xl

Standard

La tipa denutrita della pubblicità Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi è il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissà quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale è straordinaria – ed è molto più convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicità. Per recitare così male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non è solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, è una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito è frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea è una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracità con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualità è vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi è sotto soglia anche il caffè, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa è un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino è un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffè, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perché sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi è di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffè, scarto la prima delle due merendine con cui concluderò il pranzo, e come se vivessi in una pubblicità televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

magritte

Standard

Non c’è cosa più surreale della guerra. Allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina ne abbiamo parlato molto, in classe. Dell’attacco di Hamas e del conseguente assedio di Gaza da parte di Israele molto meno, probabilmente perché la questione palestinese è più complessa, ce l’abbiamo anche in casa e, anche tra adulti, si percepisce come qualcosa di trito e ritrito o comunque un conflitto che coinvolge, almeno da una parte, un popolo di straccioni e poco influenti in certi equilibri globali a meno di non mettersi alla guida di aerei di linea. Secondo me è stato più l’istinto che hanno i docenti a non ripetersi per non annoiare gli alunni. Le attività di sensibilizzazione ce le siamo bruciate tutte per Putin e Zelens’kyj e nessuno ha voglia di sbattersi a cercare materiale didattico sulla pace nel mondo diverso da quello già impiegato in precedenza. Ho una bambina egiziana, in classe, che da quello che ho visto sul profilo Facebook del papà proviene da una famiglia decisamente entusiasta della loro religione e delle tradizioni del paese di origine. Sfoggia il suo nome in arabo a fianco di quello in italiano sulle etichette dei quadernoni ricoperti dalle copertine colorate. So che ha partecipato alla manifestazione pro Palestina di qualche settimana fa, me lo ha detto lei il lunedì successivo al rientro a scuola. Giovedì scorso ho avviato una bella attività di arte dedicata a Magritte, un’artista che trovo banale e ampiamente sopravvalutato ma che fa impazzire i bambini. Dopo una presentazione generale della sua opera li ho messi alla prova. Dovevano disegnare su un foglio bianco A5 un oggetto a loro scelta, colorarlo, ritagliarlo e incollarlo su un cartoncino colorato corredato dalla celebre dichiarazione di intenti sulla differenza tra la realtà e la sua rappresentazione artistica: questa non è un pipa (e, a dirla tutta, nemmeno questo è un blog). Ho pregato la classe di non ritrarre palloni da calcio, maglie del Milan e di altre squadre, smartphone e altri gadget digitali, ma di limitarsi a oggetti come la pipa e di dare fiato alla creatività. Un orologio, una tazza, una mela, una sedia, cose così. Avete indovinato: la ragazzina egiziana ha disegnato la bandiera palestinese, e la didascalia sotto “Questa non è una bandiera” ha dato vita a un corto circuito di significati non da poco.

banksy

Standard

Ho un giovane collega molto preparato – ha una laurea in scienze della formazione alla Cattolica a cui ha fatto seguire un master in sostegno, conseguito presso lo stesso ateneo – a cui mi rivolgo quando non so a quale teoria psico-pedagogica ricondurre le esigenze pratiche che mi trovo ad affrontare in classe. Mi fa sentire meno speciale sapere che c’è una collocazione universalmente consolidata a cui associare un problema a cui la mia incompetenza non riesce a dare una risposta. A scuola è impossibile standardizzare procedure didattiche perché ogni bambino e ogni adulto con cui si sviluppa la relazione sono differenti – e la gamma stessa delle dinamiche delle relazioni è pressoché infinita – ma poi, alla fine, un po’ per poter tracciare i dati come si fa nelle aziende quando occorre certificare qualche processo, si riesce a emettere un codice (attenzione, è una metafora) da stampare su un’etichetta (attenzione, è una metafora) e lasciare il fascicolo (attenzione, è una metafora) in uno scaffale ben preciso (attenzione, è una metafora) a disposizione di casi analoghi.

Il mio giovane collega mi consiglia di fare così e cosà e la cosa in effetti funziona, al netto del rischio che la relazione, nel frattempo, non abbia già preso una forma diversa da quella che credevo. I tempi di intervento delle persone e delle strutture che dovrebbero fornire sostegno a scuola e famiglie per i casi difficili sono così inadeguati da risultare ridicoli e paradossali. Con le organizzazioni pubbliche addirittura segnali il rischio di un disturbo dell’apprendimento o anche un problema più eclatante in seconda e, a essere ottimisti, ottieni una certificazione in quinta. Potete immaginarne l’efficacia in una fase della crescita e dello sviluppo così imprevedibile, come nei bambini. Ma, ripeto, io sono un copy con la passione per i Cure, per questo mi rivolgo costantemente a chi ne sa più di me, cioè chiunque.

