se bello vuoi apparire un po’ devi soffrire

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In casa mia non mancano oggetti dal dubbio funzionamento ma dal design impeccabile, questo perché mia moglie ed io abbiamo il difetto di farci convincere dall’eleganza sacrificando poi la comodità. Questo perché entrambi abbiamo ottimi gusti. Soprattutto lei, visto chi ha sposato. Ma, battute a parte, si tratta di un problema che dovremmo affrontare prima o poi e che dovreste farlo anche voi, se come noi avete un’illuminazione inadeguata, per esempio, perché certe lampade molto belle non possono montare luci superiori a una determinata potenza che è sempre poca. Oppure se avete scelto un divano che sembra fatto con i lego tanto soddisfa l’estetica minimal-razionalista che va benissimo se ti ci sdrai al sabato pomeriggio dopo pranzo giusto per recuperare il sonno perso in settimana, ma che risulta un po’ meno accogliente se fai sedere quei rari ospiti che inviti a bere il caffè. Un problema che non sussiste se si è abbastanza abbienti da non sottostare ad alcun compromesso e avere le possibilità per scegliere sempre il meglio. Ma per chi, come me, non può certo avere tutto, vale quel principio secondo cui l’autore di un progetto, architetto o designer o artista che sia, dovrebbe poi vivere per un po’ di tempo negli edifici che ha pensato o utilizzando le sedie che la sua fantasia ha partorito. E la cosa divertente è che è una maledizione cui mi perseguita ogni mattina, quando sento il suono della sveglia che ho acquistato qualche anno fa in un negozio Habitat alla Défense parigina perché apparentemente aveva tutte le carte in regola per diventare la nostra sveglia di fiducia. Un parallelepipedo di plastica lucida rossa che parla; è dotata infatti di una voce femminile, ovviamente francese, che all’ora impostata ci avvisa che quello è il momento che abbiamo programmato, non possiamo più dormire, svegliati pigrone. Va avanti così finché non premo un tasto che però si trova sotto, quindi occorre sollevarla con una mano e premere il pulsante con l’altra. E già l’ergonomia lascia a desiderare. C’è anche un suono introduttivo alla vocina, che si può scegliere tra il cu-cu, una specie di cicala provenzale e il classico chicchirichì del gallo. Il pulsante che consente di scegliere quale suono impostare si trova tra quelli sotto la sveglia, a fianco di quello che serve per interrompere la suoneria. Quindi succede che imposti la sveglia sulla cicala, che è il suono meno invasivo, poi la mattina al buio e nella confusione del sonno interrotto anziché premere il pulsante per fermare la suoneria schiacci quello per cambiarne il timbro ma non te ne accorgi, quindi la mattina dopo è il gallo a svegliarti e vi assicuro che non è bello. Infine, giusto per punire la scelta superficiale fatta in fase di acquisto, capita che ci si svegli in piena notte e si voglia sapere che ore sono. Il display digitale non è illuminato quindi occorre accendere la luce. Ma se proprio proprio uno vuole sfruttare le funzionalità di quel prodigio di tecnologia, può premere un angolo del parallelepipedo schiacciando quindi uno dei piedini che attiva la vocina che ti dice che ore sono. La vocina in francese, e dato che non è che in famiglia lo mastichiamo proprio bene, l’operazione risulta inutile oltre che dannosa perché illude i gatti che è già l’ora. Che tra l’altro sono i primi a divertirsi a zompare sopra alla sveglia per far sì che il piedino si schiacci e si attivi la vocina con l’erre moscia. Vabbe’, questo è quanto. Era un po’ di tempo che volevo ammettere la mia colpa ma, chissà perché, poi ogni volta noto come sta bene sul comodino marrone scuro e alla fine perdono la fattura di basso profilo. Ah, dimenticavo, in un angolo, vicino alla marca, c’è scritto Made in China.

il tutto con adeguato abbigliamento di sicurezza

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Ci dev’essere una diminuzione della professionalità della forza lavoro su molti fronti, se per attività diverse e più o meno di concetto sono impiegate almeno due persone. Una che la esegue e l’altra che controlla, senza far nulla, che la consegna sia portata a termine nel più corretto dei modi e, probabilmente, nei tempi messi a preventivo. Un fenomeno a cui è facile assistere in strada: il manovale in tuta da fatica che spruzza il liquido che annulla gli effluvi di street art dei giovani ribelli suburbani e il suo diretto responsabile dietro, con le braccia conserte dallo zelo, intento a osservare il grado di cura con cui l’opera di damnatio memoriae si sta eseguendo. O il pilota dietro i comandi della macchina per schiacciare l’asfalto, che probabilmente ha anche un suo nome tecnico ma non è proprio il mio settore, che percorre in un senso e nell’altro la fresca gettata di materiale rovente e il geometra con le scarpe anti-infortunistiche su completo in misto acrilico che spera che il risultato dell’operazione sia il più compatto possibile.

