l’unica mossa vincente è non giocare

Standard

Le celebrazioni previste per la settimana della pace a scuola non si sono concluse con la pace nel mondo, come pensavamo. Ci siamo accontentati di qualche cartellone con una riproduzione approssimativa della colomba di Picasso e, per noi delle quinte, la proiezione in auditorium del film “Wargames – Giochi di guerra”. Ho aderito con moderato trasporto all’idea della collega che ne ha proposto la visione perché, se da una parte il film mi ha consentito di dare continuità a una serie di titoli, già visti con la mia classe, utili a traghettare una certa estetica cinematografica anni ottanta del secolo scorso nel nuovo millennio – intercettando così e ponendo rimedio ai palinsesti poco rigorosi dei genitori dei miei alunni, a malapena adolescenti negli anni novanta e quindi testimoni poco autorevoli del decennio più importante della storia dell’umanità – dall’altra avrei preferito evitare che i bambini riconducessero la mia giovinezza a una sorta di preistoria in cui non esisteva il wifi ed era inevitabile il ricorso al telefono di casa per qualunque tipo di connessione da remoto (anche se il giochino dei toni e delle linguette delle lattine nelle cabine telefoniche potrebbe anche sorprendere qualche millennial appassionato di fantascienza retro).

Il limite del film in questione è proprio la componente tecnologica. Mi sono così adoperato per introdurre la proiezione con un preambolo dedicato all’archeologia informatica per aiutare i bambini (sono pur sempre un mansplainer e, di conseguenza, un techsplainer) a cogliere il senso del film senza soffermarsi troppo sulle macchine e sui monitor protagonisti della storia, anche se non so quanto il film potrebbe essere adattato alla contemporaneità. Bisognerebbe chiedere ai temibili hacker russi dei nostri tempi.

Cecilia, che si è seduta in prima fila, si è addormentata alla prima scena, quella dell’addetto alla stanza dei bottoni che non se la sente di premerli. D’altronde, come biasimarla? In un mondo touch, chi mai doterebbe di un pulsante così ridicolo per distruggere il mondo l’esercito degli Stati Uniti?

Quando però i miei bambini si premurano di farmi sapere – direttamente o indirettamente – di aver trovato noiosa una mia proposta didattica o anche qualcosa che mi piace (ogni volta mi riprometto di fare altrettanto, simulando un attacco di narcolessia mentre mi sfracellano i maroni con i loro interminabili aneddoti su quello che hanno fatto nel fine settimana), mi sento fortemente piccato e mi viene voglia di punire la classe con la proiezione delle filastrocche delle tabelline o con una maratona di edizioni dello Zecchino d’Oro, per far cogliere la differenza tra un insegnante tradizionale che li tratta da mocciosi ebeti e un pedagogista disruptive come il sottoscritto.

E pensare che, proprio il giorno precedente a questa debacle cinematografica, avevo visitato Didacta, la fiera dedicata al mondo della scuola. Il tema dell’edizione 2024 era, come potete immaginare, l’AI in tutte le salse, ma col fatto di aver deciso in extremis di partecipare, i seminari su ChatGPT e i suoi derivati erano già fortunatamente sold out. Restavano solo alcuni workshop di quelli che non se li fila nessuno, a partire da un incontro dedicato alla comunicazione della musica con un panel che puntava sul dualismo tra rock e trap e che mi ha coinvolto così tanto da monopolizzare la sezione dedicata alle Q&A, una cosa che, vi giuro, non è assolutamente da me.

Per il resto, era pieno di gente che si muoveva come automi dentro caschi per la realtà virtuale – una roba che nemmeno i Daft Punk – in mezzo a inquietanti cani-robot e ogni tipologia di automazione che, nelle scuole senza carta igienica e dei genitori che menano i presidi, per fortuna non vedremo mai. Ma il fattore più coinvolgente dell’iniziativa, come sempre, è trovarsi in mezzo a migliaia di insegnanti di ogni ordine proveniente da tutto il sud, cioè, volevo dire da tutta Italia. I docenti, lo sapete, si riconoscono lontano un miglio, quasi più dei poliziotti in borghese e dei carabinieri che vogliono infiltrarsi nella microcriminalità per stanare quelli che vendono gli spinelli ai giovani. E quando noi docenti siamo in gruppo – non necessariamente per partecipare a un collegio docenti – siamo a modo nostro bellissimi. Ho visto colleghi con trolley traboccanti di gadget e brochure proprio come a Natale alla fiera dell’artigianato. Io non ho preso nulla, non ho trovato nulla, ma solo perché non sapevo nemmeno cosa cercare.

