piovono pietre

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“Se di lavoro fate la stessa cosa ogni santo giorno dovreste provare a moltiplicarla per il numero dei giorni feriali e per il numero – spero per voi elevato – di chi usufruisce dei vostri servizi”, sta dicendo l’addetto alle vendite egiziano che è lo stesso che si vanta di avere dieci completi nell’armadio da usarne cinque alla settimana, uno diverso ogni giorno, ordinati dal blu scuro al grigio chiaro. Un vero e proprio enigma aritmetico: i prodotti e i servizi in genere che caratterizzano l’uniformità dello stile di vita e dell’economia stessa che manda avanti l’occidente messi in relazione con un coefficiente che determina l’effetto di costante eleganza di un commerciale nordafricano perfettamente integrato, parla meglio di me. La variabile è il fattore tintoria che va a spostare la cadenza con cui l’ordine degli abiti viene indossato, questo comporta una maggiore alternanza di look e, conseguentemente, abbatte le possibilità che il nostro sales manager incontri più di una volta un cliente o potenziale acquirente vestito allo stesso modo. Ma non che i prodotti o i servizi che va commercializzando – non ho idea di cosa si occupi – poi siano differenti. Questo è tutto un altro paio di maniche, sempre per rimanere nel settore dell’abbigliamento, perché c’è tutta la questione relativa alla standardizzazione o alla personalizzazione sulle esigenze dei clienti ma la cosa non ci deve interessare. Preoccupiamoci piuttosto di capire cosa ci fanno tutti quei sassolini sul tratto di camminamento che porta all’ingresso della scuola materna, dove l’egiziano ha appena lasciato i suoi due figli gemelli eterozigoti. L’impressione è che sia passato di lì un autocarro pieno di terra e roccia da scavo, con il cassone talmente pieno da perdere due strisce parallele di residui. L’enigma che necessita di una soluzione è ora sapere il perché un autocarro dovrebbe transitare su un largo marciapiede che costeggia un edificio che trabocca di bimbi e lasciare tutti quei sassi, con un curioso effetto mulattiera. “Perché i lavori non li fanno lungo la strada?” qualcuno chiede senza ottenere risposta. Poi c’è chi intelligentemente sfrutta una inaspettata possibilità di gioco con i figli, non tirando i sassi perché si potrebbe fare male qualcuno ma improvvisando zig zag coreografici in quell’innesto di materiale grezzo, qualcuno stava per dire naturale ma le pietre non trasmettono tanto il senso comune della natura, voglio dire che bastano un paio di picconate o una ruspa per divellere l’asfalto che di sassi così sotto c’è pieno. Comunque poi il padre ballerino di prima cerca di tranqulizzare quelli più indignati che già si lamentano del comune, come se i muratori dell’est fossero alle dirette dipendenze dell’assessore ai lavori pubblici. “Possono essere cadute dal tetto”, dice, ma si vede subito che la cosa non fa ridere nessuno, nemmeno la ragazza che sta passando con fatica in tenuta da running che si è sfilata persino uno degli auricolari sperando in qualche interpretazione credibile di quel fenomeno.