Continuano però a sorprendermi certi metodi a dir poco d’urto che si adottano in caso di situazioni in cui la sicurezza dell’alunno problematico e, di conseguenza, di chi gli sta intorno, è a rischio, sostanzialmente perché la risolutezza di intervento è un meccanismo che non è proprio nelle mie corde. Non sono mai pronto a fare la cosa giusta quando ho poco tempo a disposizione, questo in generale, perché ho bisogno di riflettere a lungo per valutare, e purtroppo in natura è un approccio non ammesso. Senza contare che sbaglio sempre, indipendentemente da quanto ci metto ad agire. Se fossi una preda sarei già stato il pranzo di qualcuno una tacca sopra di me nella catena alimentare da un pezzo.

Ho una collega che è un vero e proprio marcantonio e, per annientare le smanie autodistruttive di un suo alunno, uno scricciolo di terza, gli monta letteralmente sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e sedendosi sulle sue gambe. La sua classe è proprio a fianco alla mia e mi è già capitato di venire chiamato in soccorso per intercettare le sue fughe e impedirgli di fare dei danni. Quando succede, poi sto male tutto il giorno perché è facile far leva sulla forza, con un bambino, ma mi rendo conto immediatamente che si tratta di un’arma sovradimensionata.

Anche il collega esperto in pedagogia che vi ho introdotto prima non è da meno, quando lo vedo rispondere senza tanti complimenti agli assalti ciechi del suo asperger a bassissimo funzionamento. Lui ha anche un altro alunno arrivato da poco – un bambino che sarebbe come tutti gli altri se non gli fossero capitati in sorte due genitori a dir poco distratti – e che ora è in affido presso un’altra famiglia, per il quale adotta spesso soluzioni drastiche. Gli impartisce castighi esemplari d’altri tempi. Se si comporta male a pranzo lo sposta in un banco da solo all’altro capo della mensa e lo fa sedere voltato di schiena rispetto ai suoi compagni se l’ha combinata grossa. A quel punto gli vengono certi lacrimoni che, se fosse un mio alunno, mi metterei in ginocchio al suo fianco implorando le sue scuse e cercando di consolarlo nel modo più efficace. Come vedete, come educatore non valgo una cicca. Il mio collega dice di lui che ha una stima di sé bassissima perché ha la tendenza ad auto-infliggersi punizioni. Quando succede, gli dice che non deve farlo perché l’insegnante è lui (il mio collega) e che, per ristabilire l’ordine delle cose, una persona è sufficiente.

Ora sentite questa. Ieri l’altro andavo a zonzo per i vicoli della mia città preferita, probabilmente il centro storico più grande in Europa, un luogo d’altri tempi che, malgrado Airbnb e la gentrificazione, pullula ancora di spacciatori, microcriminalità, tossici e prostituzione. Non sto a dirvi quanto mi abbia sorpreso leggere scritto con lo spray sul muro di uno degli edifici fatiscenti di quei bassifondi la scritta “ilmiocognome merda”. ilmiocognome è il mio cognome, che non scrivo per ovvi motivi di privacy, e vi assicuro che non è così tanto diffuso. Ho abitato a qualche centinaio di metri da lì, più di venti anni fa, e un graffito così fresco non saprei come giustificarlo. In passato so di non essermi comportato bene con qualche persona, ma si tratta più che altro ex fidanzate con le quali non ho saputo chiudere senza perdere la dignità, mentre ora davvero cerco in tutti i modi di assumermi le mie responsabilità o, se proprio ho paura, mi sottraggo ai conflitti e ammetto di avere torto proprio per non alimentare inimicizie.

Sono stati i carissimi amici con cui mi trovavo in quel momento, veri esperti del quartiere, a tranquillizzarmi. Escluso che si potesse trattare di me, abbiamo formulato qualche ipotesi sulle cause dell’omonima nel graffito: un regolamento di conti tra pusher e clienti, una delazione, o più probabilmente un membro delle forze dell’ordine che non è andato tanto giù per il sottile con qualcuno della zona. Di certo, con questa merda, siamo parenti, in qualche modo. Io, ve lo giuro, non ho fatto niente, e poi da più di vent’anni vivo a duecento km da lì. Ho scattato però una foto alla scritta “ilmiocognome merda” perché non capita tutti i giorni di beneficiare di visibilità di questo tipo e l’ho messa come immagine della testata di Facebook. Non so se c’entri con la stima di sé, in questo caso di me, e con il discorso dell’infliggersi auto-punizioni, ma mi sembra tutto sommato il punto più basso di qualcosa che non so definire.