AI AI AI

Standard

Se ci fossero delle telecamere di sorveglianza nelle classi (tra parentesi, vedrete che prima o poi le installeranno) e qualcuno chiedesse di visionare le riprese come nelle serie tv poliziesche, anziché scorrerle velocemente per trovare il punto in cui si vede il serial killer, il detective interromperebbe la riproduzione invece sul fotogramma in cui il docente viene colto con una di quelle espressioni del tipo Perché lo faccio? Non vedi che io non ci vorrei stare qui? Che è uno stato d’animo legittimo in ogni professione, per carità, ma che, se hai a che fare con le persone sane o malate, desta legittimi sospetti tra la gente comune perché lascia intendere che se non hai voglia di fare l’insegnante è meglio che tu vada a fare altro. Stesso discorso se fai il medico, perché potresti fare dei danni e anche grossi. Le immagini della telecamera a circuito chiuso mostrerebbero il collega che, per riempire gli ultimi dieci minuti prima della mensa, troppo pochi per introdurre un nuovo argomento, coglie l’occasione per condividere un’esperienza senza precedenti. Il video di “Grace” degli Idles, il singolo del quinto album appena uscito, realizzato con l’intelligenza artificiale applicata sul video di “Yellow” dei Coldplay. Una figata pazzesca. Si vedrebbe l’insegnante scrivere qualche spunto per far riflettere gli alunni: “Yellow” è del 2000, Chris Martin, che è nato nel 77, ai tempi aveva ventitré anni, e il disco “Tangk”, appena uscito, cantato interamente da Joe Talbot nato nell’84, mentre Chris Martin ora ha 47 anni e, cercando le foto su Google, si vede con la barbetta e qualche ruga in più. Com’è possibile che gli Idles abbiano ingaggiato il frontman dei Coldplay per il video della loro canzone e, soprattutto, che sia ancora tale e quale a se stesso ventitreenne? Le riprese continuerebbero quindi con alcuni bambini della classe che alzano la mano per rispondere con i soliti interventi a sproposito – peraltro proprio dietro la cattedra, a fianco dei cartelli “solo aneddoti brevi” e “please clap on the 2 and the 4”, si nota l’avviso “solo cose attinenti, grazie” – e la frustrazione sul volto dell’insegnante, fino al turno di Fatima che, finalmente, capisce di cosa si tratta. La registrazione continuerebbe con il docente che allora propone un po’ di esperimenti con Dell-E per mettersi in gioco con le immagini realizzate con l’intelligenza artificiale, inventando dei prompt spassosissimi e super creativi come “un gruppo di guerrieri etruschi al centro commerciale di Arese” o “Astor Piazzolla che suona il suo bandoneon nella piazzola di un campeggio”, e poi con il tentativo di coinvolgimento dei suoi alunni a fare altrettanto. Si sentirebbero quindi idee come “Lionel Messi senza capelli”, “Marcus Rashford in stile maranza”, “un cane bassotto a forma di salsiccia”, “un gatto sul dorso di un cavallo”, “mio padre” fino all’apoteosi, “un unicorno che fa la spesa” e, per finire, si leggerebbe il labiale del docente sussurrare una cosa tipo “ma andatevene tutti affanculo”.

ci siamo fatti così

Standard

Ci sono cose che hanno del miracoloso, tra le prime che mi vengono in mente c’è questa qui che ho davanti, per la quale schiaccio dei tasti di plastica con delle lettere stampate sopra e miracolosamente la stessa lettera si manifesta su uno schermo, ma anche certe funzionalità del corpo umano, ne parlavo qualche giorno fa introducendo l’argomento che iniziamo ora in scienze. Cellule, tessuti, organi, apparati e sistemi. “Ma ci pensate?” è la domanda retorica che ho posto ai miei bambini. Loro mi hanno guardato come sempre, come quando stanno per chiedermi se possono andare a fare la pipì proprio mentre io sono al momento cruciale del mio TED sul senso della vita. “Maestro posso andare in bagno?” e io, in risposta “Ma ti perdi una parte importante di spiegazione. È urgente?”. Inutile che vi dica come va a finire, le bambine sono già alle prese con il ciclo e non sai mai perché vogliono assentarsi, e allora devi mandare anche i bambini perché non sarebbe corretto e poi, se non li mandi, comunque i genitori si infuriano.

Comunque, tornando alla domanda retorica “Ma ci pensate?”, chiaro che non ci pensano, che non si pongono il problema del miracolo dei mitocondri o del sistema nervoso o dei globuli rossi e tutto lo sbattimento che fanno, non so se avete mai visto i cartoni animati sul corpo umano che, ancora oggi, costituiscono l’approccio pedagogico alle stem più autorevole e diffuso. Si accendono le luci nelle loro teste solo quando si parla di femmine e di maschi e di quello che combinano con i loro apparati riproduttori, per il resto è un tirare ai due intervalli e all’uscita. Non c’è apotema o funzione ricorsiva o progressione armonica che mi trasmetta da parte loro, mi accontenterei anche solo di un impercettibile sollevamento delle sopracciglia, una qualsiasi espressione di “cazzo che bella storia imparare le cose che ci spieghi, maestro, dimmi di più su Kind Of Blue e il jazz modale”.

Non li biasimo. C’era anche la puntata sul ciclo della vita, e probabilmente alla cattedra devo fare lo stesso effetto che fa a me vedere Augias alla tv, i capelli e la parlata un po’ biascicata si somigliano abbastanza, d’altronde anagraficamente sono molto più vicino a lui che a loro. Che poi, alla cattedra, chi ci sta più? La mia collega prefe si siede in cerchio sul pavimento con i bambini ogni inizio settimana e li fa parlare di quello che sentono dentro, per dire. Quando assisto a questi metodi, più efficaci e coinvolgenti dei miei (praticamente tutti) mi ripeto che, quando si presenterà l’occasione ci proverò anch’io, sempre che riesca poi a rialzarmi da terra. Ho un collega che ha qualche anno più di me e che a me dà l’effetto di mio nonno ma sono di parte, sicuramente nessuno, osservandoci dall’esterno, coglie la differenza. Indossa felpe e sneakers colorate che trovo in contrasto con gli spazi vuoti dei molari che gli mancano e i capelli radi e lunghi che porta pettinati all’indietro. Ci siamo scambiati qualche impressione su un nuovo modo di insegnare la matematica ma, mentre mi parlava, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e, da allora, ho ripreso a indossare la camicia, perché il collo, quando inizia ad ammorbidirsi – diciamo così – è meglio occultarlo.

