volevo dire che ho avuto un anno meraviglioso

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E se è così anche per voi fate attenzione perché non è proprio come Facebook ci fa credere che sia stato. Perché se Amazon sostituirà Babbo Natale nella tradizione, come dicevamo qualche giorno fa, è evidente che Facebook sta facendo di tutto per prendere il posto dei nostri cari, dei nostri amici più intimi, persino dei coniugi, degli amanti e dei parenti che vivono oltreoceano. Pensate al danno emotivo che ci stanno facendo le conversazioni scritte lungo i socialcosi e alla faccia con cui vi osservate muti di fronte alla persona in carne ed ossa dal cui incontro fisico non potete certo esimervi, prima o poi, se fate sul serio. Moltiplicate tutto questo per 365 giorni di cose condivise ed ecco il calendario di fine anno messo insieme da un algoritmo anaffettivo che ha pescato con un criterio di approssimazione da un database colmo di quei big data di cui tutti si riempiono la bocca. Ne esce, nel mio caso ma vi invito a condividere la vostra esperienza, un coacervo di indicazioni sul proprio modo di essere online che vi accorgerete non essere nemmeno utile per una semplice carrellata degli ultimi dodici mesi. Senza contare che la copertina e il fulcro di questo blobbone di scampoli di vita alla rinfusa, e stavolta parlo di me, è una foto di mio papà che accompagna all’organo una corale che ho postato la sera in cui è mancato. Certo, non si può dire che non sia stato quello il motivo per cui mi verrà da ripensare al 2014, sta di fatto che la proposta indistinta di uno strumento di questo tipo a milioni di utenti mi sembra oltremodo rischiosa. Avete capito, vero, il funzionamento? Potete scorrere i vostri ricordi più recenti, personalizzare la copertina, scrivere le didascalie, manca solo un modo per mandarlo in stampa e farselo recapitare. No, questo non si può fare, stavo scherzando, ma è possibile invece condividerlo con i propri contatti ma potete essere certi che nessuno verrà mai a rivangare con voi quello che è stato. Questa compilation di cose apprezzate a suon di like ha la stessa consistenza di quando incontri qualcuno e ti chiede come stai per educazione, e tu non puoi non rispondergli che va tutto bene, per evitare approfondimenti su qualunque cosa esca dai canoni della convenzione sociale e di quella attitudine alla convivenza superficiale che ci fa ammettere un sistema basato su questo genere di contatti virtuali. Per questo volevo solo dirvi che ho avuto un anno meraviglioso. Credetemi, è andata proprio così e non c’è bisogno di aggiungere altro.

10 cose da non scrivere nei messaggi di risposta automatica

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Che poi che senso ha utilizzare questa pratica non l’ho mai capito. L’aspettarsi che uno ti risponda subito a una e-mail è un segno dell’imbarbarimento collettivo in ambito professionale, e non dite che lo fate perché tutti si aspettano che uno sia lì sempre pronto perché è una scusa e dovremmo iniziare ad abituare i nostri interlocutori professionali che, se hanno urgenza, alzano la cornetta o quello che si usa adesso e ci chiamano. Scrivere una e-mail di lavoro comporta attenzione, cura, tempo e concentrazione per pensarla, scriverla, rileggerla, rileggerla una seconda volta per correggere i refusi, rileggerla una terza volta per sistemare la punteggiatura e quindi inviarla. Ricordatevi che le parole sono importanti. Rimangono lì pronte a ritorcersi contro di voi se sono scritte male e danno un’idea di come siete, almeno a me lo fanno, pure nell’era delle abbreviazioni e del pressapochismo comunicazionale. Questo per dire che avvisare in modo automatico che siamo via o anche solo al cesso e che non possiamo rispondere al volo è una pratica fuori dal mondo anche perché non è vero. La gente controlla la posta elettronica anche quando è in ferie, figuriamoci se è in trasferta o in riunione. E collezionare i cosiddetti autoreply è un’attività tutto sommato divertente perché permette di avere una raccolta dei cazzi degli altri. Già è fuori dal mondo avvisare che non siete lì pronti alla risposta, scrivere anche il motivo è un affronto alla vostra privacy. Se siete in trasferta di lavoro all’estero, a casa con la febbre/emorroidi/emicrania/scarlattina, in ferie, se qui in Italia è bank holiday anche se non siete allo sportello a contare denaro sonante, se avete i figli malaticci e non potete mollarli a nessuno perché la vostra famiglia di origine vive agli antipodi. Se partecipate a un evento, a un training, al meeting termonucleare globale, sulla luna oppure semplicemente è uno di quei giorni in cui volete farvi i fatti vostri alla faccia dello sviluppo economico dell’azienda in cui lavorate, del mercato di riferimento, dello stato di cui siete contribuenti, di questo stupido mondo mondiale, tenetevelo per voi. Iniziamo un nuovo rinascimento della cura del sé, del decoro individuale, della pulizia nei comportamenti sul posto di lavoro che offriamo e ci aspettiamo di rimando. Non flaggate quell’opzione sul vostro client di posta: il mondo può aspettare e tollererà, ne sono sicuro, la vostra scelta di non esserci quando vi pare e piace.