le canzoni romantiche

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Da Dante a Fedez – e perdonate il jet lag a cui vi ho esposto, posso immaginare che lo iato culturale multi-circadiano tra due poli così opposti sia incolmabile – dicevo che da Dante a Fedez il subbuglio ormonale da sfogare in rima deriva per lo più dalla tensione erotica che nella gamma delle sensibilità artistiche – ecco perché i due antipodi della poesia, l’acme e la fogna – si espleta attraverso la rima più o meno musicata. In mezzo ci sono mille anni di melodie d’amore però, versi modulati su accompagnamento strumentale, su cui autori si struggono mentre ascoltatori si dannano e beneficiarie si schermiscono. Le canzoni romantiche fanno sognare da sempre gli adolescenti ed è un processo che si reitera nel tempo con una continuità che non ha confronti. Se incontrate nel 2014 ragazzi che cantano i loro inni alla spensieratezza, a me è capitato qualche giorno fa in treno con tre giovanissime che intonavano un facile ritornello dell’ultimo disco de “Lo stato sociale”, mettete mano alla vostra vita e ripescate quel momento in cui è successo anche voi di condividere pene o successi amorosi con qualche amico di appoggio dotato di chitarra o altro strumento portatile, voce di supporto compresa, e riassaporate il conforto dato dallo sfogo dell’urlare quelle parole in cui vi siete riconosciuti protagonisti nel bene o nel male con una spalla compiacente a cui confidare cose così complesse come l’innamoramento corrisposto o respinto in giovane età. Si ride, si piange, ci si dispera o si cerca un appiglio per riprendere a vivere da un’altra parte con la canzone romantica giusta. Noi italiani siamo bravissimi in questo, se non fosse che spesso ci troviamo borderline con la lagna. Ma che importa ai produttori di testi da musicare, il loro obiettivo è fare soldi proprio con i nostri sentimenti incoraggiati o interrotti o anche solo ostacolati. A noi ragazzi alle prime esperienze ci basta un ritornello da ripetere fino all’esasperazione, come un mantra in grado di abilitare decisioni altrui a nostro favore. Un sì, un va bene, un bacio o una di quelle espressioni che poi a casa si possono adattare alle aspettative tanto sono neutrali. Da Dante in poi, ma solo per una corretta collocazione storica della certa esistenza della nostra lingua e Fedez questa volta lo lasciamo fuori dal gioco, miliardi di milioni di ragazze e ragazzi in coro si sono misurati poi subito dopo con l’enigma del silenzio, a osservare se il messaggio ha sufficiente forza per levarsi in alto e volare a destinazione, ignari del sistema di saturazione audio che c’è dalle nostre bocche in poi, un concentrato delle preghiere laiche o ufficiali di richiesta di salvezza a divinità in carne ed ossa, oggetto dei desideri di un genere umano che non cambierà mai e continuerà a vivere – con un coinvolgimento senza tempo – quella cosa che nessuno si spiega ma che, dicono, fa girare sole, stelle e, talvolta, parti anatomiche che la poesia la limitano un pochetto.

manuale del lavoro manuale

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C’era da immaginarselo che finiva così. Vedi uno che fa l’impagliatore di sedie, che è uno dei mestieri più antichi al mondo, lo vedi seduto sul marciapiede della via del tuo ufficio addirittura all’angolo di un’arteria urbana di quelle lungo le quali fanno la spola le circolari destra e sinistra e la cosa ti sembra così strana che ti viene naturale distrarti dalla conversazione telefonica che stai tenendo nella classica postura da quello che ci sta attento a non prendersi le onde elettro-sa-il-cazzo-cosa dritte sulla tempia. Quindi con l’auricolare conficcato nelle orecchie, che a furia di metterlo e toglierlo anche il gene del cerume finirà per essere commentato dai programmatori nel codice genetico tanto non servirà più al genere umano del futuro dalle orecchie stra-linde. E in questo confronto di approcci alla vita con il retrogusto di battaglia tra epoche storiche – quella degli spazzacamini versus quella degli influencer – è quanto mai naturale per noi stabilire i parametri che declassano a lavori umili tutti quei mestieri che possono essere svolti senza un dispositivo connesso a Internet, piccola fiammiferaia compresa.

Ora pensate che assurdità questa visione network-centrica del mondo, o comunque frutto di un processo evolutivo con un sistema operativo come motore immobile, in cui la vita, il lavoro, persino le relazioni sentimentali e la trasgressione sono considerate solo se connesse in qualche modo a un ambiente che ne riconosca i dati e li possa analizzare mentre le persone fanno finta di non saperlo. Ora nemmeno io credo al complotto dei servizi segreti della superpotenza internazionale che passa le nottate a collegarsi anche su questo blog per verificare se c’è del materiale che scotta, dal punto di vista del nuovo ordine mondiale. Voglio dire, spero che Russia, USA e Cina non siano messi così male, e comunque me ne accorgerei dal resoconto degli accessi. Sapete che sto scherzando, vero. Così l’artigiano che impaglia sedie seduto all’angolo senza però un counter che digitalizza la sua operatività resta fuori dai sistemi di tracking e chi si è visto si è visto, senza contare i risvolti fiscali della sua attività, perché non crederete che finita la sedia che qualcuno gli ha commissionato l’impagliatore vada lì con il POS o con un libro della contabilità, vero?

