effetto presenza

Standard

Essere o non essere, sosteneva il Bardo. Una dicotomia che ha avuto un discreto successo, se ci pensate, anche perché non fa una piega. Non c’è una zona grigia. Tutte le condizioni intermedie che ci vengono in mente – il mondo è pieno di gente che è come se non ci fosse, oppure pensate a certe dipendenze che ci riducono a larve – sono poco più che una boutade. Nel mondo del lavoro c’è un sistema per attestare se ci siamo o non siamo ed è il badge, che per chi lavora nella pubblica amministrazione assume la denominazione di cartellino. La pandemia ha cambiato molte delle carte in tavola. Possiamo non essere ma ci siamo lo stesso, collegati in qualche modo da remoto. Oppure anche scollegati. Siamo in smart e la nostra giornata non ce la portiamo più a casa perché a casa ci siamo già. Quale azione, in questo scenario, è in grado di sancire il momento in cui ci cade la penna e possiamo considerarci out of office? Magari non spegniamo nemmeno il pc perché, effettuato il log-out dalla piattaforma aziendale, apriamo una nuova scheda di Chrome per avviare il nostro social preferito senza muoverci di un millimetro. Siamo fuori dall’ufficio – inteso come condizione e non come luogo fisico – ma rimaniamo comunque sul computer con cui lavoriamo.

Troviamo un ulteriore paradosso se pensiamo che gli orari, e questo accade non necessariamente se lavoriamo da remoto, non esistono più. Il concetto di inizio e fine turno è talmente superato che con la testa stiamo al lavoro senza soluzione di continuità. Resta un piccolo led rosso acceso che ci avverte che siamo in condizione di stand-by, non liberi del tutto, pronti per essere riaccesi grazie a un sistema operativo sempre all’erta. Non c’è un modo per spegnere completamente il senso di responsabilità che ci portiamo dentro per quello che facciamo. C’è una interessante pellicola in giro in questo periodo che si intitola Afterwork del regista Erik Gandini, quello di Videocracy, che tocca queste questioni. Si vedono, per esempio, le telecamere operative sempre accese nell’abitacolo dei furgoni dei corrieri, installate per ragioni di sicurezza ma pensate come sistema di controllo: essere o non essere sul posto di lavoro?

A scuola non abbiamo ancora il badge – le realtà più innovative lo hanno già introdotto – ma comunque la firma sul registro elettronico attesta il fatto che abbiamo preso servizio in classe. Ci sono occasioni in cui è necessario ricorrere a strumenti obsoleti come il foglio firme, tecnicamente una tabella in Word con il nome stampato in Calibri su una colonna e a fianco una sfilza di colonne che rappresentano i giorni da riempire con lo stesso contenuto della cella a sinistra ma scarabocchiato di nostro pugno. Un documento che può essere prodotto da chiunque ma che non è da meno dei sistemi digitali in quanto a possibilità di contraffazione. I docenti più sgamati nell’uso delle piattaforme online custodiscono le credenziali dei colleghi che hanno meno dimestichezza, questo per dire che chiunque potrebbe coprire l’assenza di qualcun altro.

Essere o non essere è quindi una questione di senso del dovere. A giugno, a lezioni finite, si rinnova ogni anno la sfida degli adempimenti conclusivi e della preparazione per l’anno successivo. Ci si incontra con diversi assortimenti – per disciplina, per interclasse, per ordine – e si compilano monumentali relazioni per accertarsi di quello che è stato fatto e programmare quello che seguirà. Ma senza le lezioni in classe non siamo soggetti a una scansione rigida di tempi e turni. Ci vediamo ogni mattina per tre ore, ci distribuiamo a seconda di quello che dobbiamo fare e procediamo. Ogni volta qualcuno risulta assente perché fa parte di una commissione a sé oppure ha preso un permesso ma non sempre la struttura amministrativa ci mette al corrente di quello che fanno gli altri. Questo per dire che, foglio firma o no, volendo chiunque potrebbe approfittare di questa approssimazione. Nella scuola le maglie dei controlli sono piuttosto larghe, e non solo su orari e presenze. Sta tutto a noi, sta tutto a me. Avete presente la barzelletta di Pierino? “Oggi non voglio andare a scuola!”. E Pierino risponde: “Ma devi andare a scuola. Sei l’insegnante!”. Ecco, da William Shakespeare a Pierino i gradi di separazioni sono davvero ridotti al minimo.