capire l’acca

Standard

Ero mosso da una voglia irrefrenabile di chiedere all’impiegato vestito da infermiere che ha registrato i miei dati propedeutici alla somministrazione del vaccino che sport praticasse. Il camice era così teso all’altezza dei suoi bicipiti che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da quelle braccia inutilmente possenti per l’attività di data entry. Mi piacerebbe trascorrere almeno un giorno della mia vita con un fisico così, per vedere cosa si prova. Probabilmente mi divertirei a dare ceffoni a destra e a manca, anzi a destra e basta. Anche se, e immagino di avervi già informato, se fossimo provvisti di questa funzionalità mi reincarnerei per 24 ore in Stefano Bollani e non sprecherei nemmeno un minuto senza suonare al piano tutto quello che mi passa per la testa. Comunque, con l’infermiere, mi sono trattenuto per più di un motivo. 1. Non era il momento. 2. Non volevo che la mia curiosità passasse per broccolaggio, era del sesso sbagliato. 3. Era straniero e già stentava nella traduzione delle mie risposte in un linguaggio adatto alla digitazione finalizzata al completamento del certificato sul programma che stava utilizzando. E, last but non least, sono strasicuro che avesse i capelli tinti di nero. Il colore si diradava in un modo anomalo sulla pelle marrone scuro del suo cranio, fattore che ho interpretato vincolato a un’età non più verde. Io di quelli che hanno il fisico così e hanno più o meno i miei anni non mi fido granché. Quando vedo Lollobrigida tutto compresso nei suoi completi da fratellista d’Italia o l’ex compagno della presidentessa del consiglio gonfio come un bignè, penso a quanto tempo perdono in palestra anziché favorire le arti liberali, che poi la mia è tutta invidia. Quando mi sposto per la scuola con il mio portamento claudicante, curvo, asimmetrico e con gli abiti – sempre quelli – che mi cascano addosso, mi chiedo cosa pensino i miei colleghi. Anzi, lo so e lo leggo negli occhi di Rosina, la bidella, che mi fa notare che quando mi vede ho sempre qualcosa di tecnologico in mano, anche quando porto una ciabatta, nel senso della multipresa, a chi ne ha bisogno. Gli edifici scolastici vecchi come quello in cui lavoro io hanno impianti elettrici molto datati e gli accrocchi tra prese grandi, piccole e schuko sono la risposta concreta ai corsi sulla sicurezza che ci propinano con cadenze ossessivo-compulsive. Non è raro scorgere gruppi scultorei composti da spine di diversa natura che farebbero venire i capelli dritti a qualunque elettricista dotato di buon senso anche se, per ora, chi rischia le conseguenze delle dita nella corrente sono solo i docenti e i bambini educati a casa liberi di fare qualsiasi cosa. Rosina mi è molto simpatica perché è la prima collega che ho conosciuto – si è rifiutata di farmi entrare, il primo giorno, perché non mi aveva mai visto prima – e, al rientro dalle vacanze estive, ci abbracciamo sempre. Se non deve pulire o sbrigare qualche altra faccenda, se ne sta seduta a completare parole crociate o a leggere. La scorsa primavera la vedevo tutta immersa ne “Il minore”, il libro del principe Harry. Ora è circa a metà di una biografia di Frida Kahlo che curiosamente chiama Frida Osho, forse pe la presenza fuori posto, almeno secondo i canoni grammaticali che si imparano in una primaria come la nostra, dell’acca nel cognome. Lunedì scorso ho provveduto a una supplenza in una prima ed è grazie a lei che me la sono cavata con la parte più ardua della didattica, e cioè aiutare i bambini a indossare piumini e annodare sciarpe. Avevo dimenticato questo aspetto collaterale del mio mestiere. I miei alunni – ho una quinta – ormai sono grandi e già non mi stanno più ad ascoltare. Sono già all’ultimo anno del mio primo ciclo, chissà come sarà ripartire da capo.