E se hai un bar che dà sulla via che oggi ha le sembianze di un cantiere seppure temporaneo, e si spera, lo spettacolo non è nei ghirigori dei cappuccini, sulle prime pagine dei quotidiani free press, nei sorrisi all’orientale dei gestori o nella televendita su cui è sintonizzata la gigantesca tele appesa al muro. In piedi, sorseggiando un caffè, si guarda fuori il miracolo della specie umana impegnata a redimere il proprio habitat secondo i canoni di convivenza universalmente accettati. Una signora che preferisce consumare al tavolino armeggia con il suo smartcoso, lo spegne e lo riaccende a ripetizione memore della regola numero uno dell’uso popolare dei dispositivi elettronici. Alla fine ha vinto la macchina sull’uomo, perché la si vede arrendersi e avvolgere con rassegnazione gli auricolari intorno al telefono e a riporlo in borsa.

Ma è la coppia di colleghi che sta scegliendo la farcitura del cornetto a rubare la scena, almeno per quanto riguarda i contenuti. “Non ho mai vinto niente in vita mia, nemmeno un gratta e vinci” sta raccontando la donna all’uomo che ha optato per una pasta con la crema. “Così ho partecipato a un concorso di Radio Popolare, hai presente?”. Lui non ha presente, vista l’espressione con cui risponde, tanto che lei si sente in dovere di fornirgli maggiori dettagli. “Ma sì, ci sono speaker troppo sfigati, e alla mattina presto fanno un programma di musica progressive. A me, tra parentesi, fa schifo. Ma si vede che ha pochi ascoltatori. Hanno indetto un concorso, in palio c’erano due biglietti per un concerto a Padova”. Lui interviene dopo il primo sorso di latte macchiato. “Non dirmi che hai vinto tu?”. E lei tutta entusiasta: “Sì, li ho vinti io! Il concerto è degli Area e del Banco del Mutuo Soccorso, i biglietti costavano sessanta euro. Ma so già che alla fine spenderò un casino per un viaggio per andare a vedere un concerto di musica che non mi piace, non so nemmeno chi siano quei gruppi”.

D’altronde, cosa non si farebbe per essere protagonisti, anche così di striscio. A chi non verrebbe la voglia di essere toccati dalla fortuna lì, nello stesso bar dove si ritrovano prima di una giornata di lavoro anche gli operatori di un noto network televisivo e sparano aneddoti a ripetizione sui conduttori di un reality di punta come se quello fosse il vero terno al lotto, godere dello strascico della notorietà altrui. Ma è facile tornare con i piedi per terra. Dal portone carrabile a fianco dell’esercizio pubblico esce uno squilibrato sbraitando improperi contro un avversario che vede solo lui. L’uomo ce l’ha proprio a morte, i passanti si spaventano e cercano riparo proprio nel bar mentre gli avventori escono fuori incuriositi dalle grida a vedere che succede. Il folle che ha l’aspetto assai trasandato veste un maglione di taglia molto abbondante, che gli ricade sulle spalle mettendo in evidenza l’estrema magrezza, accentuata anche dal viso scavato, la barba non lunga ma incolta e i capelli appiccicati sulla fronte. Un tizio, con la tazzina in mano, rientra nel bar e ragguaglia un amico, che è rimasto dentro, su un particolare importante. Quel maglione di lana a grani grossi e a righe orizzontali grigio e nero, era molto popolare negli anni ottanta. Lo si indossava quando ci si voleva dare un tono di autorevolezza e mettersi qualcosa di più elegante rispetto all’abbigliamento preferito, nessuno avrebbe mai detto allora che sarebbe potuto diventare un capo da dress code di risulta. Si ricorda di averne avuto uno proprio così molto tempo prima, di averlo prestato a un amico che aveva freddo, una volta, e che non gli era mai stato più restituito.