programma

Standard

Quando un docente termina in anticipo il programma si diffonde il sospetto che abbia lavorato male o in modo superficiale. Per un insegnante risulta difficile auto-valutarsi perché ci sono diversi fattori da tenere in considerazione. Di certo ho proceduto in modo piuttosto spedito, quest’anno. I miei bambini invogliano ad andare avanti e mi gratificano molto, sotto questo aspetto. Ne ho un paio che sono rimasti piuttosto indietro ma ho la sicurezza che non sarebbe cambiato nulla se avessi organizzato la didattica diversamente. Sta di fatto che è da metà maggio a oggi, a nemmeno una settimana dalla fine dell’anno scolastico, ho avuto tutto il tempo per riprendere gli argomenti di matematica e geometria e ripassarli. Anche la prova di fine quadrimestre in stile invalsi, che riassume un po’ tutto quello che sanno, è andata piuttosto bene. Mi sono permesso così di avviare un’attività un po’ diversa dal solito. Ho chiesto a ogni bambino di prepararsi una ricerca su un vertebrato a scelta in autonomia. Raccogliere le informazioni in Internet o su materiale vario a disposizione (documentari e testi di famiglia o eventualmente da recuperare presso la biblioteca comunale), completare una traccia di riferimento che ho condiviso con loro, creare infine una presentazione Google. Ho dedicato più ore del solito in laboratorio di informatica, in modo da consentire a chi è privo di strumentazione digitale a casa di mettersi in pari con gli altri, e ho programmato persino un calendario di esposizioni delle ricerche svolte come fanno i grandi che sto ultimando proprio in questi giorni. In pratica, da lunedì scorso, facciamo solo scienze. A parte questo, per il resto del tempo non è facile fare lezione. La nostra aula è molto calda e anch’io sono piuttosto stremato. Se non piovesse così tanto me ne starei tutto il tempo in giardino, seduto sulle gradinate del campetto di basket, a guardare i miei alunni che litigano giocando a calcio con la palla di gommapiuma sotto il sole cocente, quando c’è. Gli altri si misurano la vita reciprocamente. Quanto sono già cresciuti e quanto cambieranno di lì a poco. Alcuni si rincorrono sui pneumatici che una mia collega ha posizionato nel prato per il suo asperger a basso funzionamento. Altri li osservo parlare tutto il tempo. Ogni tanto si chinano a raccogliere una noce, un fiore, un rametto, un lombrico. So quello che state pensando: c’è della poesia, in tutto questo. È vero: la scuola è piena zeppa di poesia. Chi non la coglie, peggio per lui.

infradito

Standard

Il regolamento d’istituto della mia scuola impone un abbigliamento decoroso e adeguato all’ambiente didattico e coinvolge le famiglie nell’impegno a far rispettare agli studenti le linee guida. Io non ho una posizione ben definita sulla questione e, come sempre, mi auguro che il buon senso mi venga in soccorso nel momento del bisogno. Da noi non sussiste l’obbligo del grembiule, per dire, ma a me non dispiacerebbe introdurlo. I detrattori sostengono che si tratta di indumenti realizzati con materiale di scarsissima qualità (ultra-cinese, come dice una mia collega) e in questi tempi di global warming il rischio di provocare irritazioni o sfoghi sulla pelle dei bambini quando il sudore si trova a contatto con l’acrilico è piuttosto concreto. A me piacerebbe che tutto il mondo si vestisse con le casacche blu come ai tempi di Mao, figuratevi come potrei reagire al cospetto di una classe dal look omologato. Di sicuro mi sarei evitato la situazione spiacevole che vado a introdurre. Ieri una delle mie alunne, al primo caldo della stagione, si è presentata in shorts, e siamo in quarta elementare. Mi sono confrontato con colleghe più esperte di me che mi hanno consigliato, piuttosto che scrivere alla mamma o, peggio, diramare un generico “sì bermuda, no pantaloncini inguinali” attraverso la rappresentante dei genitori, di rivolgermi direttamente alla bambina. Non volevo metterla però su quanto il suo abbigliamento lasciasse scoperto perché ero strasicuro che il fastidio che provavo non derivasse da un approccio bacchettone, che sono sicuro di non avere, piuttosto da un’esigenza di sobrietà. A scuola ci si concia da gente che va a scuola, comprese le stravaganze che ragazzini e adolescenti adottano per mostrare al mondo quanto sono originali e fuori di testa (e diversi da loro). Ma questo è un altro paio di maniche, ed è proprio il caso di dirlo. In generale negli esseri umani di età superiore ai 3 anni approvo i pantaloni corti ma solo in prossimità di uno stabilimento balneare e con del reggaeton in sottofondo. Stavo per proporre alla mia alunna scosciata di recarmi a scuola anch’io in costume e infradito, magari con addosso una camicia hawaiana a maniche corte aperta fin sotto lo sterno e un bel cuba libre in mano. Ma non so se la bambina avrebbe compreso il nesso, e poi dovrei depilarmi. L’ho messa allora sul rischio di punture di zanzare e moschini quando trascorriamo l’intervallo lungo in giardino, ma mi ha guardato con quegli occhi come a dire ma per chi mi hai preso, sono una bimba ma non sono un’idiota. Di certo so che ha come modello una mamma molto appariscente, e il veto sugli shorts le ha rovinato la giornata. È andata a sedersi su una panchina tutta imbronciata e non si è alzata più. Avrei voluto dirle che, da seduta, l’effetto degli shorts è ancora peggiore (o migliore, a seconda dei punti di vista) ma non volevo sembrarle fuori luogo. E così stamattina si è presentata in classe con gli stessi pantaloncini di ieri. Mi ero già preparato a uno scontro Whatsapp mattutino con la famiglia ma, prima ancora di prendere posto nel banco, è venuta a dirmi una cosa. La mamma si scusa, mi ha detto, ma proprio non aveva altro da farle indossare, quel giorno.