un’insensata voglia di equilibrio

Standard

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ci saremmo dovuti arrendere all’avverarsi di una profezia di un gruppo di mezze calzette come i Negramaro, quando cantavano – con voce tremante – il segno di un’estate che avrebbero sperato non finire mai, peraltro con un frontman che per farsi notare ha giocato a lungo a fare il cosplayer di Samuel dei Subsonica. Anche a scuola non si capisce più niente. Le cornicette sui fogli a quadretti con le castagne, le ghiande, le foglie morte e gli scoiattoli e le tinte tipiche di questa stagione attendono ancora il cambio degli armadi, consapevoli che si passerà direttamente dai ghiaccioli ai bastoni canditi delle strenne natalizie senza passare dalle mezze stagioni. E, oltre all’autunno, abbiamo anche bambini non pervenuti. Famiglie che – legittimamente – rientrano al loro paese di origine durante la pausa estiva e che tornano in Italia rispettando un calendario tutto loro. Non vedo problemi, ma almeno si dovrebbe avvisare i diretti interessati. Qui c’è la scuola dell’obbligo e se procrastini di un mese il primo giorno è sempre meglio comunicarlo, anche solo per evitare il rischio che si avvii la penosa trafila della notifica ai servizi sociali. Abbiamo una lista lunga quanto un foglio A4 di chi li ha visti? e che va dall’infanzia alla secondaria di primo grado. Le lezioni da noi sono cominciate il 12 e una mia alunna, dagli zii in Egitto, si è presentata due settimane dopo. Sarò ossessionato, ma io mandavo mia figlia a scuola anche con la febbre, prima che il Covid cambiasse il significato stesso di indisposizione. Un caso che fa il paio con quell’altra i cui genitori hanno una scansione del tempo tutta particolare. Spesso in ritardo a ritirare la bambina all’uscita, qualche giorno fa per un malinteso di coppia siamo stati costretti ad attendere quasi un’ora, resistendo alla tentazione di avvisare – come imporrebbe la procedura – le forze dell’ordine per abbandono di minore dopo trenta minuti. Il prolungamento della bella stagione influisce anche sull’esperienza di socialità negli intervalli. I bambini rientrano in classe dopo l’ora di gioco successiva alla mensa sudati marci e puzzolenti e vanno avanti e indietro dal bagno a riempire la borraccia per le rimanenti due ore di scuola. Io non mi faccio intimidire perché sono in quinta e vado avanti con quello che mi sono preparato per la lezione. Il nuovo anno ci ha addirittura fatto trovare un favo di vespe in giardino. Un nido in una buca profonda almeno mezzo metro che ha richiesto l’intervento dei volontari locali dei vigili del fuoco. Come vedete, non ci si annoia mai a fare il mio lavoro e se aggiungete il toner della fotocopiatrice che il nostro fornitore non ci ha ancora consegnato e Leonardo, un tipetto occhialuto della terza accanto alla mia classe che urla e scappa dall’aula per motivi ancora ignoti, con le colleghe costrette a inseguimenti che manco agli europei di atletica, il cerchio si chiude. Questo per dire che, come cantava coso lì dei Negramaro, restiamo sul filo del rasoio ad asciugare parole qui, tanto con il caldo che fa non c’è nemmeno il rischio che si bagni il computer.

flixbus

Standard

Con l’introduzione dell’orario definitivo ho ripreso a fare musica in classe. Ieri – è stata la prima lezione dell’anno – per partire con il piede giusto ho creato insieme ai bambini, che a dir la verità sono quasi ragazzi, siamo in quinta, una playlist di classe su Spotify. L’iniziativa fa parte di una serie di attività che vorrei portare a termine quest’anno finalizzate a cose che mi piacerebbe che i miei alunni portassero con sé lungo il percorso che li aspetta da giugno in poi. Qualcosa che, da grandi, guardandolo o ascoltandolo o leggendolo possano ricordarsi della nostra esperienza comune, quello che abbiamo fatto, il tempo trascorso insieme, le esperienze condivise, l’amicizia con i compagni.

Il rischio è che sia uno sforzo inutile, un progetto fine a se stesso. Non c’è passaggio di crescita come quello tra l’infanzia e l’adolescenza in cui ci si vergogna e si gettano via le cose del passato e, giustamente, si guarda al futuro, senza contare che, diventando grandi, è facile dimenticarsi di reminiscenze così remote. Non solo. Molti dei manufatti – fisici o virtuali – che si realizzano a scuola sono costruiti con materiali che si guastano nel giro di poco tempo. Anche se fossero fabbricati in acciaio o in qualsiasi altra lega metaforica, guardiamo i prodotti dell’educazione dei nostri figli alla primaria sicuramente con nostalgia ma consapevoli che non c’è spazio – se non volatilissimo, per esempio sotto il piatto del pranzo di Natale – nella vita e negli ambienti degli adulti per le cose da bambini. Pensate se avessimo conservato gli scarabocchi o le statuine in das di tutti i figli degli esseri umani dagli uomini primitivi in poi. Provate a sbirciare con occhio più responsabile nelle vostre cantine, nei vostri vecchi hard disk o anche nelle vostre coscienze. Noi insegnanti, per primi, siamo consapevoli che i bambini dicano e facciano e scrivano e propongano e pensino un mucchio di stronzate che per la vita e il mondo e la storia e l’economia e la politica sono superflue, peraltro sprecando una quantità di energie e di risorse con le quali potremmo risolvere come minimo il problema della fame nel mondo. Pensate quanti dischi potreste comprare con i soldi che spendete per giochi dei vostri figli, ecomostri in plasticaccia con tempi di degradabilità calcolati in ere geologiche, costruiti in Cina e progettati con un ciclo di vita inferiore alle 24 ore. Potremmo imparare qualcosa, se ascoltassimo i nostri figli, è quello che ci diciamo sempre. Ma poi qualcuno ci ruba il parcheggio, ci passa davanti in fila alla cassa dell’Esselunga, ci chiama per cambiare gestore del gas, prendiamo una multa e siamo daccapo.