sono o non sono i nostri migliori amici

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Ciò che differenzia noi umani dagli altri animali è la consapevolezza del tempo. Un’affermazione quantomai discutibile, potrei fare decine di esempi di strumentisti negazionisti dell’utilità del metronomo pronti ad astrarsi nella loro scansione matematica personale suscitata da aritmia, tachicardia o altre personali interpretazioni delle proprie pulsazioni di riferimento per mandare in vacca velleità collettive di successo. Ma, battute a parte, sia in senso musicale che in senso sistolico, circa la nostra capacità di orientarci tra un passato, un presente e un futuro c’è tutta una letteratura più autorevole di quello che ne penso e scrivo io e, soprattutto, molto più redditizia per gli autori che l’hanno prodotta a supporto della tesi di cui sopra.

E se a calcolare il divenire con l’unità di misura che tutti ben conosciamo siamo stati noi mi chiedo perché anche le altre specie non si siano date da fare in questo senso, e magari oggi non saremmo noi ad avere l’esclusiva di cose come Google Calendar. Non saremmo i soli dotati della capacità di sopportazione e controllo dell’attività dei succhi gastrici nella scansione del passaggio dalla notte al giorno in barba alle caffettiere con il timer che ci avvisano che anche oggi dobbiamo dare il nostro meglio. O cose meno prosaiche, come i musei antropologici con le registrazioni, dalla viva o giù di lì voce dei nostri bisnonni, delle tecniche per fabbricare il carbone nelle radure strappate alla vegetazione spontanea, lì sì che il tempo gioca un ruolo da protagonista, stiamo parlando di secoli, altro che quella manciata di giorni che ci separano dal venerdì sera e dal primo apericena della settimana. Voglio dire, dubito che un moscone si ricordi delle civiltà dei suoi avi una volta che poggia le sue zampette su qualcosa di esecrabile per noi, succulento per lui. De gustibus, si dice proprio così, ma stiamo parlando a uno stadio teorico perché sono essi, i non umani, che per primi non ci raccontano un po’ dei loro sogni nel cassetto, che nel caso di una tarma è più di un futile gioco di parole.

Ci è sufficiente utilizzare il nostro grado di evoluzione per stabilire una scala più o meno precisa dell’intelligenza degli esseri viventi con cui siamo costretti a condividere le risorse sempre più a rischio. In base a questa classifica di cui noi – sempre secondo il nostro punto di vista – deteniamo la posizione di vetta da molto prima degli scudetti del Genoa, ma almeno dalla scoperta di strumenti di business come il fuoco e il sesso avulso dalla riproduzione, possiamo stabilire chi è degno di farci compagnia. Animali non troppo feroci, che non pungono, fedeli e impegnativi quanto basta, in grado di suscitare tenerezza che poi è uno degli elementi per i quali sussiste una perpetua lotta per le posizioni di Champions League tra cani, felini domestici e, per chi vive in aree non metropolitane, i cavalli. Certo, l’ideale sarebbe anche in grado di non pesare sull’economia domestica. Nessuno però potrà mai arricchire la famiglia in cui è ospitato con l’esperienza scritta nella mappa genetica di riferimento ma asservirà al nostro bisogno di comunicazione ad alto tasso di aleatorietà interpretativa in un eterno presente fatto di scatolette, bastoni da riportare, ostacoli da saltare con il dolore degli speroni nel fianco.

Poi ci sono quelli che ti dicono che non è vero, ci sono addirittura gli animali vendicativi che si ricordano se gli hai dato cibo acquistato nel discount e che quindi hanno una qualche attitudine alla sistemazione cronologica degli eventi. Io non ci credo, e come prova di ciò vi invito a dare un appuntamento a un esemplare di una specie qualunque che non abbia ancora scoperto l’utilità delle calze di lana in ufficio quando il riscaldamento non è ancora a regime, e poi a dirmi come è andata e, in caso di esito negativo, quale scusa ha addotto.