C’è anche una bella differenza tra il marketing digitale e la comunicazione ultra-analogica e fisica dell’impagliatore di sedie con tutto il resto del mondo informatizzato. Se vedete una sedia a una fermata della metro, per esempio, o lasciata alla mercé dei pedoni e dei ciclisti che travolgono i pedoni sui marciapiedi, quello è il segnale che di lì a poco potreste incontrare un impagliatore di sedie in carne ed ossa. A volte sulla sedia stessa c’è pure un’insegna scritta a mano con nome, numero di telefono e una freccia da seguire per trovare il lavoratore di strada. Che poi è una cosa che mi fa venire in mente il modo in cui trattorie e ristoranti a volte comunicano la loro presenza o il fatto che sono aperti. Un tavolo apparecchiato con la tovaglia e una bottiglia in mezzo, in bella vista. Mi pare così, giusto? Ed è interessante il modo in cui si sviluppa questa semiologia delle professioni del tutto arbitraria nonché borderline dal punto di vista della legalità. La pubblicità in spazi comuni dovrebbe pagarsi in qualche modo, e chi lo sa se sedie impagliate e i tavoli da pranzo sono già il frutto di un investimento in marketing non convenzionale, e noi ne siamo all’oscuro.

colpito alla testa da una parola vagante

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Con un tempismo perfetto, proprio oggi che prende il via la la campagna sociale contro la discriminazione “Anche le parole possono uccidere“, una campagna a tinte forti e che, dicono, farà discutere, un campagna contro gli insulti (ciccione! negro! troia! terrorista!), sono in due a prendersi a male parole e a venire in poco tempo alle mani. “Mia madre!!! Hai detto mia madre!!!” grida un uomo con un’impostazione che sembra abbia studiato davvero recitazione o forse è solo la risonanza della fermata della metro di Garibaldi. Quello che potrebbe essere un teatrino assurge in un lampo a una tragedia shakespeariana. In due lo stanno tenendo fermo con una temerarietà d’altri tempi, sottoponendosi alla sua furia scomposta. L’uomo costretto all’immobilità sporge innaturalmente il collo verso l’alto come un gallo da combattimento scoprendo il gozzo, manifesto sintomo di ipertiroidismo, che va su e giù seguendo la verbalizzazione dell’onta subita. “Mia madre!!! Hai detto mia madre!!!”, ripete, come se fossimo nell’ultimo atto de “Il Trovatore”, trascinati dal pathos della vendetta. Si vedono persino gli sputacchi che risaltano durante i monologhi quando sul palco, complice certe luci e il fondo nero, la saliva dell’attore ruba la scena a tutto il resto.

Intuisco l’offesa verbale che sta alla base di quel battibecco rinforzato e mi viene da chiedere a tutti perché sentirsi dire “figlio di puttana” costituisca ancora un casus belli. A parte il fatto che mi sfugge l’amoralità delle attitudini sessuali e la frequenza di qualunque pratica in quel senso, o anche nell’altro, con una o più persone monouso o reiterate, quando si tratta dei propri cari. Anche sentirmelo dire per pura volontà di oltraggio da terzi, sia che siano utenti finali dei favori lussuriosi dei miei genitori che si tratti di un pour parler con finalità di dolo, la cosa non mi fa né caldo né freddo. Ma questa è una reazione a qualunque presunto affronto a parole, sia che sia comprovabile (inetto! cialtrone! presuntuoso! nasone! comunista di merda! snob! senzaculo!) sia che derivi da una illazione (pederasta! muso giallo! obeso! quattrocchi! canaglia!). Quindi perché inalberarsi per le insolenze altrui? Le parole volano ancora, soprattutto oggi che ci scriviamo tutto.

