la morte è dappertutto e ci sono mosche sul parabrezza, tanto per cominciare

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Il 27 giugno del prossimo anno i Depeche Mode suoneranno a San Siro e oggi, 17 ottobre dell’anno prima, già c’è penuria di biglietti. Restano gli anelli quelli in cui vedi Dave Gahan e Martin Gore grandi come giocatori di Subbuteo, mentre Andrew Fletcher come sapete, che lo vediate o meno è indifferente tanto lui, nei Depeche Mode, fa solo il contabile. Qualche giorno fa si è parlato molto dei Coldplay e dei concerti che terranno a luglio in Italia, e sapete in che termini. A me questa corsa all’evento, manco a dirlo, mi ha rotto il cazzo e la soddisfazione di stare a casa e risparmiare centinaia di euro non potete immaginare quanto mi riempa di orgoglio (disse la volpe a proposito dell’uva).

Anzi, per celebrare il doppio mancato evento mi sa che acquisterò gli ingressi al concerto dei Preoccupations, gli ex Viet Cong, del 29 al Magnolia, che quelli si che non se li incula nessuno. Ma per quanto riguarda i Depeche Mode, che ai tempi di “Construction time again” veneravo come nessuno nell’universo musicale, come già scritto più volte ho deciso che li snobberò finché non rientrerà Alan Wilder e, soprattutto, qualcuno non si deciderà a togliere quella cazzo di chitarra elettrica dalle mani di Martin Gore. Non vi sarà sfuggito però che mi sono lasciato sfuggire il trentennale dell’uscita di “Black Celebration”, che è caduto il 31 marzo. Peccato, perché “Black Celebration” è una pietra miliare della mia formazione, uno di quei dischi che ho acquistato, ascoltato, consumato, ballato, analizzato in ogni minimo suono rumore e parola, emulato, imparato a suonare ed eseguito e comprato una seconda volta perché la prima copia in vinile non ne poteva più.

Ma questo 2016 ha visto anche la ricorrenza dei trent’anni di uno dei più coinvolgenti concerti dei Depeche Mode a cui abbia mai assistito. Era il 5 agosto dell’86 e i Depeche hanno suonato al campo sportivo di Pietra Ligure (SV), che oggi è stato declassato a parcheggio per i turisti mordi e fuggi che bivaccano con tavolino e torta pasqualina al seguito in estate, in riviera. Di quel giorno ricordo soprattutto di essere arrivato con un anticipo mostruoso ai cancelli per conquistare i posti migliori ma di aver sbagliato ingresso, e questo è un aneddoto del mio passato che racconto spesso come metafora della mia vita.

Comunque se siete fan veri dei Depeche Mode, quindi più di me invece che mi fermo a Violator, non vi sarete lasciati scappare certo il biglietto multimilonario per la prossima tournée italiana e anzi, per farvi capire il livello di idolatria di cui siete circondati, c’è persino un sito dedicato alle scalette di ogni singola esibizione live di tutta la loro carriera. Compreso il concerto di Pietra Ligure con me in fondo al campo sportivo, in completo all black, venti centimetri di cresta e tanta inconsapevolezza di quanto gli ascolti di quel periodo mi avrebbero dato, nel bene e nel male, nel futuro prossimo che era davvero dietro l’angolo, così vicino che già non me lo ricordo più.

i dieci pezzi più belli dei depeche MODE

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Dato che siamo in odore di tappe italiane del tour che non vedrò, uno perché costano un botto due perché li ho già visti più volte negli anni 80 e tre perché non c’è Alan Wilder, ecco una mia personale classifica dei loro brani. Ognuno mette la sua, quindi per non scrivere in giro commenti di biasimo perché manca questo e manca quello, perché non fare la mia proposta? Leggetela, anzi ascoltatela, e poi ditemi che cosa notate.