convertiti al rigore dallo storytelling di un prodotto da supermercato

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Te lo dico io, Roberto, quando siamo diventati bacchettoni. E mi ricordo addirittura l’istante esatto: la relatrice è passata alla slide successiva e sullo schermo sono apparsi due casi di social media marketing di successo riguardanti la Nutella e le Gocciole. C’era un fetta di pane con la Nutella che si aggrappava a un palo per il forte vento fresca fresca di un post sulla sua pagina Facebook. A fianco un’analoga iniziativa con un biscotto con i capelli neri e lo stecchino in bocca che doveva somigliare a Roberto Benigni. Entrambi gli esempi riportavano a fianco numeri che non sono passati inosservati al pubblico della prima giornata del SMX 2014, un vero e proprio happening della comunità di professionisti del marketing digitale. Centinaia e migliaia di fan della crema alla nocciola e dei biscotti industriali – prodotti di cui anche mia figlia è ghiotta, sia chiaro – che hanno speso del tempo per dimostrare la loro approvazione a quel tentativo di conversazione tra brand e audience. C’è quindi uno storytelling della Nutella e delle Gocciole, ci sono risorse dedicate che hanno fatto di quello il loro lavoro, che per carità ha la sua dignità tanto quanto un tornitore, un maggiordomo o un dog sitter. Comunque appena abbiamo percepito e sedimentato il senso di quella slide, è proprio in quel momento che siamo diventati bacchettoni. Ed è una fortuna, Roberto, che io e te non viviamo in una società di integralisti religiosi o che non siamo in quei posti sperduti delle Louisiana dove ci sono quei pazzi da True Detective che quando vanno in tilt si comprano i mitragliatori al supermercato sotto casa. A me e a te ci girano i coglioni già quando arriviamo al nuovo quartiere fieristico e leggiamo gli striscioni “Benvenuti in Europa” sulle transenne intorno ai cantieri con gente che chiede l’elemosina e proprio dopo un treno in ritardo di mezz’ora e fermo sotto una galleria in cui il telefono non prende. Oppure ci innervosisce la presenza di un frigobar pieno di bottiglie di Carlsberg gratis proprio oggi che siamo nel pieno del periodo no-alcol, una specie di fioretto che non si sa bene per chi o per cosa è in corso. E c’è pure la festa di Twitter, stasera, a inviti e io e te non siamo stati invitati, nel locale di un’altra creatura di questo pazzo pazzo occidente che è uno di quei Masterchef di successo che – e qui ci starebbe una bestemmia – fino all’altro ieri pasteggiavamo a tagliolini in brodo e polenta e oggi siamo vittime di questa follia collettiva consapevoli che poi, Cracco o non Cracco, tutto dopo si trasforma in merda. Così mentre divampano sempre più focolai della guerra dei poveri nelle nostre banlieue che hanno nomi evocativi del calibro di Torpignattara, mentre la scelta tra le personalità che dovrebbero offrirci la sintesi della politica va dalla destra postfascista alla destra populista anti-euro fino alla destra post-razzista – quella che ci vuole far credere che i posti come Torpignattara erano belli come San Gimignano prima che arrivassero gli stranieri con i loro costumi inadeguati – ecco nel bel mezzo del progresso di diversi colori tra i quali il nero e basta (cit.), anzi no anche il verde dei nostri conti bancari, proprio oggi in cui questo rifiorire di narrazioni sui pomodori pelati capita in un momento storico in cui a malapena siamo in grado di capire il senso di un avviso sul libretto delle comunicazioni tra la scuola e la famiglia dei nostri figli. Ecco, in questo squallore illuminato solo dai nostri smartcosi accesi giorno e notte, il problema sembra essere il posizionamento esistenziale delle aziende, una volta definito il quale noi, sul nostro social network preferito, possiamo finalmente decidere se stare con il prodotto ed essere brand ambassador, oppure no. Non dare il nostro like alla pagina. Trollare chi si spende per intavolare discussioni costruttive con il community manager del Philadelphia. Non c’è da stupirci così se diamo diventati bacchettoni e va bene esserlo in qualunque disciplina che ci consenta di annullarci fisicamente in qualche modo, come quelli che si preparano per fare le maratone nelle varie città del mondo e si allenano anche tre volte al giorno. Occorre davvero un rigore ma parlare di morale non me la sento, perché sia io che te, Roberto, siamo costretti a dare anche il nostro contributo in questo mondo che ha dell’osceno e, a dirla tutta, non capisco però quale sia stato il punto in cui era evidente che sarebbe andata così e nessuno ha fatto nulla per impedirlo.