Di certo però questo non può essere un argomento di conversazione a cose già fatte, la parte lesa non sembra in grado di lasciarsi condurre alla ragionevolezza. Soprattutto quando finge di calmarsi e, approfittando della presa meno decisa di chi gli sta facendo scudo, si scaglia contro il ragazzo africano che continua a rincarare la dose nel suo italiano poco fruibile. Forse anche il vilipendio è bene adoperarlo solo quando lo si padroneggia con perizia, non trovate? Altri spettatori intervengono per separare quel secondo attacco, i due contendenti vengono allontanati a una distanza di maggior sicurezza, e l’attenzione tra i presenti scema definitivamente. Tanto che i più si vergognano, come al solito, di aver indugiato con la morbosità che ci contraddistingue attirati dal consueto voyeurismo per la violenza, anche solo verbale che poi, ripeto, trovo che violenza non sia. Ma le parole, dicono, sono importanti. La ragazza che è vicino a me riprende la sua conversazione telefonica e chiede al suo interlocutore che cosa danno stasera su Internet. Capisco così che ci sono ben altri problemi da risolvere prima, occorre davvero indagare più a fondo per trovare il perché.

quello che non riusciamo a imparare

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Quindi abbiamo inventato piumini caldissimi prodotti con imbottiture e tessuti ultra-leggeri ma esistono ancora aule scolastiche tinteggiate color ospedale, metà pareti verdino malattia cronica e il resto bianco sporco scrostato, con arredamento stile libro cuore e muri spogli senza nemmeno una di quelle carte geografiche dove i ragazzi possono cercare asilo quando non ne possono più. E poi le luci al neon da ufficio del terziario parastatale anni ottanta con quella diffusione che forza l’uniformità, la piattezza, i non colori. Questo nel 2014 quando i nostri figli hanno a disposizione le tecnologie 3d dei multisala alla proiezione di film con effetti speciali che ti annullano la coscienza, strumenti digitali a risoluzione sinestesica, linguaggi talmente totalizzanti che nemmeno i guru della modernità e della filosofia della rete riescono a domare e a mettere al servizio dell’istruzione. D’altronde a che servono lavagne interattive – una roba che solo nella scuola come ci vogliono far credere debba essere sembra una tecnologia all’avanguardia al tempo dei tavoli touchscreen multiutente – e realtà aumentata per passare ore su Odoacre e Romolo Augustolo? Siamo talmente concentrati nello studiare da dove veniamo da non arrivare mai in tempo a capire dove siamo. Non serve fraintendere il presente solo perché oggi dà il peggio di sé se ci sono gli strumenti per isolarne il principio attivo e diffonderlo. Dobbiamo stare attenti perché se non siamo all’altezza del progresso corriamo il rischio che i nostri figli intendano scuola e istruzione come un deterrente al sapere, una bolla di sospensione dal tempo che abbiamo allestito per loro, considerando che ci è un po’ sfuggita la mano con gli ingredienti meno salubri.

tira più la nouvelle vague che un carro di buoi

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Non so che film fosse ma c’era comunque qualche scena un po’ spinta, niente di porno ma diversi accoppiamenti umani simulati piuttosto realisticamente con il minimo di nudità femminile mostrato qualora fosse stato necessario rafforzare il concetto, per quella maschile il rischio non sussiste perché poi si riduce solo a un elemento tabù. Niente di sconcertante se non fosse che vederlo in treno sul tablet, anche se con l’audio in cuffia, il rischio è di crearsi intorno un capannello di pervertiti che vogliono appurare la veridicità della recitazione. E se ci sono dei bambini dietro che sbirciano, qualche nonnina debole di cuore, una suora o comunque qualcuno sensibile a tali tematiche? So di gente che ha persino vomitato per un passaggio troppo azzardato in un film osé anni 70, ma era in un multisala e quindi forse c’entra il fattore dell’iper-realtà. Nei viaggi a lunga percorrenza, metti l’ormai classico Milano-Roma in tre ore, questo tipo di proiezioni private è piuttosto comune per trascorrere la distanza senza annoiarsi, e non c’è nulla di male ma solo se si segue una storia adatta a tutti. Al massimo occorre solo un po’ di attenzione se vi va di condividere la visione con la sconosciuta al vostro fianco, dopotutto proporre un diversivo a chi magari si annoia guardando di straforo il vostro schermo è pur sempre una cortesia, e il caso vuole che voi vi muoviate sempre con un auricolare in più e lo sdoppiatore per le cuffie in borsa. Solo sinceratevi prima che non sia nulla che possa mettere in imbarazzo lo spettatore aggiunto, generalmente sesso o violenza gratuita, quindi occhio alla scelta del film. Io mi sono pure sentito dire di no da una ignota vicina di posto che dapprima sembrava interessata a condividere con me un lungometraggio, ma poi ci ha ripensato adducendo la motivazione di non apprezzare il cinema americano. Che, voglio dire, si tratta di una scusa quasi meno attendibile di chi sostiene di non votare perché non si sente rappresentato da nessuno. Avete capito cosa intendo. Ma quella era solo l’andata. Al ritorno da quel viaggio il caso mi aveva messo a fianco di una ragazza del sud che stava raggiungendo Milano per uno stage, meglio che niente. Io avevo finito i film – comunque i miei non erano assolutamente vietati ai minori – e pure il libro e visto che le andava di scambiare quattro chiacchiere mi ero prestato a una conversazione sul più e sul meno che poi però era diventata piacevole. Si era laureata nel mio stesso settore e prima di scendere mi era venuta l’idea di lasciarle un biglietto da visita, poi quando lo ha riposto nel portafogli ho notato una tessera di Alleanza Nazionale in quel punto dove le persone normali mettono le foto dei figli o dei fidanzati. Se fossi stato uno diverso il mio biglietto glielo avrei chiesto indietro e, per umiliarla maggiormente, mi sarei messo subito a guardare sul portatile qualcosa di Truffaut.