10. Ice Machine

9. More than a party

8. Something to Do

7. Black Celebration

6. But not tonight

5. Love in itself

4. And Then…

3. Get the balance right

2. Leave in silence

1. Shake the Disease

il mondo che si vede dentro gli occhi

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Dal terzo anello del Palasport Dave Gahan sembra un soldatino Atlantic in un plastico di una battaglia tra bambini delle medie e l’audio non è dei migliori, malgrado la posizione centrale garantisca almeno l’effetto stereofonico. Il tour di Violator impone ascolti rigorosi perché i nuovi pezzi sono ricchi di suoni molto particolari. Siamo a cavallo tra gli ottanta e novanta e per il mio quartetto preferito è un momento difficile perché la musica sta mutando pelle e sembra che di elettronica, fuori dai dancefloor, non ci sia più bisogno. Per aver la libera uscita per il concerto la trafila è stata tortuosa quanto qualunque altra pratica burocratica da vidimare lungo una serie ben definita di passaggi tra gradi, in perfetto stile militare. Il sottotenente che si è rivolto al tenente che ha chiesto al capitano che ha chiesto al colonnello che ha visto i biglietti e non sapeva nemmeno chi fossero i Depeche Mode. Ma i biglietti costano quarantamila lire ed era fondamentale allegarli alla richiesta più che altro per mettere l’esercito di fronte al fatto compiuto, nessuno si assumerebbe la responsabilità di negare un impegno a valle di un spesa comunque di un certo peso. Così il colonnello, che è il più alto in grado ed è già troppo per una richiesta anomala ma piuttosto di basso impatto da un punto di vista della disciplina, non se l’è sentita di dire di no e ha dato l’ok al capitano che ha firmato il permesso al tenente che ha comunque ordinato al sottotenente di controllare l’effettivo orario di rientro delle reclute interessate. Una di queste tra l’altro è una copia di Dave Gahan, balla tale e quale a lui. Sarebbe stato da ingaggiarlo come cantante per una tribute band se le tribute band fossero già state inventate. E se soprattutto avesse una voce all’altezza e non quel timbro da gallina che non appena apre bocca ti cascano le braccia perché il resto è tutto sommato in linea con i canoni di quel genere di mascolinità. Conosce anche i segreti della seduzione di Dave Gahan, ma non si tratta di mosse da fare stipati sugli spalti di un concerto pop da sold out. Alla quarta o quinta giravolta in piedi con la scusa dell’applauso a non ricordo che pezzo gli arrivano due ceffoni anonimi da dietro, nel senso che anche voltandosi è difficile capire gli autori di quella coppia di sganassoni stereofonica come la melodia che si percepisce davanti, visto il buio e le luci stroboscopiche e la ressa che si dimena più o meno a tempo. Una specie di schiaffo del soldato, è proprio il caso di dirlo. Poi il concerto segue il suo corso con le hit, i pezzi meno adatti, i bis, fino alla fine quando il Palasport riversa il suo contenuto umano fuori. C’era una muro di poster alla fermata dell’autobus in prossimità della città militare, quella specie di urbe nell’urbe con le sue vie, i suoi negozi di abbellimenti da divisa, i suoi porchettari e le pizze con le patatine fritte sopra, roba che si mangia solo durante il servizio militare prima che diventi una cosa del passato. C’è proprio un muro di poster di quel concerto del tour di Violator, tutto nero con la rosa a due colori che abbiamo notato all’andata e speriamo di fermarci lì anche al ritorno, chissà dov’è il capolinea del servizio notturno. Il sosia di Dave Gahan riesce a staccarne uno ma sono tutti appiccicati con la colla degli attacchini così ne approfitto anche io senza pensare che quell’enorme manifesto arrotolato non starà mai, in verticale, nell’armadietto.