il numero uno delle scarpe online

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Pensate se l’evoluzione del marketing seguisse le tecniche di quello digitale che quando ti soffermi a valutare un paio di scarpe stringate in camoscio marrone su un sito poi è tutto un proliferare di scarpe stringate in camoscio marrone. Scarpe stringate in camoscio marrone nella pagina della posta, scarpe stringate in camoscio marrone nella home di Facebook, scarpe stringate in camoscio marrone ai lati dell’articolo di giornale, scarpe stringate in camoscio marrone stampate sul banner del sito in cui cerchi la corretta rappresentazione della relazione tra due insieme disgiunti per i compiti di prima media di tua figlia. Succede che poi di scarpe stringate in camoscio marrone non ne puoi più e sicuramente esisterà un sistema per mettere un argine a questa sovraesposizione compulsiva pensata da un sistema diabolico ma volta al tuo compiacimento per sfinimento. Magari un controllo che al ventesimo advertising dello stesso prodotto di scarpe stringate in camoscio marrone basta, non passa più e si torna a vivere sereni fino a quando tua moglie cerca una felpa blu con cerniera per la bambina e tutto riparte da capo con le felpe blu con cerniera che te le sogni pure di notte, fino alla ricerca successiva.

Provate quindi a proiettare questa tecnica sulla pubblicità diciamo tradizionale, quella che non notate più sui cartelloni perché non è abbastanza coinvolgente come quella tutta scatti, faccine e volumi che si alzano a tradimento durante una qualunque navigazione in internet. Provate a far finta che soffermarvi davanti a una vetrina per sbirciare il prezzo inarrivabile del cappotto imbottito e impermeabile poi generi le stesse conseguenze. Vi passano appresso una serie di persone che indossano quel cappotto e che ammiccano come a dire “sono bello, vero? Potresti essere anche tu così. chiedimi come”, il vigile urbano all’incrocio vi lascia libero l’attraversamento sfoggiando ancora quel modello ma in versione forze armate, acquistate Repubblica e la foto di Renzi in prima pagina non lascia dubbi sulla condivisione dei gusti in fatto di abbigliamento, ha proprio lo stesso cappotto e la cosa prende una piega sempre meno piacevole. Fino a quando in ufficio numerosi vostri colleghi sfoggiano lo stesso modello che vorreste acquistare riponendolo sull’appendiabiti con il cartellino del prezzo ancora attaccato all’asola del bottone, poi arriva il ragazzo del bar a portare la colazione all’amministratore delegato e ha lo stesso capo (nel senso del cappotto, che cosa avevate capito) coperto da un grembiule per evitare le macchie dello zucchero a velo, e via così fino ad arrivare a sera che, se siete come me, di quel cappotto ne avete fin sopra i capelli ma non è niente perché la mattina dopo è la volta di un avvitatore automatico a batterie completo di punte da trapano e vediamo, alla lunga, che cosa rimpiangerete.