sexy boy

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Quel tuo amico con l’impermeabile lungo fino alle caviglie non riesco nemmeno a capire cosa dice, ma nel Veneto non ve lo insegnano l’italiano? Faccio apposta a far finta, tanto se si parla di musica è difficile spararne di fuori contesto. C’è sempre la scusa dei gusti che sono gusti, c’è tutta una gamma di punti di vista che possono attingere dalla filosofia fino a quelle inutili riviste di carta e su Internet dove cani e porci annotano le loro pugnette esistenzialiste mascherate da recensioni senza essere remunerati, e ci mancherebbe altro, mentre i più onesti e franchi possono sorprendere l’interlocutore dicendo che quel gruppo lì non l’hanno mai sentito. Ma come, dice il veneto, non conosci i Suicide? Un altro al mio posto avrebbe mentito. Ma cosa vuoi che mi interessi, ho detto poi a Enrica visto che già riteneva discutibile il mio punto di vista su Almodovar che ho liquidato con un che due coglioni. Non potrei sopportare di stare con una che ne sa più di me di musica, ho aggiunto, ma non è stata questa che ha superato il limite. Prima c’era tutto il concerto degli Air e il concentramento di centinaia di quelle ragazze che noi di provincia, quando le vediamo a Milano, ne semplifichiamo l’insieme di appartenenza riconducendole alla moda o ambienti affini. Che poi non è vero, a parte qualche sconfortante caso di cui posso portarvi almeno un paio di esempi di vita vissuta, qualunque ambiente di lavoro un po’ meno tradizionale ne comprende qualche esemplare. Comunque il concerto era tutto un susseguirsi di strumenti elettronici di altri tempi a contraddistinguere questo o quel pezzo, suonati da un pugno di fighetti con il ciuffo biondo o la frangetta e vestiti da Rockets senza il trucco dorato sul corpo e sulla faccia ma con costumi e mantelli che sembravano marziani. Non fraintendetemi, a me è piaciuto molto e la prova è che Moon Safari l’ho consumato a furia di sentirlo e non spenderei tutti quei soldi per un gruppo che non mi piace. Poi l’uso filologico di certi synth e batterie elettroniche, giurerei di aver visto persino una Mattel Synsonics Drums sul palco che quando nell’81 o giù di lì avevo proposto al mio batterista di usarla dal vivo mi aveva preso per il culo perché era considerato un giocattolo. A Enrica dico anche questo, a fine concerto, e per mia fortuna sono un po’ ubriaco così mi accorgo di più di quanto sono presuntuoso. Poi mentre l’amico veneto con l’impermeabile lungo ci riaccompagna verso casa e stiamo discutendo di nomi, ritorno sul concetto che i figli bisogna chiamarli con i nomi dei fratelli Cervi, ed è lì che è chiaro che se mi dici povero tuo figlio che si chiamerà Gelindo non funzionerà mai, undici anni di distanza sono troppissimi ma so che un sacco di over trenta hanno fidanzate che fanno l’università e io mi dico che boh, certo ci sono i pro ma non so se ne valga la pena.