La playlist di classe, i brani li scelgono loro, com’è facile immaginare è una scaletta vergognosa. Vi dico solo che l’unica canzone che si salva è il tormentone di Bruno Mars, per il resto c’è da mettersi le mani nei capelli. Forse il percorso evolutivo degli esseri umani è stato pensato così proprio per evitare, una volta grandi, di provare vergogna per i gusti di merda che abbiamo da piccoli. E, in questo periodo storico, con il pop puberale abbiamo davvero toccato il fondo ed è un peccato, perché non ricordo di aver ascoltato novità musicali interessanti come negli ultimi dieci anni a questa parte. Ieri sera, per dire, ho seguito la prima puntata in chiaro delle audizioni di Xfactor e la cultura musicale che c’è in giro è talmente disarmante che ho spento la tv, dopo la sigla finale, con un fortissimo senso di colpa per aver sprecato così tanto tempo in un’attività inutile. Che mi serva da lezione, mercoledì prossimo metterò su un ellepì della mia collezione, guarderò un film, leggerò un libro, andrò a prendere un gelato con la mia famiglia, ci sono tante cose più interessanti della deriva della società contemporanea ai tempi della meloni.

Qualche barlume di speranza sul futuro me la restituisce mia figlia, anche se so che sono di parte. Non avendo nulla da insegnarle, perché sostanzialmente non so combinare granché, però sono riuscito almeno a trasmetterle un po’ di amore per la musica, credo lo stesso che mi hanno trasmesso i miei genitori che, a loro volta, hanno ricevuto dai loro e così via, chissà fino a quante generazioni a ritroso nella mia famiglia. Oggi l’amore per la musica nei giovani non è così scontato, lo so di scrivere una banalità ma è così. La musica è un aspetto a corollario di altre cose, meme, videogame, balletti su TikTok ed esibizionismi di questo tipo, ma non ci si concentra più sull’atto artistico che sottende ai sottofondi della nostra vita, del nostro divertimento, dei nostri momenti romantici, di quando ci sfoghiamo o balliamo o ci viene nostalgia perché una combinazione di note ha fatto vibrare chissà quale cellula del nostro corpo. La musica deve vedersi in video, altrimenti è palpabile poco più del gas di scarico di un’auto.

Mia figlia ha il mio stesso approccio ossessivo alla musica, forse non è bello ma cosa ci volete fare. Nel giro di qualche mese è andata poco più che in giornata a Viareggio a vedere Lana Del Rey, a Monaco di Baviera per il concerto di The Weekend (“papà all’Ippodromo di San Siro c’è un’acustica pessima e poi c’è troppa polvere”), nei dintorni di Firenze per un happening di techno che è durato dodici e ore e a Napoli per vedere Liberato in piazza del Plebiscito. È partita di notte con un Flixbus da Milano, si è ricongiunta all’arrivo la mattina dopo con alcuni ex compagni di liceo che erano già lì, ha visto il concerto la sera, ha dormito da un’amica e la mattina dopo è rientrata in treno. Mi ha condiviso un po’ di foto e di video che mi hanno confermato che, per me, la stagione dei concerti è finita. Un mare di smartphone puntati verso il palco a riprendere pezzi di esperienze a cazzo che poi nessuno rivedrà mai più, come le letterine per la festa del papà o i lavoretti di pasqua e tutte quelle cose che si preparano a scuola e che nessuno ha ancora capito che fine facciano.

il budino senza la carne

Standard

Another Brick In The Wall è un po’ l’Attimo Fuggente della musica, un prodotto culturale pensato per scardinare i paradigmi della scuola borghese e gentiliana in favore di una didattica più moderna e inclusiva, per non dire meno bacchettona. Sarà per questo che il contact center telefonico dell’azienda tutta italiana (è bene specificarlo per allinearsi alla narrazione meloniana del nostro paese) che produce uno dei servizi di registro elettronico e scuola digitale più diffuso in Italia – di certo il meno caro e di sicuro quello sviluppato peggio – lo ha impostato come musichetta di attesa.

Se frequentate le segreterie scolastiche in questo periodo vi capiterà di sentire Another Brick In The Wall come sottofondo musicale agli sfoghi di rabbia, agli screzi, agli improperi e agli sbotti isterici del personale amministrativo spesso sottodimensionato che, in una manciata di giorni, si fa in quattro per rimettere in moto una delle macchine organizzative più complesse del mondo e che, a fronte di funzionalità dimenticate o bug nativi dei programmi utilizzati, necessita di supporto. Non c’è tempo per smanettare o andare per tentativi. Questo induce all’assistenza che, sotto il tiro simultaneo di migliaia di scuole, lascia in attesa senza tanti complimenti il personale bisognoso e Another Brick In The Wall, trasmesso in viva voce, va avanti per ore. Il perché della scelta di questo brano non ve lo sto nemmeno a dire. Il mondo va così: si parla di vittorie e mettiamo “We Are The Champions”, si parla di finanza e mettiamo “Money”, si parla di scuola e mettiamo “Another Brick In The Wall”.