l’insostenibile leggerezza di andrew

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Se io vi dico Fletcher molti di voi penseranno all’istante alla signora in giallo oppure all’omonima regina della blogosfera genovese. E già qui ci sarebbe molto da scrivere. Invece no, questa volta mi riferisco a uno dei membri fondatori dei Depeche Mode che, come sapete, sono appena tornati alla ribalta con un disco davvero niente male. Andrew Fletcher è quella specie di ingegnere biondo che divide il palco con il resto della band ma che non si sa bene cosa faccia. Un tempo, quando i dM erano un quartetto e stavano tutti dietro ai synth a parte Gahan, andare a un loro concerto significava accettare sulla fiducia il fatto di assistere all’esecuzione di molte parti preregistrate o affidate a sequencer. Addirittura, agli albori, il gruppo si presentava al pubblico con un vistoso multipista a bobine, considerato il quinto elemento della band. Poi c’era Martin che faceva i cori, Dave che si sbatteva come una iena a far le piroette e cantare, Alan che lo vedevi sempre pestare le mani sulle tastiere, e Andrew invece nulla. Qualche balletto, battere le mani a ritmo, manovrare qualche manopola sugli strumenti e stop. Poi c’è stata la progressiva penetrazione della componente elettrica sull’originario tappeto elettronico, Martin quasi sempre dal vivo con la chitarra. C’è stata pure qualche turbolenza nella formazione, Alan è uscito dal gruppo ed è entrato un batterista che è una macchina quanto il resto del suono che i dM propongono ormai da più di trent’anni. C’è persino un tastierista in più. E ancora Andrew Fletcher è lì, in piedi dietro al suo set, un po’ imbolsito e sempre più ingegnere, ma la sostanza non cambia. A volte assente, a volte sul pezzo, qualche incitamento della folla, qualche passo a ritmo anche se l’età inizia a farsi sentire, qualche cursore da spostare qui e là, ma per il resto è sempre la stessa solfa. Nelle esecuzioni in tv, le telecamere non lo riprendono nemmeno. Forse è il manager stesso dei dM che si mette d’accordo con i registi e i cameraman. Quello lasciatelo perdere, gli dicono, che fa finta. Ed ecco il grande dubbio a cui non si trova risposta. Che diavolo fa Andrew Fletcher mentre gli altri dei Depeche Mode suonano?

un tributo ai 90 dei Depeche Mode

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Secondo me il nuovo singolo dei Depeche Mode

contiene richiami a Angel dei Massive Attack

e dal punto di vista armonico a Glory Box dei Portishead.

Trovate anche voi?

i cloni più eclatanti della storia del pop

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Indovinate di chi.

master (e basta)

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C’è un’altra fondamentale (sempre nel grande calderone del wtf, o più elegantemente pour parler) suddivisione in due categorie di musicisti, ovvero chi sa stare sul palco e chi no, una capacità che in genere è valutata solo nei confronti dei cantanti ma che spesso si estende per forza di cose a tutti i componenti di un gruppo. Perché chi si muove in armonia con la musica che esegue conferisce valore aggiunto allo spettacolo e perché c’è chi anche solo a stare fermo immobile con una mano sul microfono e l’altra sull’asta fa venire la pelle d’oca dal carisma che eroga a litri sul pubblico. Diciamo che chi ha accesso al cosiddetto star system solitamente rientra nel sotto-genere degli animali da palcoscenico, la selezione naturale che li ha condotti fino lì non ha tenuto solo conto delle doti canore. E non si parla solo di bellezza, prestanza fisica, atleticità, ma quell’elemento invisibile separatamente da un corpo umano che lo rende speciale e che può essere composto da qualunque cosa. La postura, un cappello, il modo di ballare, l’interazione con gli altri musicisti, il sex appeal, insomma l’elenco è infinito. Tutto questo perché, discutendo su frontman davvero passati alla storia per la loro presenza scenica, è scaturita l’immancabile competizione tra chi sosteneva il proprio candidato più degno di conquistare una posizione al vertice considerando una serie di fattori: maturazione di personalità artistica dagli esordi all’età adulta se non oltre, qualità vocali, coolness, ascendente erotico, abilità nelle movenze, longevità di successo e, per limitare il campo, lontananza dagli stereotipi del rock’n’roll, per dire non uno alla Jim Morrison, entrato nel mito. Non me ne vogliate, ma ha vinto Dave Gahan, in questa versione comprensiva di piroette, anche se io lo preferivo in quella subito sotto.


