78.000 sterline

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Ogni tanto mi capitano quelli che io chiamo Genesis Day, che sono quei giorni in cui ho molto tempo libero e mi viene voglia di ripassare tutta la discografia della band inglese in vinile in mio possesso, dall’inizio alla fine e rigorosamente in ordine cronologico. Si tratta di momenti che è bene che mi capitino quando sono solo in casa, perché mia moglie non è tanto dell’idea e già sulla facciata A di Nursery Crime inizia a manifestare segni di insofferenza, quindi lascio consumarsi l’epico finale di The return of the giant Hogweed e rimando il secondo episodio della monografia a data da destinarsi. A nulla serve vantarmi dell’aver portato in dote addirittura l’edizione francese del disco, fatta a libro con i testi stampati a differenza dell’edizione più comune con i testi nella fascetta interna. O ricordarne l’anno di uscita, 1971, come se si trattasse di un miracolo il fatto che già allora si suonasse così, e le ho anche sottolineato il fatto che si tratta del primo album registrato con Phil Collins alla batteria. A quel punto mi sono chiesto che fine avesse fatto John Mayhew, che era stato sostituito subito dopo la pubblicazione di Trespass, ho così cercato in rete e mi sono fermato alla sua biografia su Wikipedia, che ho trovato davvero particolare. Leggete qui:

John Mayhew
È stato il terzo batterista (anche voce) dei Genesis, nel periodo tra settembre del 1969 e luglio del 1970. Sostituì il precedente batterista John Silver e fu a sua volta sostituito da Phil Collins. Suonò nell’album Trespass e nel box set Genesis Archive 1967-75.
Biografia degli anni seguenti.

Lasciati i Genesis, suona in diversi altri gruppi e nel 1979 va a vivere in Australia, esercitando la professione di falegname. Per molti anni si perdono le sue tracce. Nel 2006 partecipa a una convention di fan dei Genesis a Londra, suonando la batteria nel brano The Knife cantato dalla Tribute band ReGenesis[1]. Riceve dal management dei Genesis 78.000 sterline, quale ricavo per i diritti dalla sua collaborazione nel disco Trespass, che non aveva reclamato precedentemente. Vive gli ultimi anni della sua vita a Glasgow, in Scozia, lavorando quale falegname in una ditta di mobili. Un giorno prima di compiere i 62 anni, muore in ospedale a seguito di problemi cardiaci.

ancora in orbital

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Se ti guardi indietro non sembra sia passato così tanto tempo, i novanta sono ancora vivi e palpitanti, sembra ieri anche perché in ambito musica elettronica non ci eravamo fatti mancare nulla. Se vi ricordate il duo britannico noto con il nome di Orbital sapete di cosa sto parlando, se ve li siete persi – ma dubito fortemente – sta per uscire un nuovo album che, ascoltando l’estratto qui sotto, promette bene.

amici di penna

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Che poi uno scrive in un posto così per i motivi più strani ma comunque quasi tutti riconducibili al fatto che è libero di scrivere quello che gli pare nella forma che preferisce. Oddio libero è una parola un po’ grossa, occorre anche tener conto del piacere di essere compreso e condiviso. Vi risparmio comunque quello che si dice ormai da più di dieci anni sui diari on line, sulla psicologia dei blogger e dei suoi lettori casuali, distratti, assidui o che altro, perché lo sapete già. Ma un giorno uno si accorge che qualcosa è cambiato solo perché riceve una e-mail in cui un lettore gli chiede di scrivere un post su questo o quell’argomento. Il che non può non far piacere, ma, caro mio, non vorrei che tu mi avessi sopravvalutato. Lasciamo le inchieste ai giornalisti professionisti. Qui, dove non c’è alcuna cassa e vige il dis-ordine, ci limitiamo a dare qualche parere, ogni tanto ci esponiamo, ma ben lungi dal fare informazione. Al massimo ti posso aggiornare sul fatto che a febbraio è prevista l’uscita del nuovo dei Cursive, la band guidata dal versatile quanto barbuto Tim Kasher che con il precedente “Mama, i’m swollen” del 2009 ha fatto più di una semplice breccia nei miei ascolti. E tu mi dici che vabbè, anche questa è informazione, no? Prima non lo sapevo, ora ho letto qui e lo so. D’accordo, però non mi sono inventato nulla, io a mia volta l’ho letto qui e me lo sono segnato, se la metti da questo punto di vista posso anche darti ragione. Anzi, per conferire un ulteriore valore aggiunto alla notizia, e magari non conosci i Cursive, eccoti un paio dei loro brani migliori. Grazie comunque per l’attenzione che mi hai dedicato.

master (e basta)