L’unico aspetto che mi lega alle nuove generazioni è, paradossalmente, la cosa che so fare meglio nella scuola, cioè risolvere i problemi dei computer, di quello che non funziona dentro e quello che gli sta attaccato. Saremo soppiantati insieme, quelli come me e quei ferrivecchi con cui stiamo affrontando la transizione digitale. Verremo ridotti in briciole come a Ercolano e Pompei, e gli archeologi del futuro ricaveranno i calchi con il gesso di noi nello spazio che lasceranno i nostri corpi sorpresi, con il cacciavite in mano, nell’atto di sostituire le lampade bruciate dei proiettori delle LIM.

sturdy

Standard

Allora siamo d’accordo. L’appuntamento è per martedì prossimo alle 14.30, prima ora dopo la mensa. Andiamo in terza B a insegnare lo sturdy a quei mocciosi di otto anni. Tutto perché ci siamo incontrati per una supplenza e ho notato un paio di nanetti arroganti che, nel solito gioco del jukebox, hanno accennato due mosse di breakdance. Si tratta di quello con la coda che – paradossalmente – quando è stato il suo turno di scegliere ha richiesto il “Pescatore” di De André, e il suo compare con i capelli rossi e il ciuffo, quel piccoletto che sembra uscito dalle vignette della Settimana Enigmistica, avete capito, quello dell’ultima fila che interviene sempre senza alzare la mano. Le femmine no, loro sono ancora nella fase dei balli di gruppo che è diventata una vera e propria disciplina a sé all’oratorio che è una cosa che non ho mai capito, quella di insegnare le mosse di “Danza Kuduro” e di “Bomba” ai bambini, con l’aggravante degli ammiccamenti sexy in un luogo frequentato da preti, insomma ci siamo capiti. Ha ballato persino una specie di reggaeton anche la bimba cingalese, per un corto circuito di integrazione e inclusione che non ha eguali. È una tipetta fortissima, ogni volta che la incrocio nei corridoi o in fila all’uscita le chiedo di pronunciarmi tutto d’un fiato il suo cognome da record: 18 caratteri spazi esclusi in un’unica parola. Lei obbedisce sorridendo, sa che mi diverte di brutto e devo esserle simpatico.

Allora ho colto la palla al balzo e ho condiviso l’idea con la loro docente che poi è la collega con cui ci lanciamo in questi esperimenti di classe fuori dalla classe. Lei ha accettato con entusiasmo, non è facile trovare idee fresche per organizzare attività di musica ai bimbi se non hai una formazione didattica apposita, cosa che non ho nemmeno io, sia chiaro. I miei alunni, ormai da un paio di mesi, si sono dati anima e corpo allo sturdy. Marco, che non avrei mai detto in prima che avesse la stoffa della leadership, ha contagiato il suo gruppetto più stretto con la sua passione e poi, grazie allo spirito di emulazione dei pari proprio dell’età, la pratica dello sturdy si è estesa a quasi tutti, a parte le ragazzine più recidive, compresa quella a cui i genitori, estremisti cattolici novax, impediscono persino di festeggiare halloween come tutti gli altri. Nell’intervallo corto e in quello lungo, quando non scendiamo in giardino perché fa freddo o c’è brutto tempo, si mettono in cerchio nello spazio antistante la Lim, scelgono su Youtube le canzoni più adeguate e poi, a turno, vanno in mezzo e si esibiscono con i passi standard di quella specie di Kazačok, il ballo dei cosacchi, o come diciamo noi in Italia dai tempi del Cantagiro e di Dori Ghezzi, Casatschok. Mi soffermo spesso a osservarli, ognuno con il suo stile. Chi è più atletico ma fa sembrare la danza una disciplina della ginnastica. Chi è più goffo. Chi ha meno forza nelle gambe, quindi con i risultati peggiori. Chi invece ha più stile, che poi è solo Marco, ma non glielo dico perché non voglio che i suoi compagni restino delusi. La danza è una questione di personalità ed è bello sentire di potersi muovere liberamente, fuori da ogni categoria.

Il problema è che la musica che fa da base allo sturdy fa cagare a spruzzo a livelli stratosferici e poi il repertorio a loro disposizione è piuttosto limitato. Quindi, alla terza o quarta riproduzione in loop dei successi di Rondo o di “Manzi in Romania”, chiedo a Marco e alla sua crew di eseguire i loro balletti a memoria, senza canzoni di sottofondo. Mi verrebbe da mettere “Roots Bloody Roots” o i Carcass a manetta ma so già che, con l’approccio genuino dei preadolescenti alla contrapposizione con gli adulti, riuscirebbero a deridere anche le cose più estreme che conosco. È impossibile estinguere le emancipazioni culturali devianti delle nuove generazioni, l’unica cosa che possiamo fare è intercettarle per sminuirne la portata trasgressiva, declassarle a componenti strutturali della società per far sentire i giovani non così fuori di testa come gli competerebbe. Nessun alternativo cresciuto nel sessantotto o nel settantasette o negli anni ottanta o nei rave party sopporta di avere qualcuno che lo sorpassa a sinistra con qualche trovata più estrema della sua e certa trap, sturdy compresa, è oggettivamente la cosa più folle mai vista e sentita da sempre.