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da questa parte, grazie

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Tra i numerosi quanto inutili canali che impoveriscono l’offerta televisiva del digitale terrestre, ce n’è uno che tutte le volte che passo di lì – in quei 5 minuti di cazzeggio che precedono il crollo nelle serate estive, momento che comprende una fase di zapping selvaggio tesa unicamente a trovare il programma di Paola Marella che si diverte a ristrutturare case altrui (Paola, se leggi questo post, mettiti in contatto con me: ho grandi progetti) – trasmette esibizioni live (poi capirete perché l’ho messo in italico) di un dj di fronte a centinaia di persone intente a ballare (buon per lui).

Una formula vecchia quanto l’uomo, almeno da quando esiste il giradischi, che però da circa quindici anni a questa parte si è resa protagonista di un processo di evoluzione nel posizionamento strategico delle due componenti fondamentali – dj e pubblico, appunto – all’interno del luogo adibito di volta in volta ad “area da ballo”. Mi spiego.

La discoteca, il club, il luogo chiuso, raramente concede risalto al selezionatore musicale, che sta dietro la console mentre la gente balla la sua selecta. Fin qui ci siamo. A un certo punto, con un paio di fenomeni quali il successo di gruppi privi di batterista e l’avvento della musica elettronica, si sono diffusi gli eventi a metà tra il concerto e il rapporto univoco dj – pubblico danzante. Quest’ultimo balla qualsiasi cosa il dj proponga (almeno un tempo era così) e si fa bellamente i c**** propri mentre il selezionatore in cuffia – a volte nascosto chissà dove, a volte in una sorta di pulpito, altre, come in alcuni locali un po’ improvvisati, con i piatti su un comune tavolino da bar, dentro il bar stesso a rischio di essere travolto dall’esagitato di turno (ho visto una volta un ubriaco rovesciarsi su una console di fortuna dietro alla quale Fabio De Luca aveva appena messo On my radio dei Selecter, la versione live se non ricordo male) – sciorina la sua playlist.

Nell’evento a metà tra il concerto e la selecta invece il dj sta sul palco e il pubblico danzante sta sotto, come nei concerti con musicisti (mi vien da dire veri ma non lo scrivo per non urtare la sensibilità né degli uni né degli altri) dotati di strumenti tradizionali. Già nei concerti dei Depeche Mode, almeno nella formazione più autorevole, cioè quella in quattro con Alan Wilder e prima che a Martin Gore venisse la pessima idea di imbracciare la chitarra, diciamo fino a Black Celebration, c’era un po’ di imbarazzo tra il pubblico. Stare lì in piedi rivolti verso il palco a sentire dischi, perché ora se vogliamo contarcela su va bene, ma non mi si venga a dire che a quei tempi i Depeche Mode suonavano dal vivo, visto che ballavano tutti, ogni tanto davano qualche manata sulla tastiera, e le versioni dei pezzi erano troppo fedeli a quelle registrate, dicevo stare lì a guardare un playback evoluto era un po’ una forzatura. C’era questa finzione collettiva in cui celebravamo tutti insieme da sotto la visione dei nostri beniamini. Ma chiamarlo concerto, onestamente, è troppo.

Passano gli anni e la cosa si ingigantisce pure. Nel 97, dopo aver pagato 60 mila lire per il biglietto del concerto dei Prodigy (poi se volete vi spiego perché l’ho fatto, a volte le cose si fanno anche per gli altri), ho assistito a una performance di base registrata più effetti speciali e coreografie varie, tanto che il gruppo supporto che ho dovuto pure sopportare, tali Marlene Kuntz, si sono distinti enormemente per grinta, suono e pathos. Tanto vale fare come i Kraftwerk, visti pochi anni fa già in versione pensionati i quali, sul palco come quattro impiegati di banca prossimi al ritiro della liquidazione dietro ad altrettanti Mac portatili, hanno eseguito una navigazione in internet con controllo di posta elettronica – perché secondo me proprio quello facevano – al cospetto del pubblico per 2 ore circa, con il valore aggiunto del video, alle loro spalle, che per lo meno dava il quid multimediale mancante.