prestito

Standard

Ho un collega che parla come Nino Frassica ma con l’accento calabrese e fa molto meno ridere, quando riesco a capire quello che dice. Non è il primo insegnante di sostegno che non parla italiano che mi ritrovo in classe. Il punto è che deve assistere un ragazzino di origini straniere e affetto da ipoacusia e i molteplici passaggi della comunicazione (dialetto rurale del secolo scorso -> dispositivo protesico -> madrelingua origine dell’alunno -> italiano L2) –  tra i due è decisamente lacunosa. Anche con me, comunque, il dialogo è ampiamente compromesso. Anch’io sono un po’ sordo, comprendo con difficoltà la parlate del sud, sono mono-tasking, non mi intendo di automobili e di tecnologia fine a se stessa. Invece lui si rivolge a me nel suo idioma, spesso quando sto facendo altro, e frequentemente chiedendomi dettagli sul modello di macchina che guido o sul mio pc che non conosco, anche mentre faccio lezione. Poi si intromette in continuazione senza chiedere il permesso, una procedura che a scuola si insegna sin dal primo giorno della prima primaria. Ho detto alla responsabile delle assegnazioni degli insegnanti di sostegno di levarmelo di torno, il prossimo anno. Le ho inviato uno screenshot che ho scattato durante l’ultima riunione a distanza del GLO che lo ritrae, cogliendo perfettamente la sua natura testarda e ottusa. Interviene a sproposito anche con la specialista di inglese, sfoggiando il suo anglo-calabro, ed è in uno dei suoi sproloqui che ho percepito la somiglianza con Nino Frassica. Non solo si esprimono in modo inconcludente allo stesso modo, ma appartengono entrambi al teatro dell’assurdo.

hasta la victoria siempre

Standard

Io con le lingue sono un vero disastro. Già mi agito a conversare in italiano con le altre persone, potete immaginare il mio stato d’animo al cospetto di uno straniero. Mi fa stare talmente a disagio che ho anche sviluppato e brevettato una nuova fobia, la paura delle lingue straniere, che poi ho scoperto che esisteva già, come tutte le cose che pensiamo di sperimentare o anche solo dire per primi. Il punto è che il nome di questa paura, xenoglossofobia, fa ridere, e non rende l’idea del terrore che si prova quando non c’è verso di farsi capire o, peggio, di comprendere il prossimo. Quindi possiamo chiamarla solo paura delle lingue straniere e basta. Decido io, una piccola rivincita al tiro che mi ha giocato il destino. Ho un bambino spagnolo in classe, da qualche settimana, che parla solo spagnolo. A onor del vero è talmente sveglio che se la cava alla grande, con i compagni e con noi, e in questo breve periodo di esplorazione della nuova vita in Italia ha già imparato diverse frasi. Io, invece, no. Sono al punto di partenza. E non credete a quelli che vi dicono che lo spagnolo è facile e intuitivo. Il mio alunno è peruviano e parla velocissimo e tutto attorcigliato. Io uso Deeplo in classe per tradurgli le cose più importanti e lui ride perché l’intelligenza dei traduttori artificiali non è poi così aggiornata ai bambini di oggi. Ho fatto però il calcolo delle parole che so nella sua lingua e ho capito che non farò molta strada. Posso incitarlo come si sentiva nei cartoni di Speedy Gonzales o far leva sul suo orgoglio cantandogli qualcosa degli Inti Illimani o, al massimo, del Sergente Garcia o di Manu Chao, ma qui le cose iniziano a complicarsi. Non conosce nulla dei miei punti di riferimento musicali in spagnolo e, anzi, quando gli ho chiesto che musica gli piacesse non ha saputo rispondere, ma forse perché non ha capito la domanda.

