andate a lavorare, capelloni

Standard

The Smiths, ovvero gente comune, quella che incontri in ufficio. Via Rael.

non ci siamo dimenticati di voi, no no no no

Standard

Ora vi dico l’esatto punto in cui ho pensato di non proseguire nella lettura, anche se interrompere un libro a metà lo considero un delitto, voglio dire, sarebbe come ammettere di avere perso tutto il tempo prima per arrivare fino lì. Il libro in questione è uno di quelli considerati un must letterario, diciamo un “Achtung Baby” della narrativa, dove gli U2 sono Nick Hornby e il titolo è “Alta fedeltà”, un romanzo gradevole quanto sopravvalutato, di quelli così trasversali che se non l’hai letto rischi sempre di passare da illetterato se sei con una persona colta, mainstream se sei con un alternativo, babbione se stai parlando con uno molto trendy. Non hai letto Alta fedeltà, ti chiedono sgomenti. Ma almeno hai visto il film? Beh, molti anni fa lo lessi anche io. E il paragone con gli U2 deriva dal fatto che raramente si sale su un’auto e il proprietario non ha nel porta cd almeno un album degli U2, fateci caso. Ma tornando al romanzo in questione, vi dicevo che a un certo punto ho pensato di mollarlo lì perché ho raccolto l’ardita provocazione di una delle sue numerose classifiche, e se siete assidui frequentatori di questo spazio virtuale potete indovinare a quale mi riferisco.

Il numero uno dei primi cinque gruppi o musicisti che bisognerebbe fucilare il giorno in cui arrivasse la rivoluzione musicale è occupato dai Simple Minds. Per inciso, prima di addentrarmi nel nocciolo della questione: se non erro, al terzo posto compaiono proprio Bono Vox e soci e al quinto i Genesis, anche se secondo me Hornby si riferisce ai Genesis senza Gabriel, anzi probabilmente non sa nemmeno che Gabriel cantava nei Genesis, altrimenti avrebbe fatto un doveroso distinguo. Ma, tornando al vertice, anche per i Simple Minds occorre un doveroso distinguo, il cui spartiacque consiste nella defezione del bassista Derek Forbes dopo il singolone che consacrò il gruppo scozzese come band da Live Aid, e mi riferisco a “Don’t you”. Ma vogliamo considerare la vita precedente dei Simple Minds? È il caso di snocciolare uno per uno tutti gli album usciti prima di New gold dream e decantarne le virtù? Vogliamo parlare di Real to real cacophony e di Empire and dance? Certo, l’ampolloso timbro di Jim Kerr è piuttosto stridente con le voci che oggi vanno per la maggiore, posso capire che la loro musica possa essere scambiata come un richiamo dall’oltretomba. Figuriamoci ai tempi del libro di Hornby, in piena era grungia. Ma la discografia tra i 70 e gli 80 dei Simple Minds è di tutto rispetto, algida e scura come il post punk di quei tempi ma suonata molto meglio, intendo dal punto di vista tecnico rispetto a molti gruppi dell’epoca. E se al primo posto della classifica dei dischi preferiti Hornby mette Marvin Gaye, la loro antitesi estetica, allora tutto torna, perché i Simple Minds sono quelli qui sotto. Diffidate delle imitazioni.

per te che ho conosciuto

Standard

Io li avevo visti, i Perturbazione, proprio in quella tournée lì. Anzi, a onor del vero, era il “Tora tora tora”, il maxi-festival che metteva insieme le menti musicali più energiche dei tempi. E che tempi: era il 2002 ed ero con quella tipa che poi sarebbe diventata mia moglie e quei due che già allora erano amici nostri strettissimi. Ed era una bellissima sera d’autunno, a Nizza, e tutto sembrava prendere quel corso pieno di felicità che poi si è rivelato tale. Per quello rimasi folgorato dai Perturbazione sul palco, tanto che non persi tempo e corsi ad acquistare il cd alla bancarella. Ne fui così piacevolmente sopreso che cominciai pure a molestarli via e-mail facendogli tutti i complimenti che mi sembrava giusto fare, come fanno i ragazzini con i loro idoli pop. Ma era tutto così perfettamente omogeneo che “In circolo” si prestava perfettamente ad essere la colonna sonora di quei pochi mesi di quiete che precedettero il vorticoso decennio successivo, fino a qui. Quindi evviva tutto, evviva i Perturbazione e come è stata la mia vita, splendida, da allora.

