendicato attentati la Cooperativa Artigiana Fuoco e Affini (occasionalmente spettacolare), la Brigata 20 luglio, le Cellule contro il Capitale, il Carcere, i suoi Carcerieri e le sue Celle, e Solidarietà internazionale. Anche la scelta degli obiettivi, secondo gli analisti, è un ulteriore elemento che riporta al mondo anarco-insurrezionale: in Svizzera sono detenuti due anarchici italiani, Costantino Ragusa e Silvia Guerini e lo svizzero ticinese residente in Italia, Luca Bernasconi. I tre sono stati arrestati dalle autorità svizzere lo scorso 15 aprile con l’accusa di preparare un attacco contro una sede dell’Ibm: nella loro auto sarebbero state trovate ingenti quantità di esplosivo.

quella sera

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Riporto qui una conversazione da birra media al pub, una vera e propria amichevole confessione (più che intervista) a E. e B., amici di vecchissima data con me e tra di loro, nonché co-fondatori del mio primo vero gruppo rock. Un pour-parler (con dignità di associazione di questo post alla relativa categoria) per ricordare – da profani del calcio quali eravamo, un po’ per posa – Enzo Bearzot. Ma soprattutto Pertini, l’82, i nostri 15 anni, il secolo breve e quello brevissimo che ne è derivato, il PCI quale partito di massa che era, le salamelle alla Festa dell’Unità, il disimpegno anarcoide come primo sintomo del riflusso, un paio di ragazzine fonte di ispirazione della nostra arte, come si sta meglio da adulti tutto sommato, varie ed eventuali.

B.: “Non ricordo come è nata l’idea, come ci si era messi d’accordo, il perché e il percome”.
E.: “Già. Seguivamo il calcio a singhiozzo. A me non importava più di tanto, perché, prima di tutto, eravamo musicisti”.
B.: “Aspiranti”.
E.: “Molto aspiranti. Avevo visto le prime partite del Mondiale, ma, un po’ per scaramanzia – la nazionale non era andata così bene – un po’ per noia, un po’ perché le tipe che ci piacevano non seguivano il calcio, vi ricordate? Insomma, al terzo pareggio mi ero stufato”. Così, mentre tutti erano incollati alle telecronache, noi si andava in giro con la nostra scorta di mini-groupies.
B.: “In realtà noi eravamo i groupie di quelle tipe lì, che non erano mai necessariamente una a testa. Il rapporto era 2 o più ragazze che miravano a uno di noi, o 2 o più ragazzi che miravano a una delle 2 o più di cui sopra”. Incroci o catene sentimentali che minavano l’unità, con la u minuscola. Quella della Sacra Famiglia Indissolubile dell’Antico Legame del Rock’n’Roll. B.:” Tu ai tempi eri ancora e perennemente all’asciutto, vero?” Nulla di strano. Questo era quel che succedeva tra quindicenni un po’ sfigati e di provincia.

I Mondiali dell’82, dicevamo. La risalita a testa alta della nazionale, grazie al carisma non-carisma di Bearzot e ai gol non-gol di Paolo Rossi, l’avevamo seguita sbirciando nei bar gremiti, davanti ai negozi di elettrodomestici con le TV sintonizzate sugli stadi spagnoli, l’audio rubato dalle finestre aperte nella canicola ventilata della riviera. Come se ad aumentare la sudorazione non fossero sufficienti gli ormoni già in subbuglio.

B.: “Ricordi? Ero innamorato di S., che a sua volta non era innamorata di me ma di E. S. non faceva parte delle groupies, quindi era estremamente difficile incontrarla a spasso, con le amiche”. Altro che Italia contro tutto il resto del mondo. Né musica, né calcio, né politica. Solo far colpo.
E.: “Probabilmente S. seguiva le partite ai Bagni, con la sua famiglia.  S. aveva 13 anni, mentre noi scorrazzavamo per la città a perdere tempo, bere spuma e giocare a Space Invaders, in attesa di chiuderci a sudare in sala prove – la scusa delle prove – con quelle groupies più spregiudicate e consapevoli di accompagnarsi a musicisti”. Siamo tutti concordi: S. e le sue amiche perbene non avrebbero mai accettato l’invito a trascorrere il pomeriggio con dei veri tamarri come noi, se non all’insaputa dei genitori. Non uscivano nemmeno di sera da sole.

Venne poi il giorno della finale. Quella sera che, come ho già accennato, è stato il vero spartiacque. Chi l’ha vissuta (in un modo o nell’altro, come il mio) e chi no o non ricorda, perché troppo piccolo. L’ultima sera degli anni 70, capitata solo per caso nel 1982. Ma a me, partecipare alla chiusura di un ciclo socio-culturale-politico avrebbe fatto paura, probabilmente, se solo l’avessi saputo. E in genere, tutto mi interessava poco. Ero un musicista (aspirante). Così R., il nostro batterista, ci propone di voltare le spalle all’appuntamento con la storia per un concerto jazz di Tullio De Piscopo alla Festa dell’Unità. Ottimo.

E.: “Non ricordo granché delle ore precedenti, come abbiamo raggiunto l’area concerti”. Poi però abbiamo il flash. “Ecco: noi tre e R., seduti al tramonto, in tutto meno di 10 persone sparsi tra le file di sedie. Fuori dalle transenne invece la ressa di spettatori e tifosi agli stand e ai ristoranti del Festa. Anche il banchetto del circolo Italia-URSS con la tv accesa: grida di approvazione, gemiti, parolacce e bestemmie”. Ma non si trattava di un problema di appartenenza, di tessera di partito, di anime votate alla sezione di militanza ricondotte, come chiunque altro in quel momento, ad una unica trama patriottica e popolare. Nessuno di noi si era posto il problema che forse, visto da qui, il nostro atteggiamento poggiava semplicemente su un qualcosa di radicato e inconscio, un background culturale di un’altra epoca, già finita e presto dimenticata.