lombroso

Standard

A scuola è successa una cosa che ha dell’incredibile. Qualcuno ha rubato una fotocamera 360 per la realtà immersiva dall’attrezzatura pronta per essere collocata nel laboratorio stem. Siamo riusciti finalmente a organizzare la formazione per i colleghi, la scorsa settimana. Per allestire il set della parte pratica del corso, ho messo in carica i visori e quando ho aperto la scatola della fotocamera dentro era vuota. La scuola è un porto di mare, purtroppo. Quest’estate hanno cablato tutti i plessi del mio comprensivo e a novembre hanno sostituito otto vecchie LIM con altrettanti modernissimi schermi touch. Se ho ricondotto il furto a questi due episodi è perché il dispositivo è talmente anonimo e da addetti ai lavori che solo uno del settore poteva rubarlo. Con tutta la tecnologia consumer che abbiamo a scuola – a partire da tablet e pc – più facilmente rivendibile, la sparizione di apparecchiature specifica restringe i sospetti sulle uniche persone in grado di riconoscere che il contenuto della scatola dalla sagoma di un telecomando non era, appunto, un telecomando. Se poi volete un parere personale, i tecnici che si sono occupati degli interventi nella mia scuola avevano qualcosa di losco ma, come potete immaginare, potrei anche essere stato io. Di certo non i miei colleghi – poco avvezzi alla realtà virtuale e mista – per non parlare dei bambini della scuola, la fotocamera non assomiglia né a un iPhone e tantomeno a un pallone. Mi sono improvvisamente ricordato di chi potrebbe essere il colpevole – uno di quelli che portava su per le scale i proiettori smontati per ammassarli nell’aula ripostiglio dove riponiamo tutto quello che non serve all’istante – proprio ieri pomeriggio, e unicamente perché a Milano esiste Via Lombroso e non so se si tratti proprio di quel Lombroso che matchava facce a tendenze criminali. Ma la vergogna per il rigurgito di pregiudizio che mi è fuoriuscito dai pensieri è stato sovrastato all’istante dal fastidio di ritrovarsi in mezzo alle migliaia di persone convenute nello stesso posto in cui mi trovavo io e per lo stesso motivo. Gli ex-macelli di Via Lombroso erano una delle principali mete delle iniziative del Fuori Salone, aspetto che si evinceva dalla coda all’ingresso che non aveva nulla da invidiare da quella da più di un’ora che avevo dovuto sopportare pazientemente qualche settimana fa fuori dai cancelli dell’Allianz Cloud per la partita di coppa tra Vakifbank e Vero Volley Monza. A Milano siamo in tanti e abbiamo tutti le stesse idee simultaneamente. Posso quindi confermare di esser stato al Fuori Salone non più di dieci minuti. Mi sono allontanato dalla folla, ho mangiato un gelato spaziale alla Gelateria Marchetti e ho trovato rifugio al Coin, dove sono tornate di moda le sedie con le strisce di plastica colorata e persino la gente che non era nata quando c’erano le sedie con le strisce di plastica colorata sorridevano toccando le sedie con le strisce di plastica colorata.

venti

Standard

Da ieri in classe siamo in venti, cifra tonda. Fino a due giorni fa eravamo in 19, un inutile numero primo, e non potete capire quante occasioni mancate, per uno che insegna matematica. Nessun esempio a portata di mano per multipli e divisori. E invece avete presente quante possibilità ci sono per imparare le frazioni o formare gruppi di diversa composizione? “Dividetevi in cinque squadre!”, potrò dire d’ora in poi in palestra. Certo, fino alla metà della seconda eravamo in 18 ed era ancora meglio, per via della presenza del 3, e un po’ mi rammarico del fatto che non ci sia nessuna possibilità di arrivare a 24 – il non plus ultra: si divide per due, tre, quattro, sei, otto e dodici – entro il prossimo anno in quinta, anche se il flusso migratorio, che cresce in via esponenziale malgrado le farneticazioni propagandistiche dei fasciofratellistiditalia, potrebbe riservarci delle sorprese. Ne hanno parlato proprio ieri sera al telegiornale.