Ho proposto alla crew dello sturdy della mia classe di far vedere di che pasta sono fatti, trasferendo a quelli di terza B le tecniche delle acrobazie che ostentano nelle loro esibizioni e mettere a frutto il loro talento. La strategia è chiara: diventare insegnanti di qualcosa significa mettersi in una posizione di autorevolezza e non c’è nulla di più antitetico all’autorevolezza come chi pratica la cultura della strada e dei parchetti e delle canne e delle gang della trap, che poi è cultura inconsapevole, nel senso che chi la professa non sa che sta professando una cultura ma pensa di fare delle cose a cazzo. Che infatti sono cose a cazzo ma, in qualche modo, le famiglie e la scuola e gli adulti in genere devono fare qualcosa, altrimenti, le nuove generazioni, le perdiamo definitivamente. Andremo a insegnare lo sturdy in terza B, e i miei alunni sono già gasatissimi.

bollino rosso

Standard

Alla primaria, almeno da me, non ci sono grossi problemi nel caso in cui un bambino accumuli troppe assenze. So che alla secondaria esiste un limite oltre il quale viene precluso il passaggio alla classe successiva in quanto i gap didattici impediscono l’applicazione dei criteri di valutazione. Con i più piccoli invece si cerca di trovare un compromesso con la famiglia perché le cause delle presenze a singhiozzo possono essere molteplici, soprattutto in questi anni di epidemie e influenze molto aggressive. Noi docenti, per esimerci da ogni responsabilità, segnaliamo in tempi utili al dirigente e in segreteria quando i giorni di assenza iniziano a essere di impiccio allo svolgimento delle nostre attività. Accudendo i nostri alunni quotidianamente abbiamo il polso della situazione, comunque da qualche anno ci viene in aiuto il registro elettronico che visualizza un bollino rosso come sfondo sotto al numero dei giorni di assenza – quando iniziano a essere troppi – e di relativa percentuale sul totale delle lezioni.

Io ho due alunni che sono marchiati con il bollino rosso già nel primo quadrimestre e si tratta di due casi completamente diversi. A fronte di assenze ripetute verrebbe da pensare che non frequentare sia una conseguenza di prove tecniche di abbandono scolastico o perché i genitori non si svegliano in tempo per la campanella perché la sera prima sono rientrati alle tre ubriachi come nelle serie tv americane o altri generi di trascuratezze, invece purtroppo si tratta del problema opposto. Troppa ingerenza nell’educazione dei figli – e in generale nella loro vita – induce le famiglie a vere e proprie psicosi. Nel primo caso dei due c’è una madre (fuori di melone) il cui obiettivo è tenere il bambino al riparo dai problemi di salute che una vita sociale e comunitaria può comportare, con il risultato che il figlio non è capace nemmeno a salire e scendere le scale. Nel secondo, una mamma altrettanto poco registrata non ha voluto rassegnarsi al risultato dello screening che confermava i disturbi specifici dell’apprendimento della bambina e, anziché avviare il percorso della certificazione e della conseguente pianificazione didattica specifica in collaborazione con la scuola, ha optato per una parziale istruzione domestica più o meno in autonomia. La figlia è tale e quale a prima, ma noi abbiamo gettato la spugna anche se non si dovrebbe.

Come vedete, anche il 2024 sembra promettere bene e, al momento, a scuola non si riscontra alcuna discontinuità quindi meglio così. Il mio alunno che parla a un tono impercettibile di voce e che quindi mi costringe ad avvicinarmi alla sua bocca esponendomi al suo alito micidiale non ha migliorato per nulla la sua igiene orale. Claudia, una delle mie colleghe prefe (come dicono i giovani d’oggi) ha in classe il fratellino del mio alunno-cloaca e mi ha confermato trattarsi di un problema generalizzato. I genitori hanno responsabilizzato in eccesso i figli in routine come quella dello spazzolino e loro se ne sono giustamente approfittati, con l’aggravante delle schifezze che devono mangiare per ridursi così. Gli alunni, a scuola, portano una parte del loro mondo e la mettono in condivisione con gli altri ed è li che le cose si mescolano e che si forma la vera società di domani. Da me ci sono un paio di ragazzine che non si fermano in mensa ma tornano a casa per pranzo. Il punto è che oltre a perdersi quell’importante momento di convivialità con i compagni, al rientro a scuola saturano la classe degli odori delle cucine in cui hanno consumato il pasto. Si siedono al loro posto e curry e aglio e fieno greco li vedi espandersi nell’aria per posarsi sulle cose come banchi di nebbia in autostrada.