bene e immobile

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Il problema, uno dei tanti, è che ci sentiamo sempre al centro di qualcosa ed è per questo che mentre ci puliamo la spallina della giacca con il fazzoletto perché ci siamo soffermati qualche istante di troppo nei pressi, anzi, sotto il piccione sbagliato, a nostro modo non ci sorprendiamo. In qualche modo e per qualche obiettivo ci siamo. Esistiamo. Viviamo come artisti di strada che interpretano quello che vediamo fare agli attori della fiction di serie B. Siamo statue viventi ognuno con il suo costume di risulta, la mummia, Dante, l’uomo d’affari fermato in uno screenshot esistenziale in corsa verso il successo, il fantasma, Napoleone, il fachiro che usa tanto di questi tempi con il trucco che sembra che stia a mezz’aria. Siamo comparse costrette a mettersi sempre in tiro nella speranza che, oggi, qualcuno decida che il ruolo tocchi a noi. Ecco perché il travestimento della morte con la falce non fa ridere e, anzi, ve lo potete risparmiare.

lasciaci tornare ai nostri temporali

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La bellezza naturale non è niente senza le infrastrutture che consentono di accertarne il primato. Tunnel e svincoli nascosti che ci permettono di arrivare a visitare la bellezza naturale velocemente con i nostri mezzi inquinanti a loro modo, e a documentare a tutti che si, è vero, la bellezza naturale è proprio naturalmente bella e se non avessimo strade, ripetitori delle compagnie telefoniche, strutture ricettive in cui trovare ristoro, rimuginare sulla bellezza testé vista e trasmettere le nostre impressioni, la bellezza della bellezza naturale sarebbe comunque tale ma nessuno potrebbe appurarlo perché resterebbe sconosciuta.

Ma non è sempre così, sono pochissimi i posti in Italia – giusto per riportare il dibattito al nostro interno – sono così rari i posti in Italia in cui davvero puoi voltarti e non scorgere fino all’orizzonte un traliccio dell’energia elettrica, una linea asfaltata su cui corre un pick up che poi rivedi parcheggiato nei pressi di un orto recintato nel migliore dei casi con reti del letto. Le superstrade difficilmente vengono costruite direttamente interrate o anche con quei sistemi intelligenti con cui si progettano percorsi carrabili in solchi, e all’estero in cui invece sono tutte così non le noti ma ci sono, fanno la loro sporca figura, anzi no perché non si vedono, e in più non c’è nemmeno stato il bisogno di una dispendiosa operazione di talpe meccaniche. Giusto per metterla sull’analogia, ho saputo che per evitare matasse di tubi oggi l’oleodinamica preferisce utilizzare scatolotti con dentro canali bucati in cui passano i liquidi, non solo per ottimizzarne il flusso ma anche per questioni estetiche, oltre che ingegneristiche, scatolotti che si chiamano blocchi oleodinamici. Che poi è come, anziché tenere una statua in gesso, mostrare lo stampo se la statua in gesso esteticamente non vale granché.

Così sembra che l’unico ambito in cui non si badi alla bellezza è quello dove la bellezza è tutto, il che è paradossale. Pensate solo se in un posto come la Liguria autostrade e ferrovie passassero sottoterra, da ovest a est e viceversa. Il problema è che per quanto tu sia lungimirante certe cose non puoi certo immaginarle, figurati a investirci dei soldi. A Genova, anche solo trent’anni fa, come in tutta la regione, mica c’era il tempo che fa adesso. Per questo si è sviluppata come la vedete ora quando arrivate da Milano in macchina e vi sembra di passare nel tinello di quelli che vivono con l’autostrada così vicina che potrebbero chiedere la riscossione dell’attestato di transito. Chissà se era meglio bucare montagne, ai tempi della costruzione dell’autostrada non usava e oggi, invece, ci sono i vari NoTav che mettono tutto a ferro e fuoco. Ma poi il paesaggio, intendo lì nei dintorni di Genova, sarebbe stato una bellezza naturale?