Comunque vi presento il mio NAI, acronimo che sta per Neo Arrivati in Italia, un ragazzino di quasi 11 anni che ha raggiunto la sua mamma due settimane fa dal Perù. La collega della commissione stranieri me l’ha ufficializzato in corridoio allo stesso modo in cui si chiede in prestito la chiavetta per la macchinetta del caffè. Io credevo che per certe cose ci volesse un minimo di confronto ma poi ho pensato ai chirurghi del pronto soccorso che, in quanto a imprevisti, battono tutti. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze, mentre l’inserimento sarebbe avvenuto subito al rientro. Al ritorno dalla mensa c’era già il banco e la sedia in più grazie allo zelo delle collaboratrici che hanno reso finalmente simmetrica la disposizione delle file in aula. I miei alunni mi hanno chiesto dettagli, ma io ne sapevo quanto loro. Fino a ieri, quando NAI è stato accompagnato nella mia quarta dalla bidella.

Il pomeriggio precedente, mentre mi documentavo per allestire una poco credibile slide di benvenuto da proiettare alla LIM, mi è venuto da giocare al gioco del lancio dell’omino giallo di Google Streetview a caso questa volta su Lima che, ho scoperto, è un gioco che non si dovrebbe mai fare con i posti più poveri di quello in cui si vive. Ho viaggiato virtualmente tra le strade sterrate della povertà e l’attesa di conoscere NAI si è trasformata in ansia allo stato puro. Al terrore di comunicare con lui senza capirci – parla solo spagnolo e combinazione la mia fobia più grande è quella delle lingue straniere, cioè vivere una situazione in cui nessuno si sforza di farmi capire cosa dice – si è aggiunto il fattore accoglienza nei confronti di un immigrato a tutti gli effetti. Non solo. Una delle tre informazioni che mi hanno passato è che sembra essere piuttosto chiuso e timido. Le altre due sono che la mamma è qui da un lustro a fare la badante e che l’offerta comprende un fratellino – un po’ più sorridente – che approda alla prima.

Il primo giorno di scuola di NAI non poteva andare peggio, a partire da me da solo che alternavo la presenza in classe con il ruolo di collaboratore tecnico per le prove invalsi della secondaria nel nostro laboratorio di informatica (la rete alla secondaria non regge). In più, l’attività che avevo previsto per rompere il ghiaccio con NAI si è rivelata un vero e proprio fiasco. Delle tre parole in spagnolo sottovoce che ha pronunciato (senza nemmeno togliersi il cappuccio del piumino dalla testa) ho afferrato che gli piace la matematica, così l’ho messo subito sotto con calcoli e problemi (senza testo ma con il disegno) in modo da non forzare con il gap linguistico e consentirli un po’ di tregua con quella specie di esperanto che sono i numeri. Quando l’ho accompagnato all’uscita tra le braccia della mamma prima della mensa – inizierà il tempo pieno solo la settimana prossima – mi ha concesso un mezzo sorriso. Mentre scendevamo le scale gli ho tradotto sul mio smartphone la domanda se si sentisse stanco, dopo quella mattinata nella nuova scuola. Mi ha risposto di sì.

caduta libera

Standard

Se avete presente il momento in cui la natura pesta a tavoletta l’acceleratore per far tagliare ai vostri figli il temuto traguardo della prepubertà con il miglior parziale possibile, potete immaginare cos’è un’intera classe intorno ai 10 anni e cosa comporta avere venti bombe ormonali a orologeria da disinnescare per evitare il peggio stipate nello stesso luogo. La primavera della quarta la riconosci dal fuggi fuggi generale di tutte le qualità sulle quali l’insegnante ha costruito l’equilibrio di un insieme eterogeneo di cuori e teste, strappando mocciosi ancora caldi di latte e biscotti Plasmon dalle braccia delle educatrici dell’infanzia e coltivandone talenti e attitudini fino a quel punto. Oggi gliel’ho detto: siete irriconoscibili. Sentono tutti la primavera e in un momento in cui sono estremamente sensibili alla primavera. Ho detto loro che probabilmente sono tutti innamorati, e dai risolini che sono scaturiti, ho supposto di aver colto nel segno.