i-Pid

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Ed eccolo qui, signore e signori, il vero e unico indice di uguaglianza sociale. Quello in cui alfabetizzazione, scuola e cultura hanno fallito clamorosamente. Nemmeno i mass media e la loro diffusione nelle case sono riusciti a mettere così sullo stesso piano persone di estrazione sociale altrettanto remota. Si tratta di un fattore che unisce tutti, dai più ricchi ai più poveri, da chi è dotato di strumenti a chi non sa nemmeno come sono fatti o non sa come si suonano. Un fenomeno che riguarda indistintamente italiani di ogni latitudine, meridionali trapiantati al nord e veneti che vivono al sud. Stranieri alla seconda o terza generazione e clandestini appena sbarcati nei cantieri dell’edilizia tutta in nero. Figli di operai e rampolli della borghesia dei quartieri alti. Leghisti e grillini. Famiglie di intellettuali e avventori dei fast food, proprietari di Suv e radicali ecologisti, timorati di Dio e venditori porta a porta di pubblicazioni marxiste-leniniste. Tutti, insomma, un giorno o l’altro notano quel gesto inequivocabile dei loro piccoli, il rapido portare una mano alla nuca e la vigorosa conseguente grattata che, ai veterani della pediculosi, fa sentire forte e chiaro uno scampanellio altro che d’allarme.

Già, è proprio così. Se nel secolo scorso i pidocchi erano un’esclusiva delle classi meno abbienti, oggi i parassiti più temuti dalle famiglie con figli nell’età della scuola primaria non guardano in faccia, pardon, in testa a nessuno. Probabilmente le attuali generazioni di pidocchi rispecchiano tutti i cambiamenti a cui il genere umano è stato soggetto negli ultimi anni. Il clima, le mezze stagioni, il buco dell’ozono, la globalizzazione, il signoraggio, la massoneria e anche le scie chimiche. Tanto che oggi toglierli di mezzo è un’impresa che ha dell’impossibile. Gli esemplari sopravvissuti ai trattamenti e alle soluzioni finali, naturali prima, velenose dopo e velenose ma revitalizzate naturali dalle più moderne strategie di marketing di prodotto oggi hanno dato vita a un stirpe di bestiole che non conoscono ostacoli. Anzi. Saltano allegramente dai capelli puliti a quelli sporchi, dal cuoio capelluto più traspirante a quello più forforoso senza distinzione. Corti, ricci, con le trecce o, peggio, con i dreadlock. Biondi, rossi, corvini. Si annidano in qualunque habitat cutaneo mentre i nostri figli sono a scuola, fanno taekwondo, seguono lezioni di basso elettrico o imparano la dottrina cattolica apostolica per ricevere i primi sacramenti. Quando studiano, mentre dormono. Alle feste di compleanno, durante i pigiama party, sulle attrezzature ludiche negli spazi outdoor. Spiaccicano le loro schifezze sui divani mentre i piccoli ignari vengono rapiti dai cartoni animati preferiti, e da lì si diffondono a tutti, famigliari di ogni età. Donne, vecchi, papà, fratelli.

Così, care coppie in procinto di formare una famiglia più o meno duratura, sappiate che la decisione se avere zero o più figli e i pro e i contro che ognuna delle opzioni comprende, da qualche tempo non può non tener conto di questo flagello che sta tornando prepotentemente alla ribalta. Senza prole in casa si riducono drasticamente le possibilità di trovarvi, indipendentemente dal vostro ceto di appartenenza, un bel giorno di qualsiasi stagione la testa maculata dalle lendini e da queste ignare creature – ignare del disagio sociale ed economico che arrecano. Il costo di un trattamento, oggi, è tutt’altro che irrilevante e chissà se ci si può fidare dei prodotti studiati per “creare un ambiente sfavorevole”. Sta di fatto che quando ero bambino io non ricordo nemmeno un episodio. Ora si era già in pieno allarme da invasione addirittura prima dell’anno scolastico. E il sentirci tutti prescelti per un comune obiettivo, garantire la prosecuzione della specie di minuscole quando discutibili creature, non ci fa sentire meglio.

qualcosa di te

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Aprire una busta o un pacco e trovare dentro un brandello umano è stato uno dei miei peggiori incubi durante l’infanzia. Chi è cresciuto negli anni settanta non ha avuto certo di che annoiarsi in quanto a paure suscitate dai fatti di attualità, e l’idea di quella macabra corrispondenza in transito sopra le nostre teste o mescolata alle comuni cartoline delle vacanze nei vagoni postali mi faceva rabbrividire. C’era anche il terrore che qualcuno mettesse una bomba nel portone, o di trovarsi coinvolti in una rapina a mano armata. Tutto merito del telegiornale all’ora di cena che è stato per almeno quindici anni un bollettino di guerra e che ci faceva vedere facce poco rassicuranti di ricercati, terroristi e delinquenti comuni che rilasciavano dichiarazioni ai giornalisti o dalle sbarre delle gabbie durante i processi, il che dava l’impressione che comunque la cosa non finiva lì. Poi gli animi più sensibili si portavano quelli come ultimi ricordi prima di addormentarsi, quindi potete immaginare che cosa il subconscio infantile era in grado di sceneggiare una volta spenta la luce.