zero punto zero, ovvero la vita prima di Internet

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E voi, la vita prima della rivoluzione Internet ve la ricordate? Quella in cui era tutto sulle nostre spalle a partire dalla responsabilità delle opinioni perché non c’era nessun modo per esprimersi senza metterci la faccia fino alle telefonate fatte alle ragazze, con la speranza che nessuno rispondesse al loro posto, tanto meno il padre. Federica, per esempio, aveva il papà maresciallo dei Carabinieri, e quando sentivo la sua voce buttavo giù. La madre di Tiziana, invece, che aveva scoperto la nostra tresca sul nascere, mi aveva detto chiaramente che non voleva che la figlia intrecciasse relazioni con tipi come me, tutti vestiti di nero con la cresta cotonata. Ma non è solo questo. Che cosa facevamo prima? Con cosa impiegavamo tutto il nostro tempo libero prima di diventare tutti blogger, grafici, battutisti di twitteratura o commentatori dell’attualità? Che cosa ce ne facevamo di tutta questa libertà dalle schiavitù digitali e di tutta questa privacy? Potremmo chiudere qui con una bella generalizzazione, dicendo cioè che ci siamo dimostrati omuncoli della peggior specie se abbiamo dimostrato in fondo che non aspettavamo altro che dei sistemi di intrattenimento statici audiovisivi e più o meno gratuiti per gettare alle ortiche secoli di arti e mestieri e abilità varie. Quanto parliamo di meno, per esempio. E non ditemi che la messaggistica istantanea e i social network permettono invece di mantenere rapporti remoti altrimenti impossibili da coltivare. Vero, ma non era questo il punto. Ditemi: quanto parliamo di meno? Tra di noi. Quanto ci confidiamo di meno, quanto cerchiamo dentro le cose che fanno divertire, quanto riusciamo a inventare per stupire il prossimo esaminandoci nell’intimo. Non ne faccio un metro di giudizio etico, né sto dicendo che la cosa mi piaccia di meno o di più o preferisco oggi a ieri o viceversa. Parliamo di meno perché il significato orale si discosta troppo dalla rappresentazione grafica e visuale, e a causa della frustrazione di non poter emettere una proposizione fatta e finita simultaneamente con un tasto invio che ci dia la consapevolezza del suo insieme, ma dovendoci esprimere parola per parola e sillaba per sillaba, con tutto l’andamento temporale che ne deriva così monodico nell’era del multitasking, inconsciamente facciamo un passo indietro e tentiamo un gesto, un escamotage, un imprevisto o un link stesso a un contenuto multimediale a potenziare la debolezza delle parole pronunciate, a cui non siamo più abituati. Ecco, ditemi voi: com’era la vostra vita prima di Internet?

sempre al computer

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Il trucco, lo sapete, è quello di non farsi beccare con troppa frequenza con le mani nel sacco perché figli e compagne di vita non ammettono i comportamenti reiterati viranti al maniacale che è un po’ lo specifico maschile, da sempre e a ogni latitudine. Non so, immagino mogli svizzere nelle epoche precedenti alla rivoluzione industriale che riprendono i mariti rei di passare tutto il tempo libero a intagliare il legno, o bambini giapponesi che piangono con le loro madri il proprio papà sempre assente perché preso dall’arte dell’origami nel suo tempo libero.

Ed ecco l’elemento chiave che ci frega, quel tempo che noi consideriamo libero di essere riempito esclusivamente da attività che la nostra forma mentis impone come soggette a un metodo. Un fenomeno compulsivo che ci incastra in una sorta di monogamia all’estremo con un unico interesse. Vi vedo con le vostre navi di legno, pensierosi al cospetto di puzzle da milioni di tessere, nei vostri garage con la maschera da saldatori, seduti in riva a pozze d’acqua artificiali con la canna in mano, quella da pesca, in attesa che qualcuno o qualcosa abbocchi. Peccato che tutti questi catalizzatori di solitudini siano stati pian piano soppiantati da passatempi in cui la poesia, se proprio la vogliamo dire tutta, è piuttosto carente.