Quelli bravi sono regrediti di un semestre. Quelli con lo spleen si mettono a piangere per un nonnulla. Quelli che avevano mal di pancia nei giorni di verifica stanno a casa. Quelli permalosi passano all’attacco e spezzano direttamente le matite in segno di ritorsione. I più distratti hanno preso il volo con destinazione iperuranio a cavallo di un unicorno. Chi chiedeva permesso dà gli spintoni. Quelli che in condizioni normali sfoggiavano la memoria di un protista vanno direttamente in trance dopo la prima campanella e non li riprendi più. I più simpatici ti viene voglia di chiuderli in bagno. I meno simpatici pure ma poi gettare via la chiave.

Per una fortunatissima coincidenza ho praticamente detto tutto quello che c’era da dire sugli argomenti del programma e, visto che potremmo salutarci qui e riparlarne a settembre (considerate che la scuola è già di per sé così, aprile e maggio sono poco più che due circoli ricreativi) posso permettermi di puntare sulle attività laboratoriali e tutti quegli approcci dall’altisonante nome in inglese di cui ogni insegnante si riempie la bocca per darsi un tono nelle conversazioni con chi svolge un lavoro normale. Questo, ripeto, è un lusso, perché posso fermarmi per stemperare i costanti impeti di sperimentazione privata e sociale, sdrammatizzare le reazioni fuori controllo o, agli opposti, tentare la rianimazione di un encefalogramma piatto al cospetto di prove che, solo prima di Natale, costituivano una abbordabilissima prassi. Il prossimo anno sarà peggio perché, come guscio di stati d’animo tormentati, al posto facce e corpi da bambini ci saranno entità aliene di difficile classificazione.

Per spaventarli un po’, stamattina gli ho ricordato che a settembre 2024, quindi tra poco più di un anno e mezzo, si troveranno alla secondaria. Mi hanno guardato con la stessa espressione che mi sono sentito in faccia mentre leggevo, qualche giorno fa, un articolo sui 50 anni di The Dark Side Of The Moon. Il pezzo era su una webzine di costume. Ho terminato la lettura e ho osservato sul frigo una vecchia foto in bianco e nero dei miei genitori poco più che ventenni negli anni cinquanta. A fianco c’è quella mia e di mia moglie quando ci siamo conosciuti. Ho pensato che sono entrambe foto storiche, anche se la mia è a colori, e che cinquanta anni corrispondono a mezzo secolo, e a mettere insieme anche solo una trentina di mezzi secoli si arriva quasi alla caduta dell’impero romano di occidente. Più o meno eh, era per darvi una data certa, il 476 dopo Cristo, avrete capito che non è questo il punto.

doppio live

Standard

Se c’è in sala qualche non-proprietario di gatti, vorrei chiedergli com’è svegliarsi al sabato e la domenica dopo le sei del mattino. La narrazione che ci facciamo noi che dovremmo avere una sorta di pensione di invalidità – pagata grazie alle decine di migliaia di euro che abbiamo speso in scatolette puzzolenti (spesso vomitate e poi ri-mangiate per poi essere ri-vomitate) e interventi chirurgici presso cliniche veterinarie senza scrupoli – dicevo che la narrazione che ci facciamo noi proprietari di gatti è che tanto, durante la settimana, ci saremmo svegliati comunque con la sveglia mezz’ora più tardi. Ma il sabato, chissà come dev’essere quella sensazione di intorpidimento fisico che non provo più da quando ero giovane e felice non-proprietario di gatti del cazzo in casa, che consiste nello svegliarsi alle dieci del mattino, con il sole già alto e l’hinterland operoso che già impenna con il tosaerba nel giardino delle villette a schiera o fa la coda alle bancarelle del finto mercato contadino.

Questa mattina, poi, ho percepito quel rumore di motore termico in folle che emette la mia gatta di merda per attirare l’attenzione, unito alla sensazione di nasino umido sulle palpebre e sulle guance, proprio prima della scena finale di un sogno pazzesco. Mi trovavo con la mia collega di team a zonzo in un brocantage parrocchiale. L’allestimento era rigoroso, con tutte le cianfrusaglie ordinate per genere su tavoloni centrali, in una enorme sacrestia presa d’assalto da nostalgici curiosi e da antiquari senza scrupoli. Il successo dell’iniziativa mi faceva desistere dall’idea di trovare qualcosa di interessante, laddove qualcosa di interessante per me, anche in sogno, consiste in dischi in vinile e giradischi di valore a un prezzo stracciato. Fino a quando il sogno prende una svolta: in una stanzetta seminascosta noto due contenitori traboccanti di trentatré giri. Malgrado le copertine che riconoscono avvicinandomi non siano di mio interesse – noto un inesistente disco dei Van Halen dal titolo “77”, che a freddo interpreto con il fatto che anche nel sogno non mi venisse in mente un analogo titolo numerico che poi è “1984”, quello di “Jump” per intenderci, e che comunque anche in sogno non acquisterei mai, considerata la mia intolleranza all’hard rock – decido comunque di spulciare tra i vinili. Estraggo dagli scatoloni qualche disco dal prezzo molto interessante che metto da parte e poi ecco la vera perla della spedizione: un doppio live dei Cure risalente al tour di Wish. Ha una curiosa cover gatefold a specchio con un’etichetta adesiva che riporta il prezzo di 29,00 euro, le dimensioni sono circa 10 pollici, e nella parte interna riporta stampate le copertine della discografia della band di Robert Smith esistente al momento della pubblicazione di quel bootleg. Ricorda certe buste delle ristampe economiche di una volta, con il catalogo dei titoli a disposizione.