L’ultima cosa che vi voglio raccontare riguarda Miles Davis. Quando mi serve un brano jazz che risponda a tutti i luoghi comuni del jazz in modo che sia perfettamente riconoscibile da chi non mastica il jazz – quindi anche dei bambini – metto “So What” e chiunque – quindi anche dei bambini – se gli chiedi di che genere si tratta, risponde “è jazz!”, senza pensarci troppo su. Una delle mie alunne prefe (come dicono i giovani d’oggi), di cui già so che ha il papà che suona un po’ di tutto, quando ho fatto ascoltare “So What” in un’attività di abbinamento immagini a colonna sonora, ha riconosciuto il brano – anzi lo aveva già riconosciuto dal titolo – e ha raccontato che il papà mette spesso il cd che lo contiene. Le ho chiesto allora di portare a suo papà i miei complimenti per i gusti musicali, e di risposta ha avuto un guizzo improvviso. Si è ricordata di getto che suo padre ha registrato un cd. Suona il sax, prevalentemente, così ho pensato che l’associazione tra “So What” e il sax di suo papà sul cd fosse il fatto che si tratta di un cd di jazz, così – altrettanto di getto – le ho chiesto di farmi ascoltare il cd, sempre che il padre fosse d’accordo. La mattina dopo il cd era sulla mia cattedra. Ho ringraziato la mia alunna e, dopo aver dato un’occhiata alla copertina, alla tracklist e al booklet, dopo aver verificato che si trattasse di una pubblicazione amatoriale e che lasciasse invariato il mio primato che mi vede tutt’ora in vetta tra le persone che conosco – non musicisti professionisti, ça va sans dire – come l’unico ad aver pubblicato un cd con una major, mi sono sovvenute alcune perplessità. Si tratta infatti di un’opera realizzata per beneficenza, e fin qui nulla di male, proposta durante la messa, e fin qui nulla di male, contenente musiche religiose, e fin qui nulla male. Il punto è che dovrò ascoltarla, cosa che farò appena pubblicato questo post, e dare un feedback alla mia alunna, una delle mie prefe (come dicono i giovani d’oggi), perché per lei è importante.

no libro oggi

Standard

La mamma di Eric lo ha scritto sotto forma di comunicazione ufficiale sul diario, da far firmare a noi insegnanti, per essere chiara e fugare ogni dubbio: in occasione della visita alla biblioteca comunale Eric non deve prendere in prestito nessun libro. Non tanto perché in famiglia si parla il cinese e un libro in italiano potrebbe risultargli complicato da leggere durante le vacanze, piuttosto perché la mamma non vuole o non ha tempo poi di riportarlo in biblioteca – così ci ha spiegato lui – una volta che Eric lo avrà terminato o comunque alla scadenza del periodo consentito. Eric ci ha sottoposto l’avviso della mamma come prima cosa, appena entrato, consapevole dell’urgenza di farcelo sapere. È finita che, conclusa la visita, tutti sono rientrati a scuola con un libro tranne lui. Peccato, perché Eric sembrava decisamente attratto da tutti quegli scaffali sommersi da pubblicazioni coloratissime – romanzi, fumetti, saggistica e giochi – e adatte alla sua età. C’era, come facile immaginare, l’imbarazzo della scelta e lui, uno dei bambini più curiosi della mia classe, si è dovuto accontentare di sfogliare qualche volume lì, durante la visita. Ho scattato persino una foto a quella comunicazione secca sul diario – Eric no libro oggi – perché trasmette un’intransigenza sovradimensionata rispetto alla semplicità dell’operazione, ancor prima di considerare l’aspetto severamente morale e pedagogico legato all’importanza della lettura, il profumo della carta e tutte quelle cose lì. Che cosa vuole che sia, vorrei dire alla mamma di Eric, un ritardo nella consegna di un libro alla biblioteca comunale, senza contare che, se nessuno richiede prima il testo, i prestiti possono essere rinnovati fino a tre mesi. La biblioteca comunale, la scuola e le abitazioni dei miei bambini sono a uno sputo di distanza tra di loro, tutte quante incluse nel raggio ridottissimo della frazione di un piccolo paese di periferia. Possibile che la signora non riesca a dedicare mezz’ora del suo tempo – e mi tengo molto largo – per fare un salto a restituirlo? Ho pensato che mi sarei potuto proporre come intermediario e convincere Eric a prendere comunque il libro che preferiva e poi, una volta letto, di riportarlo pure a scuola. Mi sarei occupato in prima persona della riconsegna, non mi sarebbe costato nulla. Ma la mia collega non mi è sembrata d’accordo. Secondo lei avrei corso il rischio di intromettermi in qualche consuetudine famigliare o, peggio, avrei potuto scardinare una consolidata impostazione valoriale in cui – tiro a indovinare – non si leggono i libri appartenenti alla cittadinanza, o i genitori vogliono scegliere in prima persona le letture dei figli, o in casa si leggono solo libri in lingua cinese o boh. Ecco, forse boh. Forse non c’è una spiegazione logica a questo divieto irrazionale. Eric no libro oggi e basta, senza tanti perché.

che palle

Standard

L’essenza del Natale, nella sua accezione laica – ammesso che ne abbia una – è che gli sforzi dell’umanità, almeno di chi può festeggiarlo, si concentrano intorno a un palinsesto dedicato ad alcuni temi che negli altri periodi dell’anno non ci è possibile seguire per svariati motivi: la nostra natura, il lavoro che facciamo, il clima stesso, i fatti di attualità e il solito tran tran. Fino quando poi sopraggiunge dicembre – che, non so se avete notato, è lì che ci aspetta puntuale sin dal giorno in cui rientriamo dalle ferie estive – e tutti ci sintonizziamo più o meno sullo stesso canale e ci impegniamo a favorire le condizioni per cui l’unico scopo e il solo pensiero siano finalizzati a un motivo conduttore condiviso che, banalizzando, è riconducibile a far di tutto per fare stare bene il prossimo e, di riflesso, esporci in modo tale che il prossimo faccia stare bene noi, una versione con renne e slitte e festoni e canti ad hoc della strategia win-win, quella in cui tutti hanno la percezione di aver raggiunto gli obiettivi inizialmente prefissati.