Il punto è che i servizi di centralino spesso non prevedono la possibilità di impostare un brano musicale dall’inizio alla fine, e l’edit a cui siamo esposti, focalizzato sui versi più significativi del celebre concept dei Pink Floyd – non abbiamo bisogno di istruzione! Hei, maestro, lascia in pace i bambini! – ci sottrae a uno dei soli di chitarra più riconoscibili del mondo, restituendo un’esperienza parziale di ascolto attraverso un loop che non rende giustizia alla sua portata dirompente. La musichetta di attesa arriva a un punto, poco dopo il primo ritornello, e poi riparte da capo, “We don’t need no education” eccetera eccetera, con una vocina beffarda che avvisa che sarai il prossimo a essere servito secondo però una cognizione del tempo ampiamente arbitraria.

La qualità della vita della prima settimana di scuola dopo i cinque mesi di vacanza di cui beneficiamo potrebbe essere quindi soggetta a una maggiore cura, e non mi riferisco solo all’effetto audio da scatoletta dei telefoni fissi di una segreteria di una scuola nell’Italia meloniana. Gli uffici sono rigorosamente privi dell’aria condizionata, alla faccia della ripresa e della resilienza, e i docenti che danno una mano ai pochi amministrativi sopravvissuti alle nomine ancora da fare e ai colleghi che si danno malati per evitare l’onda d’urto dei primi giorni si spartiscono pizze consegnate a domicilio nel cartone unto (la mia rigorosamente salsiccia e friarielli) e lattine mignon di bevande gassate acquistate a pochi centesimi al distributore in sala docenti. Il tutto a scapito della didattica: configurare le piattaforme digitali, sistemare i danni che i precedenti impiegati hanno procurato prima di beneficiare del trasferimento a Pozzuoli o altri borghi meloniani del sud che ci invidia tutto il mondo, spostare monumentali armadi stipati di materiale obsoleto e aggiornare firmware a dispositivi digitali sottrae energie al nostro core business, che è l’educazione dei vostri figli.

Nonostante questo, il nostro continua a essere il lavoro più bello del mondo e, anzi, la varietà di attività – dai metodi innovativi per l’insegnamento della matematica alla sostituzione dei toner – lo rende ogni anno sempre più avvincente. Non dovreste infatti mai perdere di vista il fattore umano, della scuola. Il mio collega di sostegno che comunica in calabrese ai genitori cinesi del mio alunno ACD è stato assegnato ad altre vittime, quest’anno, ed è una bella notizia. Mi sono fatto fidelizzare dal parrucchiere che ha la bottega proprio di fronte alla primaria in cui sono in servizio, mi ha già tagliato i capelli tre volte, e mi capita spesso di incrociarlo, in questi giorni di preparazione, quando esco pezzato dal cancello della scuola per rientrare a casa. La mia è una scuola di paese, con la p minuscola ma comunque sempre nell’accezione meloniana, anzi di frazione di paese, che forse è ancora più meloniano. Se incontro qualcuno nei paraggi sorrido e saluto sempre perché è facile che abbiano figli o nipoti che studiano da me. Ieri mi sono imbattuto in una donna musulmana tutta imbacuccata con due figlie al seguito. La più grande mi ha sorriso, piena di riccioli e di vitalità, probabilmente mi ha riconosciuto ma io no, mica posso ricordarmi tutte le facce, e di rimando – per non sbagliare – ho ricambiato. La mamma si è voltata dall’altra parte, coprendosi immediatamente il viso con il velo, forse fraintendendo il mio interessamento.

hobby&work

Standard

La scuola è un lavoro meraviglioso e allo stesso tempo un hobby appassionante. Si lavora nelle ore di servizio, in mensa e in programmazione. Terminate le ore in classe ci sono poi i consueti straordinari per finire tutto il resto che nel tempo regolamentare abbiamo lasciato a metà, un insieme di cose che va dalle correzioni delle verifiche, i giudizi descrittivi da articolare nel registro elettronico, la preparazione delle lezioni successive e molto altro. Infine, concluso tutto questo, possiamo dedicarci al nostro hobby preferito nel tempo libero che è ancora la scuola, con le numerose email di colleghi e genitori che meritano una risposta, i corsi di formazione da seguire o i confronti sulle piattaforme social inerenti i macro-temi della pedagogia o delle discipline che insegniamo, oppure qualche fuori programma comunque sempre riconducibile alla nostro lavoro che alcuni dicono essere una missione ma poi, chi è di questa idea, lo ritrovi spesso in prima linea a denigrarci quando (e scusate se mi ripeto) qualche dipendente pubblico fantastico in grado di esercitare superpoteri come assentarsi 20 anni su 24, o spararsi Napoli – Milano a/r in giornata, sale agli onori della cronaca.

Ma, a parte questa letteratura da spiaggia, la meraviglia della scuola è che è il mestiere in cui, più di ogni altro impiego, un individuo può davvero sentirsi utile. Non avete idea di quanto sia facile darsi da fare per il prossimo. Lo so, direte voi, può sembrare facile, in un ambiente composto al 99% di esseri umani (studenti, genitori, bidelli, docenti, personale amministrativo) e dall’1% di asset. Lanci una buona azione chiudendo gli occhi e stai sicuro che comunque riesci a colpire qualcuno. Fare cose per gli altri, a scuola, è facilissimo. A volte in queste buone azioni ci passi dentro come quei videogiochi in cui SuperMario attraversa le monete per aumentare il punteggio, avete presente? Questo perché tutti, nella scuola, hanno bisogno di qualcosa ed è un qualcosa che è alla portata di tutti gli altri. Oppure ci si può anche impegnare, a essere utili, ci si può mettere all’opera e cercare cosa c’è da fare per la collettività e, come potete immaginare, è un po’ come quando sollevi una botola e ti trovi sotto una stanza del tesoro.