Ma quella dei pezzi tagliati ai rapiti per dimostrare la veridicità del gesto mi aveva impressionato quasi più dello sguardo cinico di gente del calibro di Mario Tuti o Guido Giannettini. Il sequestro di persona è stata un’attività criminale che ha avuto una diffusione molto ampia in quel periodo, ora non ho dati alla mano ma per quello che mi ricordo tra il banditismo, i gruppi terroristici e la delinquenza organizzata era un continuo rapire persone a scopo di estorsione. Oltre a De Andrè, uno degli episodi più noti è stato quello di Paul Getty, o meglio John Paul Getty III, il nipote dell’omonimo petroliere americano rapito dalla ‘ndrangheta nel 1973. Come ricorderete, per spingere la famiglia a pagare l’oneroso riscatto, i sequestratori mozzarono un orecchio all’ostaggio e lo fecero pervenire alla famiglia, una pratica oltremodo barbara che, alla luce poi di molti altri cruenti episodi accaduti, non fu nemmeno una delle cose più crudeli perpetrate all’opinione pubblica, oltreché alle persone coinvolte.

Ma quello che mi sconvolse di più fu la foto di Paul Getty dopo la liberazione, mostrata con indifferenza alle otto di sera a grandi e piccini. Il profilo menomato dell’uomo trasferiva tutto il senso della libertà individuale interrotta con la violenza e la costrizione, il che potrebbe suonare strano tra notizie assai più forti come la guerra in Vietnam, le stragi, i conflitti tra stato e gruppi armati. Ma i bambini più semplici, come potevo essere io, non hanno quella sensibilità globale di pensare così in grande. Il perimetro domestico è lo spazio da difendere, l’internazionalismo e la solidarietà collettiva sono concetti troppo evoluti per una coscienza immatura. Confessai questa fobia a mia mamma, le dissi anche che avevo una giustificata convinzione di poter temere il mio rapimento. Lei mi rassicurò sul fatto che le persone poco abbienti come noi non avevano nulla da temere. Nessuno rapisce qualcuno se non c’è la possibilità di ottenere miliardi, mi disse, noi siamo fuori pericolo, non ti devi preoccupare. Che fortuna essere poveri, pensai. Ed ecco, vorrei sbagliarmi, ma quella è stata, credo, l’unica volta.

in tutto fa novanta, come la paura

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C’è questa coppia di amici in cui lei e suo marito sono bene assortiti in quanto a combinare disastri. Lui è quello che ne fa tanti e dalle conseguenze brevi ma molto fastidiose. Il classico bicchiere di vino rovesciato sulla tovaglia pulita, lo strappo nel sacchetto della spazzatura che raccoglie cose tipo due giorni di lettiera dei gatti e/o l’organico con gli avanzi del pesce alle 8.14 del mattino quando alle 8.15 li aspetta la compagna di classe di loro figlio e relativa mamma in auto per andare a scuola. Cose così, che magari poi uno ci ride sopra e se ne dimentica già la sera stessa ma magari nel momento topico in cui accadono alimentano quello che si dice un giramento di scatole e conseguenti imprecazioni contro la sbadataggine, la distrazione, la testa l’hai lasciata in ufficio, hai le mani di ricotta per non dire di peggio e via così. Questo succede in ogni famiglia, e posso dar loro la conferma, in prima persona, che non si tratta dell’unico esemplare di marito goffo al mondo e che può contare sulla nostra solidarietà.