Ed è impossibile sottrarsi a questa narrazione a meno che non viviate nella striscia di Gaza, in qualche paese del terzo mondo, nei territori in guerra o in qualunque area del pianeta devastata da una catastrofe naturale. Probabilmente la scansione del tempo – che a volte ci sembra una convenzione sociale ma poi, studiando rotazione e rivoluzione terrestre in scienze ci sono ben chiari i motivi per cui non dipende da noi – è stata pensata proprio per consumare fino al loro esaurimento i pattern ricorrenti (giorni, mesi, stagioni e anni e mi fermo qui, dai secoli in poi è tutto ampiamente fuori dalla nostra portata) intorno ai quali conduciamo la nostra esistenza. Se a sera ci addormentiamo sul divano al tg di Mentana, se non arriviamo alla fine del mese con lo stipendio e se a dicembre giungiamo stremati ci sarà un motivo. Voglio dire, probabilmente la natura ci dà il suo clic in cuffia, proprio come succede negli studi di registrazione, e noi viviamo seguendo quel ritmo. Questo per dire che siamo tutti uguali di fronte all’albero di Natale addobbato e ci abbandoniamo a quel mix agrodolce di pensieri che poi sublimiamo – alcuni la sera della vigilia, altri al pranzo del 25, ecco, in questo siamo diversi – nel convivio con gli appartenenti alla nostra specie più prossimi al nostro vissuto. Il punto è: è nato prima il natale o prima l’insieme di tradizioni che seguiamo rigorosamente ogni anno seguendo una check list consolidata da secoli? Prima dell’anno zero, a natale come passavate il tempo?

In casa, per le strade, alla tele, nei centri commerciali è impossibile sottrarsi allo stato d’animo diffuso. A scuola, poi, che è un concentrato di bambini che, del natale, costituiscono il core business, non ne parliamo, ed è sconsigliatissimo adottare deterrenti a questa sorta di pensiero unico. Quest’anno il consueto lavoretto di natale che purtroppo non posso decidere in autonomia ma è di competenza della collega più brillante in ambito bricolage e fai-da-te (se potessi decidere io farei un’infografica con Canva) consiste in una casetta costruita con le palette per spalmare la cera, che poi se le cercate su Amazon scoprirete che fungono anche da abbassalingua, spero non prima di averle lavate. Io, che con le attività manuali sono una frana, ho trasmesso tutte le mie perplessità sul tempo perso a realizzare male qualcosa che poi finirà nella spazzatura a feste finite ai miei alunni che, di conseguenza, a parte i soliti primi della classe che approcciano qualunque proposta con lo stesso invidiabile eccesso di zelo, è venuto una merda.

C’è poi Leonardo, che quest’anno è davvero al centro delle attenzioni di tutti, a cui invece il natale fa l’effetto opposto. Odia tutto e tutti molto più di quanto non esprima per il resto delle stagioni e l’insieme dei cambiamenti volti all’omologazione generale verso l’estetica e l’etica delle festività lo mandano in bestia con una frequenza maggiore del solito. Ogni pretesto è buono per far volare banchi e sedie in aria e, davvero, non sappiamo più che pesci prendere. Ci sono poi le colleghe che mi vogliono bene perché, alla fine, riesco a collegare sempre le loro stampanti di classe al pc dopo gli aggiornamenti che lasciano partire involontariamente, o anche solo perché hanno messo il cavo usb nella presa di rete del portatile. Sanno che mi piace il genepì e così, a dicembre, mi faccio la scorta per tutto l’anno.

Tra i membri del team dell’interclasse ci facciamo sempre un pensierino, una candela, un segnalibro o qualche altro oggetto originale acquistato ai mercatini di natale. Il primo anno in cui ho preso servizio non lo sapevo, venivo da un ambiente professionale in cui il fattore umano non era certo al primo posto, e così sono stato l’unico a presentarsi a mani vuote ma, per fortuna, l’appartenenza al genere maschile mi ha sollevato dalla figura di merda. Sei un uomo, non ti preoccupare, mi ha detto la mia collega di classe. Da allora ogni anno mobilito mia moglie per supportarmi nella scelta delle cose più adatte da acquistare per il consueto scambio dei doni all’ultima riunione di programmazione di interclasse prima della pausa natalizia. Non che io non sia in grado di scegliere, ma solo perché vivo nella convinzione che, se acquistati da una donna, i regalini possano corrispondere di più all’idea che le mie colleghe hanno di me, un uomo che si affida a una donna per le cose da donna.