il futuro non è scritto, è stato solo dematerializzato

Standard

Vi aspetto a ridosso del muro con un sintetizzatore senza custodia appoggiato sulla creeper destra per evitare che si graffi. È un DX 21 noleggiato per dodici mesi, non voglio rimetterci la caparra per qualche segno sulla plastica. Arrivate più o meno tutti contemporaneamente e vi rallegrate per la possibilità di avere suoni diversi, a partire da quella sera. So tutti i vostri pezzi, li ho imparati perché mi infiltravo sempre alle vostre prove o spiavo dal vivo il tastierista che ho l’opportunità di sostituire. Ho visto quasi tutti i vostri concerti, conosco le parti a memoria. Lo scantinato puzza più del solito, demerito del gruppo che ha provato prima. Posiziono il DX 21 sul trespolo, sopra il Poly 800, poi mi giro verso di voi che state sistemando i vostri strumenti, vi osservo e penso che è fatta, ho raggiunto il mio obiettivo. Non chiedevo altro e ora sono nella line up. La proposta l’avevo ricevuta un paio di settimane prima dal vostro cantante, era appena arrivato al sound check di un vostro concerto con i suoi occhiali sovietici tondi fighissimi e l’asciugamano bianco sulla spalla, il taccuino dei testi in mano, sigaretta in bocca, a torso nudo appena uscito dal mare. Chiaro che eravate già al corrente e comunque un po’ ci speravo. Mi chiedete con che brano voglio rompere il ghiaccio, e allora sorrido perché mi aspettavo proprio che iniziasse tutto così.

gotye – smoke and mirrors

Standard

the national: twenty miles to nh part 2

Standard

I The National hanno registrato una interpretazione del brano “Twenty Miles to NH Part 2” dei Philistines Jr., il gruppo in cui milita Peter Katis, il loro produttore. Il pezzo fa parte di un remake del loro ultimo album interamente dato in pasto a vari artisti coverizzatori. Niente male, davvero. Via Slowshow.

degli altri titoli di canzoni dei talking heads che potrebbero diventare film

Standard

E qualcuno in parte lo è già (o lo è già stato), chissà.

1. don’t worry about the government
2. psycho killer
3. thank you for sending me an angel
4. the girls want to be with the girls
5. the big country
6. life during wartime
7. memories can’t wait
8. heaven
9. electric guitar
10. drugs
11. born under punches (the heat goes on)
12. crosseyed and painless
13. the great curve
14. once in a lifetime
15. houses in motion
16. seen and not seen
17. listening wind
18. the overload
19. burning down the house
20. making flippy floppy
21. girlfriend is better
22. slippery people
23. i get wild/wild gravity
24. swamp
25. moon rocks
26. pull up the roots
27. and she was
28. give me back my name
29. creatures of love
30. the lady don’t mind
31. perfect world
32. stay up late
33. walk it down
34. television man
35. road to nowhere

mute math: odd soul

Standard

È uscito il nuovo album dei Mute Math, band che avevo scoperto all’epoca della pubblicazione del loro primo album omonimo per caso, in macchina con un amico. In una compilation casalinga ascoltai Noticed, che è il pezzo seguente:

e che mi riaccese la voglia di Police, in un periodo musicale ampiamente caratterizzato da cloni di tutti i miei gruppi preferiti dell’adolescenza. Poi mi procurai quel disco, scoprendo che di Sting, a parte il timbro della voce in alcuni passaggi, c’era ben poco, rivelandomi però una band divertente, a tratti pop in eccesso per i miei standard, ma tutto sommato godibile, un mix di rock pop elettronica funky e new wave. Sì, c’è di tutto, oltre a un modo molto familiare di utilizzare i synth e i campionamenti. In più elessi immediatamente Darren King a batterista dei miei sogni. Ed ecco il loro terzo album Odd Soul (il secondo non è stato granché ma confesso di avervi dedicato pochissima attenzione), qui sotto il video del primo singolo:

con la testa sulla porta (ma era un sogno)

Standard

Non sono molti i dischi che mi piacciono per intero, intendo l’ascolto in sequenza di tutti i pezzi. Magari c’è quella canzone che mi annoia o che mi disturba, ma la lascio lo stesso perché sentire dall’inizio alla fine un album è un segno di rispetto per il gruppo o l’artista. La tracklist ha un senso e i pezzi devono essere ascoltati solo in quella direzione, ognuno a suo modo prepara il successivo, altrimenti il concept sarebbe stato pensato diversamente. Una visione un po’ integralista alla musica, direte voi, ma che ha un suo perché che può sfuggire considerando l’odierno approccio random su migliaia di pezzi, con l’effetto Virgin Radio che ne deriva, che lo ha reso superato. D’altronde l’aver messo in discussione il supporto e il mezzo stesso di contenimento del prodotto musicale ha completamente cambiato le carte in tavola.

“The head on the door”, come sapete, è l’ellepi dei The Cure che ha aperto la strada del successo pop alla band di Robert Smith. Non a caso i puristi al massimo arrivano a The Top, l’album precedente. Addirittura c’è chi si limita al solo periodo new wave del gruppo inglese, dagli esordi alla triade che si chiude con Pornography. Io non la penso così. “The head on the door” è un album che ha costituito la colonna sonora del mio primo vero upgrade, perdonatemi il termine, una serie di pezzi piuttosto facili considerando la categoria di appartenenza del gruppo in questione, che però hanno la rara caratteristica di rappresentare tutta la gamma degli umori, tutta la scala degli stati d’animo ciascuno con il suo ph, dal più depresso al più frizzante. Se non siete d’accordo, almeno provate a vederlo, anzi, ad ascoltarlo con le orecchie di un diciottenne. Ma bollori adolescienziali a parte, almeno ne si riconosca la straordinaria varietà di atmosfere, dal fill di batteria di “In between days” fino al delay con cui si inabissa “Sinking”, nel ronzio di un ascolto a volume smodato. Insomma, non c’è un solo pezzo che stona, non credo di averne mai saltato uno né in quel 1985 né ora, mentre sta per iniziare il riff di “Push” in questa seduta di ascolto pomeridiano. Un disco da meditazione, come quei liquori da gustare nei bicchieri appropriati, sufficientemente larghi da inalarne lo spirito. Un suono da notte in autostrada, da solo sulla strada del ritorno. E una manciata di canzoni da guardarsi in faccia e sorridersi, perché abbiamo capito che cosa è stato inutile dirsi.

Post Scriptum: prima di acquistare il disco, un caro amico me ne fece una copia su cassetta, gli ellepi costavano non poco e un ascolto preliminare all’investimento era d’obbligo. Ma il suo disco saltava su “A night like this”, quindi omise la traccia otto dalla registrazione senza avvertirmi. Ho consumato quella cassetta convinto che tra “Close to me” e “Screw” non ci fosse nulla. Oggi credo che “A night like this” sia una delle canzoni più belle dell’album, spero converrete con me. Allora non andò proprio così, anzi rimasi interdetto: un solo di sax in un pezzo dei Cure, che sacrilegio!

wilco – the whole love

Standard

Il nuovo album dei Wilco inizia così. Potete immaginarne il resto.