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C’è un’altra fondamentale (sempre nel grande calderone del wtf, o più elegantemente pour parler) suddivisione in due categorie di musicisti, ovvero chi sa stare sul palco e chi no, una capacità che in genere è valutata solo nei confronti dei cantanti ma che spesso si estende per forza di cose a tutti i componenti di un gruppo. Perché chi si muove in armonia con la musica che esegue conferisce valore aggiunto allo spettacolo e perché c’è chi anche solo a stare fermo immobile con una mano sul microfono e l’altra sull’asta fa venire la pelle d’oca dal carisma che eroga a litri sul pubblico. Diciamo che chi ha accesso al cosiddetto star system solitamente rientra nel sotto-genere degli animali da palcoscenico, la selezione naturale che li ha condotti fino lì non ha tenuto solo conto delle doti canore. E non si parla solo di bellezza, prestanza fisica, atleticità, ma quell’elemento invisibile separatamente da un corpo umano che lo rende speciale e che può essere composto da qualunque cosa. La postura, un cappello, il modo di ballare, l’interazione con gli altri musicisti, il sex appeal, insomma l’elenco è infinito. Tutto questo perché, discutendo su frontman davvero passati alla storia per la loro presenza scenica, è scaturita l’immancabile competizione tra chi sosteneva il proprio candidato più degno di conquistare una posizione al vertice considerando una serie di fattori: maturazione di personalità artistica dagli esordi all’età adulta se non oltre, qualità vocali, coolness, ascendente erotico, abilità nelle movenze, longevità di successo e, per limitare il campo, lontananza dagli stereotipi del rock’n’roll, per dire non uno alla Jim Morrison, entrato nel mito. Non me ne vogliate, ma ha vinto Dave Gahan, in questa versione comprensiva di piroette, anche se io lo preferivo in quella subito sotto.


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inna babylon

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Qualche tempo fa, sul mio socialcoso preferito, si discuteva di reggae inglese e, in pieno mood da classifiche, ho proposto d’istinto come miglior album di musica in levare targata UK quel capolavoro che è “Signing Off” degli UB40. Vi ricordo che, prima di motivetti da tanto al mucchio come Red red wine o I got you babe, gli UB40 hanno avuto un passato di tutto rispetto, di cui il primo album nominato sopra (ma mettiamoci pure il secondo “Present Arms”) costituiscono i momenti migliori, spero ne conveniate con me. Ma nella fretta avevo dimenticato di far rientrare nella competizione (anche se di gara non si tratta, e poi non è che bisogna fare sempre le gare come i bambini a chi arriva prima) Linton Kwesi Johnson, jahmaicano ma a Londra dal 63, quindi parte del gioco. Abbiamo trovato così all’istante una soluzione all’impasse introducendo due differenti categorie, il reggae inglese bianco e quello non-bianco, in cui può primeggiare in tutta la sua maestosità “Forces of victory” di LKJ, seguito a ruota dal suo terzo lavoro dalla copertina indimenticabile, “Bass culture”. Vi rimando a qualche estratto dalle opere citate, a prova di quanto si è sostenuto. Nell’ordine:

UB40 – Tyler (da Signing Off nella versione live al Rockpalast dell’81)
UB40 – Burden of shame (da Siging Off, idem, vi segnalo il finale del brano, una coda d’n’b ante litteram)
UB40 – One in ten (da Present Arms, idem)
LKJ – Fight dem back (da Forces of Victory)
LKJ – Inglan Is A bitch (da Bass Culture)

Per non far torto a nessuno, né all’uno né agli altri, vi lascio questa hit one shot, che comunque ai tempi ha avuto un suo perché.

stare così appiccicato è traumatizzante

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Dovreste capirmi: uno ama alla follia un gruppo che fa un pezzo così:


nel cui video tra l’altro il cantante indossa la canotta di uno dei suoi gruppi preferiti (i Beat) oltre alla band in questione:

ma questo non c’entra. Il problema è che poi la band in questione, i Police, passato qualche anno e chissà chi si credono di essere diventati quei tre, rifà quel pezzo così:

e uno non si riprende più dal trauma, non trovate?

foals – black gold

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ferdinand soundsystem

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Sapete, vero, la storia dell’album di cover dell’LP Tonight dei Franz Ferdinand e dello scioglimento degli LCD Soundsystem, quindi mi limito a segnalarvi il video della cover di Live Alone dei primi eseguita dai secondi e dell’ottimo video realizzato con amene riprese urbane e tanto footage dal futuro.