giardino

Standard

Sono in molti a chiedermi cosa si prova alla conclusione di un ciclo. Io rispondo che non lo so, questa è la prima volta che accompagno una classe fino alla quinta, e che ne riparleremo a giugno. Anzi, non rispondo proprio perché ho il sentore che sarà complicato. Se rivolgete la stessa domanda alla mia collega, che invece è una veterana, lei ha la mia età ma fa questo lavoro da quando aveva diciannove anni (io a diciannove anni mi conciavo come Robert Smith e volevo fare il musicista new wave) vi sentirete rispondere che è un aspetto del nostro lavoro, che siamo di passaggio nella vita dei bambini, che poi si riprende con un’altra prima e i nostri ex alunni, tempo qualche mese, non si ricorderanno più chi siamo e così via. Se lavori con le persone, le persone nella vita vanno e vengono e affezionarsi non è tanto che non bisogna farlo quanto che è controproducente, un po’ come per i dottori, gli psicologi, gli allenatori sportivi. E, a pensarci bene, gli insegnanti sono un po’ tutte queste figure insieme ma anche di più. C’è qualche volta in cui non vedo l’ora di lasciarli perché, ora che sono grandi, non li sopporto più. Ma è un po’ come le dinamiche in famiglia: la sovraesposizione alle persone genera mostri relazionali. Abbandonereste mai il vostro partner, i vostri figli, i vostri gatti solo perché qualche volta vi fanno arrabbiare? Ecco, anche tra maestri e alunni funziona allo stesso modo. Sanno essere adorabili e insopportabili, a volte anche simultaneamente. La cosa che ho imparato è che si possono fare delle sfuriate e mettere tutte le note sul diario del mondo ma la mattina dopo, suonata la campanella, i bambini non se lo ricordano più e sono pronti a ripartire da zero, senza risentimento alcuno. A parte qualche eccezione, la mia classe andrà alla secondaria dello stesso istituto comprensivo. Si trova dall’altra parte del giardino e condividiamo la stessa palestra. Ogni tanto li vedo passare, di ritorno dall’ultima ora di motoria, o mentre giocano nel campo di basket in cui ci mettiamo noi nell’intervallo lungo perché il docente è assente e l’insegnante di sostegno li porta a pascolare fuori. Li osservo comportarsi da adolescenti e mi chiedo che cosa c’entrino con il materiale umano che mi trovo sottomano. Non ce li vedo, i miei alunni, in quei corpi sviluppati, i maschi con la peluria sul viso, le femmine con il seno. Un paio di notti fa ho sognato il mio ACD cinese che mi parlava nel modo in cui si rivolge a me dalla prima, con le sue frasi senza senso in un italiano da linguaggio macchina. Nel sogno pensavo che non sarebbe stato poi così male non essere più importunato dalle sue domande sgrammaticate e sparate a raffica, sentirmi libero dall’essere il suo unico punto di riferimento e il primo a cui dire che ha mangiato al Burger King o che suo fratellino lo ha svegliato alle sei e trentotto. Nel sogno eravamo in giardino, lui mi stava accozzato come ha fatto ogni giorno, sin dalla prima a oggi,  a disturbarmi in quella mezz’oretta di relax, mentre tutti gli altri giocavano a calcio nel campetto da basket, e poi, non chiedetemi il perché, ma nel sogno pensavo a lui come farà il prossimo anno e mi mettevo a piangere e singhiozzare proprio come fanno loro, maledetti ingrati che andranno alle medie senza di me.

boxe

Standard

Leonardo non ci ha pensato due volte e ha accettato la sfida. È stata la preside a farsi avanti: “prova a lanciarlo”, gli ha detto. E lui, il banco, glielo ha tirato addosso. Per fortuna Leonardo fa la terza, il banco era quello che pesava più dei due, e con il lancio non è andato molto lontano.

Leonardo è fatto così. Ha un interruttore, da qualche parte. Quando lo schiaccia si accende qualcosa e lui deve scappare. Da quando abbiamo scoperto questa funzionalità il cancello esterno della scuola dev’essere sempre chiuso – non che prima non lo fosse ma meglio controllare – perché con il portone con le maniglie antipanico c’è poco da fare. Leonardo preme l’interruttore, si accende e comincia a correre. Poi abbiamo scoperto anche un selettore, come quelli che hanno i giradischi per passare da 33 a 45 giri. La rabbia a trentatré giri, quella che si usa di più, lo fa scappare fuori dalla scuola. Quella a 45, che si usa meno frequentemente ai tempi della musica in streaming, gli fa dare i pugni alla cieca o scagliare la prima cosa che gli passa per le mani contro gli adulti che ha intorno. Succede più di rado ma non risparmia nemmeno l’autorità, come avete visto.

Non è un mio alunno – meno male – ma qualche giorno fa mi sono imbattuto per puro caso in una delle sue fughe. I miei bambini erano in mensa e sono salito in classe perché Jasmin aveva dimenticato le pastiglie effervescenti da prendere dopo mangiato. Mi è praticamente volato addosso scendendo lungo una rampa tra il primo e il secondo piano. Dopo l’impatto ha tentato un maldestro dietrofront ma quando ha visto arrivare di corsa la collega che lo stava inseguendo ha tentato di scavalcare il corrimano per buttarsi di sotto. Non c’è spazio tra le rampe quindi avrebbe fatto un salto di poco più di un metro. Ma il gesto mi ha fatto molta impressione, in un moccioso di otto anni. Lo abbiamo placcato ma è riuscito ad allentare la presa della collega che lo teneva per le spalle e ha ripresa la sua fuga, questa volta verso il piano di sopra.