Il livello successivo, a cui non ho mai voluto per scelta partecipare, comprende i performer tipo i Chemical Brothers. Per inciso: tutti i gruppi e i dj citati finora, a parte Prodigy e Marlene, sono tra i miei preferiti quindi la critica che muovo non è a loro, sia ben chiaro. I Chemical Brothers, potete dare un’occhiata per esempio qui ma avrete visto questi video decine di volte, si mettono dietro ai loro mixeroni e… e poi non si sa bene che fanno. Quanto suonano? Quanto mixano live? E trovarmi lì, in mezzo a migliaia di persone tutte rivolte a guardare due sul palco che magari giocano a solitario mentre sotto un cd suona tutto il concerto mi farebbe sentire un po’ sciocco.

Tutto questo per arrivare al punto di rottura: dj sul palco, ma dj veri, con piatti o cd, e pubblico sotto che, anziché ballare insieme – magari vedi una vicino che ti prende e cerchi di rimorchiarla – è disposto in file orizzontali e rivolto rigorosamente verso di lui. Il dj, poveretto, sì ogni tanto balla, batte le mani, fa qualche gesto di feeling di circostanza, ma il più delle volte lo vedi dare sorsi a un cocktail (e il pubblico ti guarda mentre bevi il cocktail), girare manopoline senza nessun apparente risultato su quello che esce dalle casse (e il pubblico ti osserva e balla mentre giri le manopoline), o guarda con la testa bassa i dischi che ruotano nei piatti, un po’ imbarazzato dall’aver di fronte centinaia di persone che lo guardano anche mentre osserva il moto perpetuo dei dischi sui piatti. Eppure, su questa tv, il pubblico sembra divertirsi un sacco: le ragazze sovente vestono solo il top del costume da bagno, i ragazzi si muovono a tempo con il bicchiere di plastica in mano, e tutti guardano il palco, felici di aver afferrato il senso.

Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival

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La mia amica S. deve scrivere un pezzo su Sanremo, qualcosa che metta insieme, come è ovvio, musica, costume, gossip e così via. S. è la stessa fan di Morrissey che nel 1987 o giù di lì, ora controllo meglio (1), partì alla volta della cittadina rivierasca per intercettare il suo idolo, ospite straniero di quella edizione del Festival. E di episodi di quel genere me ne ricordo diversi. F. che sosteneva di aver soccorso David Gahan fattissimo o in preda a una sbornia colossale mentre vomitava per i caruggi di Sanremo (2), qualche anno prima. Ricordo anche M., un tizio buffissimo che era convinto di somigliare a John Taylor, che conciato in perfetto stile duraniano faceva incuriosire giornalisti e ragazzine isteriche sul lungomare durante i giorni del festival (3). Sui Duran Duran a Sanremo qualcuno scrisse pure un libro, faccio finta di non ricordare titolo e autrice per non essere accusato di dedicare la mia memoria solo ai ricordi più futili. Al diavolo il dovere di cronaca. Metto solo un link e la cosa finisce qui.

Ma torniamo a S. e al suo articolo. Le ho consigliato, in alternativa, di puntare più alla sostanza, se sostanza e Festival di Sanremo possono coesistere nella stessa frase, raccogliendo in una sorta di superclassifica (roba da supertelegattone) i prodotti più più originali che sono stati lanciati da quel palcoscenico. S., che dagli Smiths è passata nel corso del tempo a fenomeni sempre più estremi di musica alternativa, per darvi in pasto alcune perle di competenza vi butto lì gli Einsturzende Neubauten o roba alla Sigur Ros, mi guarda e storce la bocca. Ma sì, le ho detto, poi metti un lancio tipo “Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival” (già, proprio come il mio), aggiungi un po’ di tag accattivanti (come quelle qui sotto), magari posti il link sulla pagina Facebook della tua testata, e il gioco è fatto. “Sì, ma non ho ancora capito a quali contenuti ti riferisci“. Già, S. è un animale da nicchie. Con calma, procediamo con ordine.