Papà è sempre al computer è quanto di peggio un uomo possa sentirsi dire soprattutto se colto in fallo proprio nel corso di un tentativo di moralizzazione genitoriale verso il proprio figlio. C’è poco da fare la ramanzina contro la svogliatezza di un pargolo o per costringerlo a spegnere la tv se poi noi, dal nostro pulpito fallace, diamo il cattivo esempio con le nostre attività virtuali. Fotografia digitale, musica digitale, narrativa digitale. Che non ci sarebbe poi nulla di male, credo, se avessimo un po’ più di senso della misura.

L’evoluzione dell’uomo, nel senso di genere maschile, prevede l’aver sempre qualcosa in mano di connesso alla rete e la conseguente immersione in quel brodo primordiale in grado di fornirci un’esperienza totalizzatrice mai vista nella nostra specie. Perché c’è tutto, ogni senso è appagato, persino l’olfatto con quell’odore della plastica hi tech appena spacchettata dal cartone di Amazon. Siamo pronti a sacrificare salute e felicità per proiettarci nel buco luminoso da svariati pollici che teniamo sempre acceso, in stand by o protetto da custodie di fabbricazione cinese, laptop o tablet o smartphone sempre nel quadro visivo per riuscire a dare un’occhiata quando non ci vede nessuno o fottendocene bellamente, a costo di fare la figura di quelli che della tecnologia oramai sono dipendenti.

Così questa schiavitù a banda larga metterà la parola fine alla nostra attendibilità di educatori, e non ci sorprenderemo più di essere rappresentati nei disegni dei nostri figli un po’ separati dal nucleo famigliare, con lo sguardo rivolto altrove, molto più piccoli rispetto al resto dell’ambiente abitativo, tutti presi dalla nostra passione per Internet mentre il resto dei nostri cari, colorati e almeno sulla carta lieti animali domestici compresi, si tiene per mano.

lavorare con l’Internet accesa ci farà diventare schizofrenici

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Ma anche un semplice e comune deficit dell’attenzione non ce lo leverà nessuno. E scrivo questo proprio perché mi è venuto in mente che avrei potuto scrivere un post come questo, lasciando così a metà un lavoro che stavo portando a termine dopo aver interrotto una mail che stavo scrivendo, dopo che avevo dovuto rispondere a un’altra mail in cui mi si richiedeva un intervento urgente e che non avevo mica concluso, considerando che è stato necessario interrompere l’attività che devo portare a termine entro questa sera. Il tutto mentre ricevo notifiche dall’antivirus, segnali acustici da Skype, mi compare la finestrella che l’upload è terminato, la collega commenta a voce alta quelli che sui giornali scrivono miglior film straniero e invece la dicitura corretta è miglior film in lingua straniera, e coinvolge in una discussione sterile e fine a se stessa gli altri colleghi in stanza con me. Questo con Internet non c’entra ma distrae allo stesso modo. Così devo mettere in stand-by tutta questa serie di attività, di ragionamenti e di file, persino, lasciati aperti per mettere le cuffie e accendere la musica per isolarmi e concentrarmi meglio, ma per questo devo fermarmi per scegliere i brani da ascoltare e avviare il software per comporre la playlist, che però mi richiede un aggiornamento a cui non posso dire di no, dice che è obbligatorio. Diamine mi si è bloccato il computer. Ah no, sembra essersi ripreso. L’aggiornamento è stato effettuato con successo ma dovrei riavviare il pc. Non se ne parla nemmeno. Uso un altro programma per la musica. Appena parte il primo pezzo mi dichiaro soddisfatto della scelta, mi sento a mio agio e posso riprendere quello che stavo facendo. Chiudo tutte le finestrelle delle notifiche, rispondo alla e-mail che avevo lasciato a metà e mi accingo a terminare quella che stavo componendo cercando di non confondere i due destinatari, cosa che potrebbe tranquillamente succedere. E finalmente mi concentro con l’obiettivo di concludere il lavoro che poco fa mi aveva costretto a mettere da parte quello che dovrei ultimare entro la giornata e a quel punto mi avvio a terminare anche quello, anche se alla fine non ce la farò e dovrò chiudere il tutto domani. Perché prima di rimettermi al lavoro è meglio salvare e pubblicare questo post.