Noto però uno dei volontari dell’iniziativa di beneficienza sistemare le cose lasciate alla rinfusa dai visitatori durante la giornata. Mi avvisa che, al giro successivo di riordino, il mercatino chiuderà. Mi affretto così alla cassa ma mi accorgo di aver lasciato i vestiti e lo zaino in una cassetta di sicurezza, come quelle dei guardaroba fai da te dei musei, all’ingresso dell’oratorio. Mi precipito di corsa attraversando il cortile per recuperare il portafogli e rivestirmi. Come le scene oniriche delle serie tv più blasonate, l’aria è costellata da una specie di nevischio che non si capisce se sia innocuo come nel sottosopra di “Stranger Things” o tossico come in “Chernobyl”.

Trovo i miei jeans su un appendiabiti e, mentre li indosso stando in equilibrio a fatica (non ero proprio in mutande ma indossavo, al posto dei pantaloni, una specie di tuta bianca di carta leggera che usano quelli che verniciano le automobili), chiedo alle due attempate dame di San Vincenzo che presidiano la reception le chiavi della cassetta di sicurezza che, ovviamente, non hanno. Le chiavi restano ai visitatori come è giusto che sia. Mentre mi allontano le ascolto biasimare gli adulti dei tempi che corrono per l’inadeguatezza della loro capacità di stare al mondo, commentando la mia richiesta. Mi volto e rispondo loro che almeno, ora, nessuno muore più di appendicite, che non so cosa voglia dire e non è nemmeno riconducibile a una sequenza di numeri da giocare al lotto.

Torno di corsa al mercatino perché voglio recuperare in fretta, prima che chiuda, le chiavi della cassetta che deve avere per forza la mia collega, pagare i dischi e tornare a casa ad ascoltare il bottino inatteso di quella giornata, anche se so che in tutto mi costerà non meno di sessanta o settanta euro e che mia moglie avrà da ridire, ancora una volta, sui soldi che spendo in dischi. Non sono ancora rientrato nella sacrestia quando mi assale il dubbio, il vero plot twist del sogno: forse il disco live dei Cure l’ho lasciato nella stanzetta, che è un comportamento sconsigliatissimo nei mercatini, oltre che dal comune buon senso. Se trovate un disco che vi interessa, ricordatevi di estrarlo dal contenitore e proseguire la ricerca tenendolo con voi, anche se non siete sicuri che alla fine lo acquisterete. Se lo rimettete a posto o, come credo di aver fatto io nel sogno, lo appoggiate sopra alla fila di dischi nel contenitore, sicuramente qualche altro interessato se ne approprierà. E, manco a dirlo, succede proprio così: tra i dischi che ho chiesto ai volontari alla cassa di tenermi da parte per precipitarmi a recuperare il portafoglio, il doppio live dei Cure non c’è. Corro nella stanzetta dei vinili ma lo zelante inserviente che mi ha messo fretta ha già riordinato i titoli rimasti fuori posto. Dovrei rimettermi a scartabellare tra le centinaia di copertine – sempre che invece, nel frattempo, qualcuno non se ne sia accaparrato – ma non c’è più tempo. Nelle bancarelle dell’usato difficilmente i dischi sono collocati in ordine alfabetico. Il mercatino chiude e la mia gatta ha fame.