Pur lasciando perdere conduttori – a cui e di cui non si deve parlare – e coordinatrici di palco (per non usare il termine vallette), a memoria d’uomo (la mia, siete in una botte di ferro) ci sono decine di casi da riesumare. Mi riferisco a brani eliminati dopo la prima serata, ultimi posti, o anche brani e artisti di successo che è ingiusto snobbare solo perché presentati in quel calderone obsoleto e completamente avulso dalla realtà artistica e musicale italiana che è Sanremo. S. ha così scommesso che non ce l’avrei fatta a mettere insieme almeno 10 esempi, canzoni che lei potrà raccogliere nel suo articolo. “Tsk“, le ho detto. “Sei pronta? Accendi il registratore, andrò in ordine sparso“. Si va in scena. Visto il mio background (e la mia età), il periodo preso in rassegna va dal 1975, prima edizione di cui mi ricordi, al 2001, ultima edizione che ho seguito, più qualche eccezione vissuta di riflesso. “Considera però l’anno di uscita e il contesto, naturalmente“. L’innovazione è sempre relativa.

1. di Ruggeri – Muzio: Contessa. Cantano: i Decibel (1980)


Lo so. Ho iniziato con un brano classico e scontato. Ma non si era mai sentito un pezzo così e mai visto un look simile, in Italia. Da leggere, sul sito dei Decibel, la genesi del pezzo.

2. di Cocciante – Santandrea: La fenice. Canta: Santandrea (1984)


Una sorta di Giovanni Lindo Ferretti (chissà perché mi viene sempre da scrivere Giuliano Lindo Ferrara, mah.. sarò tratto d’inganno dalle iniziali?) in versione operetta, su base plasticosa italo-disco-wave anni ’80. Dimenticato presto, non da me, ricettacolo di pochezze. Ritornerà alla ribalta qualche anno dopo con il nome completo di battesimo (Rodolfo), autore e interprete della celebre “ho un’arancia nella pancia”.

3. di Abate: Cose Veloci. Canta: Garbo (1985)


Lo so (ancora). Su guggol digiti Garbo e Sanremo e ti viene fuori come risultato Radioclima, binomio certificato anche dai cultori e puristi. Una pietra miliare, certo, ma io preferisco questo brano dal piglio alla LLoyd Cole, più evoluto e maturo anche se meno wave e berlinese (nel senso del periodo di Bowie). Come per Radioclima, la critica gli ha riservato il fondo della classifica. Tsk.

4. di Fossati – Guglielminetti: Un’emozione da poco. Canta: Anna Oxa (1978)


“Anna Oxa conciata come una punk londinese”, dice un noto motivetto degli Offlaga Disco Pax. E chi non se la ricorda? Peccato l’involuzione e la discesa verso i meandri dello specifico sanremese, unico palco che l’ha vista davvero protagonista. Qui, era il 78, ci si aveva l’abitudine di bucarsi le guance con le spille da balia e di bucarsi le vene con altro. Il punk, quello estetico e modaiolo di Malcolm Mc Laren viene sdoganato anche nella più tradizionalista della tradizione canora italiana, in prima serata, sul Primo Canale. Ricordo di aver aspettato l’esibizione di Anna Oxa a Disco Ring la domenica successiva, e di essere stato premiato con lo stesso inizio di esibizione, spalle al pubblico. Questa sì che è trasgressione.

5. di Bissi – Battiato – Pio: Per elisa. Canta: Alice (1981)


Battiato in versione femminile. Fu amore a prima vista, soprattutto perché, studiando pianoforte, colsi la citazione colta. Non trovo il video di tratto da Sanremo, spero vi accontentiate di questo.