se c’è un motivo

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Il processo creativo corale in musica, mi riferisco ancora a quella deformazione della personalità che i più definiscono con l’avere una band, è un fenomeno che non ha eguali in nessun altro campo artistico. Lo ammetto. Questo senza tener conto del risultato e della qualità del prodotto. L’atto in sé del comporre è uno spurgo di stati d’animo individuali senza precedenti e stupisce sempre il loro amalgamarsi con facilità con quelli altrui, sia in stato di comprensione o empatia dei musicisti con cui ci si accompagna che in quello di fraintendimento o mera versatilità da un’indole “di mestiere” e commerciale di un produttore dietro al software da home studio di turno. Gli spunti possono nascere ognuno imbracciando il proprio strumento in sala prove, l’alchimia della scintilla che genera il capolavoro è possibile ma non così semplice. In questo è di fondamentale importanza l’ambiente in cui si crea, non dico che occorrerebbe disporsi con gli strumenti secondo il feng shui, di certo più si è a proprio agio, come in tutte le attività, più piacevole sarà il lavoro. Nella mia ultima esperienza di esecuzioni collettive, la sala prove era un box rettangolare e in cinque eravamo costretti praticamente in fila indiana. Senza contare l’insonorizzazione solo parziale e il gruppo reggae nel box a fianco che si percepiva distintamente tra un pezzo e l’altro, annientando quella piacevolezza che si prova con il silenzio dopo aver suonato una canzone nel migliore dei modi. Non è durato a lungo.

Più frequente la condivisione delle proprie bozze, che ciascuno leviga e struttura apportando il proprio valore aggiunto fino all’opera compiuta, a volte specchio della prima release, a volte completamente stravolta. Il rischio è quello di pensare l’ensemble a disposizione a propria immagine, avere già ben delineato in mente il risultato finale di cosa si va a proporre e di respingere i tentativi di ciascuno di fare propria l’idea altrui. Qui gioca un ruolo decisivo la personalità di ciascun elemento e la predisposizione alla condivisione delle proprie produzioni, che è come dare in pasto se stessi agli altri. In questo occorre essere pronti alla vita in comune e il feeling deve essere a livelli elevatissimi. Se suonate lo sapete meglio di me, avere un gruppo è come avere una famiglia. Ci sono le stesse dinamiche, possessione, gelosia, inclinazione a far soffrire o a sacrificarsi, voler comandare, parlare senza far nulla eccetera eccetera. E per chi come me ha smesso, ogni tanto qualche nostalgia emerge pur nella accertata soddisfazione dell’aver realizzato l’impossibilità oggettiva di portare avanti coerentemente un progetto musicale. Ho appena letto un’intervista ai The National qui (via Slowshow, naturalmente) circa lo stato già avanzato del materiale per il loro prossimo album. Matt Berninger, fornendo qualche dettaglio sul loro modo di  far nascere le nuove canzoni, mi ha permesso di ricordare quella rara sensazione, che nella mia lunga esperienza mi è capitata solo una volta, di serenità nel confronto tra teste diverse e, soprattutto, adulte. “Aaron has given me about 10 ideas so far. He seems to be in some sort of really weird creative space. He recently had a baby, so maybe it’s a lack of sleep. He’s wired differently. The songs he’s given me are much less cerebral and academic and much more immediate and visceral than usual. I’m in love with them. I just spent all night listening over and over to some things he sent. I think they’re some of the best things he’s ever written. And I think it might be because he’s not thinking about it that much. He isn’t putting everything through the filter of Important Music as he has in the past. The music just seems to be working on a pure gut level“.

let’s dance to manovra

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E giusto per sdrammatizzare, stamane tra un taglio di qui e una tassa di là si parlava con alcuni amici dei pezzi più divertenti da ballare della storia del dancefloor, un argomento vasto tanto quanto l’intera produzione musicale. Perché voi mi insegnate che qualunque cosa può essere ballabilissima e interpretabile attraverso un corpo dotato da almeno un quarto di mobilità, che il ritmo è nel sangue indipendentemente dal colore della pelle perché è soggetto solo al modo in cui ciascuno ascolta la musica e la trasferisce alle proprie membra. Sono partiti fischi con “One step” dei Kissing the pink proposta dall’ala “oneshot”, un po’ ingiustamente, forse i più critici non l’avevano mai ascoltata in precedenza. Ma come dar loro torto, basta con ‘sti anni ottanta, diamine. Così, onde evitare provocazioni, abbiamo ristretto il campo: almeno dal 1990 in poi, niente rock perché non si parla di saltelli sul posto o di spintoni a casaccio, niente classiconi da discoteca tipo Rythm is a dancer o What is love?, niente ska e reggae. Ecco, i pezzi più ballabili tra quelli mediamente commerciali, mediamente conosciuti, mediamente cool, oggettivamente ritmati, brani grazie ai quali in situazioni più o meno critiche da tasso alcolico fuori controllo abbiamo passato tre minuti di puro divertimento fisico, da soli o in compagnia, muovendoci come forsennati al chiuso di un club o all’aperto di un party estivo, in entrambi i casi soggetti a smodate sudorazioni. Nessuno dei miei due candidati ha vinto la competizione, non si sono nemmeno classificati dignitosamente, quindi ho pensato di rimetterli al vostro giudizio. Sono graditi like e apprezzamenti in cambio del buon umore che ricaverete dall’ascolto delle canzoni qui sotto. Sapete quanto mi piace quando dite che ho ragione, soprattutto in ambito musicale. Pronti?