Stamattina mi è capitata una cosa bellissima che rientra in quei casi in cui, ad aiutare il prossimo a scuola, ti ci imbatti dentro. Non c’è molto da dire: una ragazzina in attesa del suo turno all’orale di terza media è andata nel panico perché non riusciva più ad aprire la presentazione che aveva preparato da esporre alla commissione. Io non insegno alla secondaria, ero lì perché c’è l’ufficio della mia dirigente ed ero in meeting con lei. Anzi, a onor del vero stavo già tornando a casa ma la dirigente mi ha telefonato per chiedermi se potevo tornare indietro. La ragazzina era completamente in tilt, altrettanto la mamma che avrebbe dovuto infonderle coraggio e così anche la nonna, che non sapeva che pesci pigliare. Ci siamo messi all’opera sul suo PC e in pochi minuti la sua presentazione sul razzismo è tornata a rifulgere in tutto il suo splendore. La mamma si è commossa, la nonna si è esaltata, la ragazzina si è calmata e, constatato che tutto era sotto controllo, questo miracolo ha definitivamente sancito la fine della mia giornata lavorativa, pronto a dedicarmi – una volta rientrato a casa – al mio hobby preferito che avrete capito qual è.

ti sblocco un ricordo

Standard

Ogni tanto scatto uno screenshot del mio collega di sostegno durante i GLO del mio ACD (anche la scuola in quanto ad acronimi non scherza) su Meet e lo mando alla sua responsabile del comprensivo in cui insegno per farci due risate. Le scrivo sempre la stessa didascalia, “ti sblocco un ricordo” perché io sono uno dei tanti maschi etero bianchi della terza età che fanno sempre le stesse battute perché, in primis, fanno ridere me e per questo non ho intenzione di desistere. Ma la Franci, la responsabile si chiama così, credo che apprezzi il mio senso dell’umorismo da sad dad, come direbbero i The National, e quindi continuo imperterrito sul medesimo registro. Le espressioni che il mio collega di sostegno fa sono un compendio delle macchiette della commedia scollacciata all’italiana e meritano di essere immortalate. Peccato non possa sbloccare un ricordo anche a voi.

Per farvi capire, quando facevo il copy, nella mia agenzia avevo un web developer nemmeno tanto giovane che faceva così tardi a giocare ai videogiochi durante la notte che poi, di giorno in ufficio, seduto alla scrivania di fronte alla mia, si addormentava in continuazione. Io gli scattavo delle foto di nascosto durante le sue reiterate pennichelle al computer e poi le mandavo alla sua responsabile che lavorava in remoto ma non a scopo delatorio, ci mancherebbe. Il punto è che bisogna imparare a stare al mondo e certe cose te le puoi permettere solo se fai le scuole medie. Era una gag consolidata, io le inviavo alla sua capa e ci facevamo grasse risate su whatsapp, e ho continuato a farlo (avevo messo su una collezione così ampia che, se non avessi rischiato querele e chissà cos’altro, mi sarei potuto poporre per una mostra fotografica o per lo meno andare on line con un blog tematico sul fannullonismo) perché so che lei apprezzava proprio come la Franci quando le mando gli screenshot del mio collega di sostegno.

Quest’anno l’hanno affibbiato a me con la scusa che sono vicepreside ma anche perché sanno che ho un temperamento paziente. Ce lo siamo passati un po’ tutti, poi a fine anno scolastico i malcapitati di turno – l’ho appena fatto anch’io, qualche settimana fa – vanno dal dirigente a implorarlo di lasciare qualcun altro con il il cerino in mano, al prossimo giro. Potrei dirvi tante cose su di lui. Parla solo in dialetto o al massimo in un idioma italo-calabro, pur essendo laureato e anche molto più giovane di me. Entra in classe, accende il suo computer e si mette a guardare chissà che cosa ma forse è meglio così, perché ogni tanto si sveglia dai suoi 10 mesi di vacanza e interviene a cazzo nelle lezioni e i miei alunni – che in quanto a ciarlatani, dopo anni di mie spiegazioni, se ne intendono – lo osservano sbigottiti. Riprende pure la specialista madrelingua inglese, e io mi imbarazzo per lui. La mia collega di team gli ha chiesto di fare una fotocopia ed è rientrato in classe dopo un’ora abbondante. Ogni tanto si assenta per qualche riunione sindacale ed è allora che tiriamo un sospiro di sollievo.