Ci sono infatti le caratteristiche stratificazioni di edilizia residenziale sui monti intorno, quelle che davanti entri dall’ingresso come tutti e dietro invece passi dal tetto perché la via dopo il tornante è già salito quanto l’altezza del palazzo. E le complessità non finiscono qui. Lo sapevate poi che sotto al centro storico è tutta acqua? Un’amico che aveva rilevato un bar nei vicoli ha trovato sotto un dedalo di cantine medioevali tutte allagate dalle falde acquifere, le ha asciugate e ne ha ricavato un pezzo in più di osteria. Nel frattempo sono stati coperti torrenti che un tempo facevano ridere e oggi, con questo fenomeno della pioggia a target che somiglia un po’ ai bombardamenti in Iraq che dovevano essere al millimetro in modo da risparmiare la popolazione civile, oggi sono diventati corsi d’acqua amazzonici.

Questo per dire che la situazione è da prendere in mano ma con una certa solerzia perché ogni anno, di questa stagione, è la solita storia, non è solo una questione di mettere tappulli (come si dice da quelle parti a indicare un rimedio approssimativo ed efficace solo nell’immediato). Come vedete, con il clima che ci riserva il futuro le cose sono destinate a peggiorare e Genova, che è un mix tra una litografia di Escher e un fumetto di Mordillo, rischia davvero grosso.

arrivare prima serve anche per avere più tempo per riflettere

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Quando in autostrada ti superano con facilità furgoni e autocarri significa che sono passate le cinque del pomeriggio e la variegata umanità di muratori e operai dell’est europeo al soldo di imprese edili bresciane e bergamasche sta consumando il rito del tragitto di ritorno immersa in un abitacolo all’aroma di grappa o ammazzacaffè e sudore da fatica. Le due suddette province lombarde, per chi non lo sapesse, devono la loro fama proprio alla strenua applicazione nelle discipline delle costruzioni e dell’impiantistica accessoria dei loro abitanti, autoctoni e acquisiti. Ristrutturazioni, infissi, idraulica, edilizia tout court. Lavorano all’interno delle case, loro, mica come quei carpentieri ingaggiati alla giornata che stanno compartimentando il territorio a metri e metri di rete da cantiere arancione che aumenta in superficie di istante in istante. Sono pronto a scommettere che la lunghezza di tutta la rete posata nell’hinterland milanese raggiunge la misura dell’equatore terrestre, e vi sfido a percorrere un isolato in macchina di un centro abitato a vostra scelta senza vederne almeno un paio di metri. Rete messa a cazzo, che pende sempre da una parte o dall’altra, strappata e consumata dalle intemperie, che nessuno si prende la briga di rimuoverla a lavori finiti o quando un’impresa dichiara fallimento e non c’è verso che qualcuno rimetta a posto le cose com’erano prima di piazzare gru e betoniere. Comunque i furgoni e gli autocarri iniziano a superarti dopo le cinque del pomeriggio, sto parlando della Milano – Venezia, e la velocità di quei mezzi commerciali malgrado le quattro corsie spaventa un po’. Li aspettano bar a gestione cinese, stanze disadorne in cascine fatiscenti di paesotti in cui le luci dei videopoker restituiscono un’illusoria sensazione da led natalizi a chi del natale non se ne fa nulla, per di più in un contesto in cui il crocefisso lo mettono persino nelle officine dei meccanici al posto dei tradizionali calendari di Le ore. A me che non vado mai a più di centodieci all’ora, non per mia scelta, mi viene da sfogarmi con quel tic con cui ci si arrotolano le labbra che grazie all’arsura restano appiccicate alla gengiva all’altezza degli incisivi, sia il labbro superiore che quello inferiore, chiaro. Non so se lo fate anche voi ma deve trattarsi di una pratica diffusa tanto quanto rimuovere con la pipì le macchioline nei bagni pubblici. Tutti passatempi di evidente eclusiva maschile, chiaro. Quello delle labbra dà molte soddisfazioni soprattutto se praticato in auto, e chi ti osserva mentre ti supera può rimanere colpito dalla curiosa conformazione della bocca e dal sorriso deficiente che comporta. Così in fase di sorpasso, ti lancino uno sguardo di sopresa commiserazione come se fossi colpito da una grave malformazione fisica e probabilmente si scambiano anche qualche commento, ma questa fase successiva è difficile da cogliere. Vanno troppo veloci, almeno rispetto a me, desiderosi di rientrare a casa dopo una giornata interminabile di estenuante lavoro manuale.