6. di Romano – Casacci – Di Leo: Tutti i miei sbagli. Cantano: i Subsonica (2000)


6 bis. di Castoldi – Urbani: L’assenzio. Cantano: i Bluvertigo (2001)

Il meglio dell’indie-rock anni ’90 sbarca al Festival, un’operazione di mercato riuscita che ha permesso a entrambe le band di proporsi a un pubblico diverso (e più ampio). L’innovazione non è tanto nelle due canzoni, piuttosto tendenti alla grande distribuzione rispetto agli standard dei momenti artistici migliori di entrambi i gruppi, quanto nell’accostamento con il resto della manifestazione. Samuel che balla come se fosse in un club, Morgan che indossa il basso con la dovuta calma. Momenti irripetibili, merito degli Amici e di altri Fattori (X) oggi più affini al gusto imperante tra i giovani.

7. di Marrale – Golzi, Vacanze romane. Cantano: i Matia Bazar (1983)


La svolta di uno dei gruppi più interessanti della canzone italiana culmina con questa esibizione. Un pezzo su cui si è già detto tutto e, tentando qualcosa, correrei il rischio di plagiare altri scritti. Lascio solo il link a una pagina dedicata a Mauro Sabbione, il tastierista che prese il posto di Piero Cassano e che contribuì in assoluto al periodo migliore della band. Questo, appunto. Mauro Sabbione (che peraltro sei mio amico su Facebook), se per caso leggi questo post, sappi che sei stato il mio principale tastierista ispiratore, insieme a Mick MacNeil e a Carlo Speranza.

8 di Gaetano: Gianna. Canta: Rino Gaetano (1978)


La popolarità di Rino Gaetano e di questo pezzo si è manifestata con un crescendo continuo, complici il periodo in cui venne composta, la perpetua attualità delle liriche di Gaetano, la sua riscoperta in pieno revival dei ’70, il karaoke, la nostalgia per la tv in bianco e nero (anche se le trasmissioni erano già a colori, ma solo per i più ricchi), la sua tragica scomparsa. La sua esibizione resta uno degli episodi migliori in assoluto nella storia del Festival.

9. di Avogadro, Borghetti, Fanigliulo, Pace: A me mi piace vivere alla grande. Canta: Franco Fanigliulo (1979)


Non vorrei passare per radical chic (di questi tempi, poi) ma questa è una chicca, a cui sono molto affezionato, nonché brano vincitore morale dell’edizione 1979. Tacciato anche di vilipendio alla religione, con un bell’errore voluto di grammatica nel titolo, il brano, apparentemente un tripudio di fricchettonaggine all’italiana dell’epoca, risulta essere una piacevole eccezione nel piattume con cui si riempiva il Festival in un periodo in cui la musica e la canzone erano davvero altrove (leggi nelle piazze. Forse il periodo, quello che ho appena scritto, era troppo lungo?). Come anomalo era Franco Fanigliulo, scomparso purtroppo prematuramente.

10. di Rossi: Vado al massimo. Canta: Vasco Rossi (1982)


Non mi è simpatico Vasco, per nulla. Ma vi assicuro che la sua esibizione, quella che avete appena visto, è stata una bella botta.

(1) Gli Smiths parteciparono come ospiti a Sanremo Rock, una manifestazione collaterale al festival, proprio nel 1987. Suonarono, in un ostentato playback, 4 brani tra cui Ask (gli altri 3 facilmente reperibili nei suggerimenti su youtube)
(2) I Depeche Mode furono ospiti nel 1986 con Stripped (e se non erro anche nel 1990 con Enjoy the silence, ma l’edizione a cui si riferisce l’autore è la prima)
(3) Era il 1985, non aggiungo altro. Qualcuno sa il perché.
(4) Se invece cercate qualche melodia più mainstream, il Post ha raccolto le 10 migliori canzoni di Roberto Vecchioni. Vado a sentirle.