Ci siamo precipitati dietro a Leonardo fino in biblioteca dove, oramai braccato e senza via di fuga proprio come un animale selvaggio, ha spalancato una finestra e ha compiuto persino il gesto di arrampicarsi per farci capire che, con i gesti estremi, non sarebbe sceso a compromessi, anche se prima avrebbe dovuto scardinare la tapparella a lamelle orientabili. Messo in sicurezza l’ambiente, Leonardo ha scelto di mettere tutto a soqquadro, facendo volare in aria libri e sedie e qualunque cosa si trovasse sui tavoli. Mi ha addirittura gettato addosso uno dei pouf colorati. Con un riflesso in cui non mi riconosco assolutamente, ho afferrato il pouf al volo. Mi sono avvicinato e, tenendolo tra me e lui, l’ho invitato a prenderlo a pugni. Dopo una raffica di colpi di boxe Leonardo ha esaurito la carica e, mosso da un inconsapevole impeto di autoconservazione, ha premuto il suo pulsante in posizione off. Gli occhiali gli si sono appannati ed è scoppiato in lacrime.

La mia collega si è fatta avanti con una proposta geniale. “Perché non scriviamo una mail alla preside per chiederle se ci compra un punching ball?”. Leonardo ha acconsentito, ma non perché non avesse nessun’altra risorsa da spendere per trovare una soluzione alternativa. Ha capito.

Ci siamo così seduti uno a fianco all’altro, la mia collega, Leonardo ed io, in una delle postazioni del laboratorio di informatica, adiacente alla biblioteca. Ho fatto log in con il mio account Google Workspace, ho cliccato su nuova mail, ho inserito l’indirizzo della dirigente, ed è andata così:

buon giorno preside,
sono leonardo di terza b
ogni tanto sono arrabiato
e vorei un pungiball
grazi presid arivederci

Ho indicato a Leonardo il tasto per l’invio ma sapeva già fare tutto. Abbiamo spento il pc e, senza che gli dicessimo nulla, si è allontanato lentamente dalla postazione, ha raggiunto la biblioteca, lì a fianco, e, partendo proprio dal pouf, ha cominciato a rimettere tutto in ordine.

puntini puntini

Standard

Ho sostituito le lenti che uso per leggere e per stare al computer la scorsa primavera e, per il rotto della cuffia, ho evitato l’upgrade alle progressive. Da lontano vedo ancora bene ma, da vicino, è sempre più un disastro. Il fatto è che gli occhiali sul naso mi danno fastidio e cerco di rimandare il più possibile il momento in cui dovrò portarli costantemente, anziché indossarli solo per la presbiopia. Ma negli ultimi mesi la situazione è peggiorata e temo di non avere scampo. La mattina, appena sveglio, faccio una fatica enorme a mettere a fuoco le cose in prossimità e sono esposto a rischi grossolani. Per esempio, stamane ho ricevuto sullo smartphone il messaggio dall’app della banca dell’accredito dell’assegno famigliare di 13.00 euro ma, non vedendo il puntino tra unità e decimali, ho letto 1.300 e, messi gli occhiali, ci sono rimasto molto male. E pensare che la questione della separazione tra le classi – la società contemporanea non c’entra, mi riferisco al valore posizionale delle cifre nei numeri, quindi miliardi, milioni, migliaia e unità semplici – è all’ordine del giorno. La mia collega veterana e opinion leader in matematica sostiene di aver vissuto in prima persona il dibattito, tempo fa, sulla necessità di individuare un’alternativa ai puntini, considerando che le calcolatrici ne utilizzano il simbolo al posto della virgola. Lei è una sostenitrice radicale e accanita dello spazio tra le classi. A me non piace in prima battuta perché non sono classista ma, soprattutto, perché poi crea confusione ai bambini quando si tratta di risolvere le operazioni in colonna. Il testo che ho adottato, poi, sostiene che, oltre allo spazietto, si può usare il puntino sotto ma anche quello sopra. Non solo: le calcolatrici moderne, per non parlare delle app, la virgola la sanno scrivere eccome. Mi scoccia, però, avviare discussioni inutili con la mia collega decana, che poi ha solo un paio di anni più di me ma insegna da quando ne aveva diciotto mentre io, a diciotto, mi conciavo come Robert Smith. Faccio finta di nulla, annuisco nelle discussioni quando insiste sul fatto che il mondo della pedagogia si era espresso senza lasciare alcun dubbio sul problema dello spazio rispetto al puntino, ma poi, alla LIM, quando lavoriamo in classe sulle operazioni con i numeri grandissimi, dico ai bambini che possono fare quello che vogliono. Puntino sopra, puntino sotto, spazietto, lascio scegliere cosa preferiscono, basta che facciano attenzione. Anche perché, a fare attenzione, il primo devo essere io. La scrittura alla LIM è l’unica attività ravvicinata in cui è meglio che mi tolga gli occhiali. Sarà la penna, sarà la luce, sarà la vecchiaia, fatto sta che anche per le operazioni più semplici  – contare otto quadretti, fare i puntini tra le classi dei numeri – devo allontanarmi e controllare due volte. Chissà se con le lenti progressive cambierebbe qualcosa. E comunque, quando leggo “lenti progressive”, la prima cosa che mi viene in mente è “After The Ordeal”.