E tutto torna. Mentre, in piedi al lavandino della cucina, cerco di limitare la nausea da puzza di scatoletta alle sei del mattino, riconduco il disco del sogno a quelli che ho cercato – per puro passatempo – in rete durante il corso di formazione online che ho seguito ieri, nel tardo pomeriggio. Fare della formazione è un’arte perché il grafico che riporta la curva dell’attenzione di chi sta ad ascoltare è sacrosanto e comprovato ed è importate aver pronto qualcosa di completamente diverso per ravvivare l’interesse di chi ti segue. Ne so qualcosa io che mi dilungo ben oltre i venti/trenta minuti regolamentari con i miei bambini portandoli allo stremo. E, ironia della sorte, il corso in questione è dedicato al rapporto tra arte e scienza. Ho deciso di iscrivermi perché, tutto sommato, mi sento riconducibile alla categoria degli artisti che detestano la scienza, essendo troppo complicata e faticosa da studiare, figuriamoci da insegnare, cosa che purtroppo sono costretto a fare. Il fatto è che in questi giorni, a scuola, stiamo trattando la riproduzione delle piante, e proprio mentre la spiegavo ho condiviso con la classe la considerazione di quanto questa fondamentale funzione sia un’arte a tutti gli effetti. Pensate a come ci accoppiamo noi esseri umani. Per le piante sarà altrettanto piacevole? La struttura dell’apparato dedicato, la polpa del frutto che protegge i semi ma che è stata pensata così buona per far sì che poi vengano sparsi attraverso le nostre feci, la messinscena delle api che si impiastrano di polline, sono altrettanto appaganti? Ma anziché trattare di queste cose, lo specialista che teneva il corso ci dimostrava l’esatto momento della storia e della filosofia in cui arte e scienza si sono separate, che ha (o è) coinciso con l’esatto momento in cui il corso si è giocato la mia attenzione. Ho aperto una scheda di Chrome e mi sono messo a cercare dischi che vorrei acquistare tra Amazon e negozi di dischi online tra i quali paragono i prezzi. E pensare che i dischi live io nemmeno li compro. Non mi piacciono proprio.

chopin

Standard

Siamo riusciti a confermare lo specialista di musica/teatro dello scorso anno, un tipo fuori di testa che ci sa fare con i bambini, ha un metodo efficace e propone una formula inclusiva anche con i casi più complicati. E poi è proprio bravo. Ha dei capelli assurdi e in segreteria lo chiamano “Chopin”. La mia dirigente non è molto d’accordo nell’affidare progetti a specialisti esterni di materie di cui dovrebbero occuparsi gli insegnanti, forti delle loro competenze. Sostiene che se deleghiamo la didattica agli insegnanti madrelingua, agli esperti di motoria e a quelli di musica, noi che ci stiamo a fare, senza contare che si paga tutto due volte. Mi trovo abbastanza d’accordo con lei, ma c’è un vizio alla base dei progetti scolastici. Agli insegnanti della primaria si richiede di essere onniscienti ma, superato il livello delle nozioni standard che bene o male siamo tutti in grado di trasmettere a terzi, è difficile che si trovino concentrate in ogni singolo docente le specializzazioni che richiediamo agli esperti esterni. La formazione entry-level ongoing a cui siamo soggetti non ci renderà mai attori, atleti e musicisti, tantomeno inglesi di nascita. Ci vorrebbero al limite corsi professionali, anni di scuole di teatro, di allenamento e di studio della musica, il tutto a nostre spese. Piuttosto, il messaggio da passare è che i progetti con specialisti verticali esterni sono l’eccezionalità e devono essere considerati come tali. Quello che sa fare Chopin, per dire, non sarei in grado di farlo nemmeno io che ho una preparazione extra in musica non richiesta dalle mie mansioni. Malgrado questo, ogni anno è sempre la solita solfa: si propongono i progetti, si approvano, si pubblica il bando, si procede alla selezione e finalmente comincia il corso anche se, nel frattempo, è quasi primavera. Come tutte le cose, il fuso orario della scuola è diverso da quello del buon senso. Basterebbe proporre e approvare i progetti per il successivo anno scolastico ad aprile, a maggio si pubblicano i bandi, entro la fine di giugno si procede alla selezione e all’inizio dell’anno scolastico si può partire con tutti i crismi. Che poi è anche fuori dal mondo che, ogni anno, per gli stessi progetti, si debba pubblicare un bando. Non avete idea di quante volte nessuno presenta la domanda, non chiedetemi il perché. Non capisco perché, se mi trovo bene con Chopin, non possa confermarlo in automatico fino a quando mi stufo. Quest’anno, per dire, il progetto CLIL inglese se l’è aggiudicato un’organizzazione che ci ha mandato un’insegnante russa che ha vissuto negli Stati Uniti. Dovreste sentire il suo accento cockney come lascia a desiderare.