Ho pensato a lui leggendo della docente che si è imboscata per 20 anni su 24 – vi riporto solo il titolo da clickbait perché ben me ne guardo dal soddisfare la mia morbosa curiosità fasciogrillista latente andando a fondo nella notizia – e il pensiero è poi subito rimbalzato verso la bidella pendolare quotidiana della tratta Napoli Milano in alta velocità a botte di centinaia di euro la settimana. La narrazione della scuola estiva purtroppo è questa, e io mi adeguo. Sogno un futuro in cui potrò lavorare, come tutti voi, fino al 31 luglio.

effetto presenza

Standard

Essere o non essere, sosteneva il Bardo. Una dicotomia che ha avuto un discreto successo, se ci pensate, anche perché non fa una piega. Non c’è una zona grigia. Tutte le condizioni intermedie che ci vengono in mente – il mondo è pieno di gente che è come se non ci fosse, oppure pensate a certe dipendenze che ci riducono a larve – sono poco più che una boutade. Nel mondo del lavoro c’è un sistema per attestare se ci siamo o non siamo ed è il badge, che per chi lavora nella pubblica amministrazione assume la denominazione di cartellino. La pandemia ha cambiato molte delle carte in tavola. Possiamo non essere ma ci siamo lo stesso, collegati in qualche modo da remoto. Oppure anche scollegati. Siamo in smart e la nostra giornata non ce la portiamo più a casa perché a casa ci siamo già. Quale azione, in questo scenario, è in grado di sancire il momento in cui ci cade la penna e possiamo considerarci out of office? Magari non spegniamo nemmeno il pc perché, effettuato il log-out dalla piattaforma aziendale, apriamo una nuova scheda di Chrome per avviare il nostro social preferito senza muoverci di un millimetro. Siamo fuori dall’ufficio – inteso come condizione e non come luogo fisico – ma rimaniamo comunque sul computer con cui lavoriamo.

Troviamo un ulteriore paradosso se pensiamo che gli orari, e questo accade non necessariamente se lavoriamo da remoto, non esistono più. Il concetto di inizio e fine turno è talmente superato che con la testa stiamo al lavoro senza soluzione di continuità. Resta un piccolo led rosso acceso che ci avverte che siamo in condizione di stand-by, non liberi del tutto, pronti per essere riaccesi grazie a un sistema operativo sempre all’erta. Non c’è un modo per spegnere completamente il senso di responsabilità che ci portiamo dentro per quello che facciamo. C’è una interessante pellicola in giro in questo periodo che si intitola Afterwork del regista Erik Gandini, quello di Videocracy, che tocca queste questioni. Si vedono, per esempio, le telecamere operative sempre accese nell’abitacolo dei furgoni dei corrieri, installate per ragioni di sicurezza ma pensate come sistema di controllo: essere o non essere sul posto di lavoro?

A scuola non abbiamo ancora il badge – le realtà più innovative lo hanno già introdotto – ma comunque la firma sul registro elettronico attesta il fatto che abbiamo preso servizio in classe. Ci sono occasioni in cui è necessario ricorrere a strumenti obsoleti come il foglio firme, tecnicamente una tabella in Word con il nome stampato in Calibri su una colonna e a fianco una sfilza di colonne che rappresentano i giorni da riempire con lo stesso contenuto della cella a sinistra ma scarabocchiato di nostro pugno. Un documento che può essere prodotto da chiunque ma che non è da meno dei sistemi digitali in quanto a possibilità di contraffazione. I docenti più sgamati nell’uso delle piattaforme online custodiscono le credenziali dei colleghi che hanno meno dimestichezza, questo per dire che chiunque potrebbe coprire l’assenza di qualcun altro.

Essere o non essere è quindi una questione di senso del dovere. A giugno, a lezioni finite, si rinnova ogni anno la sfida degli adempimenti conclusivi e della preparazione per l’anno successivo. Ci si incontra con diversi assortimenti – per disciplina, per interclasse, per ordine – e si compilano monumentali relazioni per accertarsi di quello che è stato fatto e programmare quello che seguirà. Ma senza le lezioni in classe non siamo soggetti a una scansione rigida di tempi e turni. Ci vediamo ogni mattina per tre ore, ci distribuiamo a seconda di quello che dobbiamo fare e procediamo. Ogni volta qualcuno risulta assente perché fa parte di una commissione a sé oppure ha preso un permesso ma non sempre la struttura amministrativa ci mette al corrente di quello che fanno gli altri. Questo per dire che, foglio firma o no, volendo chiunque potrebbe approfittare di questa approssimazione. Nella scuola le maglie dei controlli sono piuttosto larghe, e non solo su orari e presenze. Sta tutto a noi, sta tutto a me. Avete presente la barzelletta di Pierino? “Oggi non voglio andare a scuola!”. E Pierino risponde: “Ma devi andare a scuola. Sei l’insegnante!”. Ecco, da William Shakespeare a Pierino i gradi di separazioni sono davvero ridotti al minimo.