Silenzio, sta per iniziare il concerto? B.: “Avevo giusto notato, sul palco, una strumentazione un po’ poverella per il calibro dell’artista”. Stiamo parlando di Tullio de Piscopo. E.:”Anche io. Batteria di sottomarca, tastiere (curioso per una formazione jazz), amplificazione sottodimensionata per l’evento”. Fini osservatori: uno degli organizzatori sale sul palco avvertendoci che (non con queste parole) De Piscopo non suonerà. Già. Anche lui e i suoi musicisti si sono barricati in qualche hall di albergo a soffrire sulla partita. Ma non tutto è perduto. Al suo posto, al termine della finale, si terrà l’esibizione di una cover-band (ai tempi non si chiamavano ancora così) locale. No. Lo scambio con il concertino dei V., che suonano roba tipo “What a feeling” o “Betty Davis Eyes”, è al di sotto della nostra soglia di tolleranza.

Ma, nel frattempo, ignara del colpo inferto alla nostra adolescenza, la storia segue il suo corso. E di contorno, ad ogni gol della nazionale, la massa urla di gioia, i compagni saltano, si abbracciano, dispensano gratuitamente vino, birra e salamelle. Noi, irriducibili, rimaniamo lì, a discutere come un gezzista del calibro di De Piscopo possa rinunciare ad esibirsi per seguire una banale partita di pallone. B.: “Ma sapevamo il perché, a giudicare da come tutti, intorno a noi e tranne noi, si stavano divertendo”.

Insomma, la finale finisce, l’Italia, tutta, quella guidata da Bearzot e quella guidata da Pertini solleva la coppa ed esce dalla sua interminabile “notte zavoliana”. Tutta la nostra città si tinge di azzurro, a migliaia si riversano nelle strade e nelle fontane a festeggiare. A milioni in tutto il Paese, pronti a barattare 15 anni di tensioni, di lotta, di diritti conquistati, di segreti di stato con un notte di orgoglio, da stemperare presto davanti alla tele al primo che avrà il guizzo imprenditoriale di catturare il disimpegno e di congelarlo davanti a Ezio Greggio e a un paio di quinte abbondanti tracimanti dalle scollature.

E noi, ignari e infelici. E.: “Io ero amareggiato perché, in un colpo solo, avevo perso la finale e un concerto. Avevo persino litigato con mio padre perché voleva che seguissimo l’incontro insieme. Mi spiace, non ve l’avevo mai confessato”. Anche i miei genitori erano stupiti della mia scelta. Io avevo argomentato semplicemente con un “chissenefrega, al massimo la vedrò in differita quando ritorno a casa”.

E anche questa è una storiella più o meno senza finale. Io, R., E. e B. ci stiamo avviando verso i nostri odiati-amati domicili, tra il tripudio generale. Ad un semaforo incontriamo S. con le sue amiche e le loro famiglie. B.: “Ricordate? S. aveva una maglietta azzurra e un nastrino tricolore sulla fronte”. Si stanno dirigendo nel posto da cui noi stiamo tornando, per festeggiare con tutti. Abbiamo orari e esigenze opposte. E non c’è dubbio: S.  è bellissima, all’unanimità. Con le amiche si stacca dal gruppo e ci raggiunge, scambiamo qualche parola, ma è stupita (delusa, direi) del fatto che non abbiamo visto la partita. Un po’ imbarazzati ci salutiamo e ci separiamo. S. e la amiche a festeggiare in piazza. Proseguiamo così il rientro da reduci, frastornati dal nostro titanismo inconsapevole, incompreso e controproducente, dannoso se si vuole far colpo sulle ragazze carine e perbene. A casa, i miei  brindano con spumante e pasticcini. Che esagerazione. C’era ancora mia nonna ed era arrivato da poco un gatto, bianco e nero. Io ricordo di aver acceso la TV e di avere visto i gol a uno speciale, uno dei tanti. E di non essere riuscito ad addormentarmi tanto presto.

in un presunto articolo di un presunto giornalista di un presunto quotidiano online

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Articolo sul Corriere.it, in questo momento. Nello screenshot del video, il gesto fatto dal ragazzo all’estrema destra (in tutti i sensi) con il braccio alzato, non è piuttosto eloquente?

Macché. Tutta colpa della “presunzione”. Vietato sbilanciarsi troppo:

ceffoni preventivi

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Siamo a 4, se non erro. Spero di non aver dimenticato nulla. Nel caso,  segnalatemi le facce da schiaffi e pugni, o colpite  da souvenir, dell’attuale maggioranza, centrale o locale (valgono anche zerbini e portavoce collaterali vari). Gli autori? Tutti facinorosi estremisti di sinistra, ovviamente. Il mandante? Il PD, prima di Franceschini, poi di Bersani. Dunque, nell’ordine:
1. Souvenir del Duomo di Milano in testa a Berlusconi
2. Pugno in faccia a Capezzone
3. Schiaffi e pugni (e digestivo amaro) a Emilio Fede
4. Pugno a De Corato

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un po’ di chiarezza sui piumini imbottiti che proteggono dalle infiltrazioni