E il bello è che alla moglie invece non cade mai nulla di mano e ha quello che si dice il controllo totale dei propri movimenti uniti alla consapevolezza dello spazio occupato, è sempre sul pezzo e quindi potete immaginare se anche voi siete così controllati cosa significa avere sposato uno che vi cammina dietro e vi calpesta con il piede la pianta dell’infradito facendovi inciampare oppure situazioni paradossali come ciò che mi hanno raccontato essere successo proprio qualche sera fa. Entra una cimice in casa e si posa su una parete. Lui afferra un tovagliolino di carta da tavola – stavano cenando – e lo appoggia sopra la cimice per poi catturarla e portarla fuori. L’uomo sente qualcosa sotto il tovagliolino, pensa di avere in scacco l’insetto, appallottola la carta e tira via il tutto ma la moglie gli fa notare che la cimice è rimasta sul muro. Eppure lui sente qualcosa in mano, e quel qualcosa era una fetta di pomodorino che prima stava su una pizza che il figlio, non gradendo, aveva scartato dal piatto e posato lì. Così oltre a non aver preso la cimice, lui ha anche macchiato di pomodoro la parete. Nel frattempo la cimice è volata in un altro punto più in alto e così l’operazione di caccia si è complicata. Bambini non provate questo a casa: avete capito il soggetto, insomma.

Lei è vittima e artefice invece ad altri tipi di inconvenienti, magari uno a trimestre anziché tre o quattro al giorno come a lui. Ma l’entità non è proprio la stessa. Una volta ha fatto un prelievo al bancomat piuttosto consistente, poi le è squillato il telefono e ha lasciato i soldi lì. Per fortuna che se lì è rimangiati lo sportello automatico, è bastata una telefonata e glieli hanno restituiti. Attiva il forno e la lavatrice in contemporanea – ecco, questo dice di essere la sua specialità – così salta il contatore che si trova in un locale al livello delle cantine, per cui poi il marito deve cercare la torcia per cercare la chiave del locale contatori, mettersi le scarpe e uscire per riattivare l’erogazione di elettricità. Questo è successo una volta di troppo, e il black out conseguente ha fatto saltare il router senza ritorno e così ora sono anche senza telefono e Internet (ah, mi chiedono di ringraziare pubblicamente un certo Pino-DLink per non aver protetto la sua connessione wireless). Il top forse è l’aver superato il limite di velocità in un punto di una superstrada dove qualche giorno prima era stata posizionata una telecamera per il controllo. E quella è la strada che percorre per recarsi al lavoro, ogni giorno. Proprio qualche giorno fa ha ritirato le prime due multe, quella dell’andata e quella del ritorno di uno stesso giorno feriale pre-vacanze di agosto, una bella somma con tanto di punti patente. Ovviamente sperano che non ne seguano altre, perché potrebbe essere un guaio. Anche su questo fronte li rassicuro, ho raccontato di quella volta in cui mia moglie si è tuffata in mare con la macchina fotografica in mano, non ricordandosi di averla con sé, tanto che si è ossidata e abbiamo dovuto buttarla via. Sono cose che succedono, dico loro, l’essere complementari è a detta di tutti una fortuna sfacciata.

ti ho visto in piazza

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Credo che gli studenti che sono scesi in strada a manifestare contro la scuola, il governo, le banche, i Monti e i Fornero dovrebbero cambiare oggetto della protesta e manifestare principalmente contro i loro genitori, rei di aver favorito, approvato con il loro consenso oppure non essersi opposti con sufficiente convinzione a scuola, governo, banche, i Monti e i Fornero. Il vero colpevole di quello che  ha cancellato il loro futuro, anche se a quell’età è difficile distinguerlo in una indistinta nebulosa con tanto di scia chimica dietro, si annida tra le loro stesse mura di casa e va ricercato negli scontrini mai richiesti o mai stampati, nei sotterfugi per evitare quella o quell’altra tassa, nelle mappe degli Autovelox che, una volta superati, si pigia sull’acceleratore e via, nei modelli di consumo e tutto quello che hanno generato, nella cultura che attraverso le loro scelte e non-scelte hanno fatto sì che si diffondesse. Un vero e proprio sistema che poi sì, ha prodotto la scuola a cui si ribellano, il governo, le banche, i Monti e i Fornero di conseguenza. Ecco cosa mi piacerebbe sapere: tutti quegli studenti che sono scesi in piazza, tornati a casa, che cosa hanno trovato.

station to station

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Gli uomini, a differenza di noi, pensano solo quando sono sotto stress. Lo dice una donna a una sua amica, entrambe al mio fianco, che sino a poco fa si lamentava del fatto che il suo fidanzato, che da queste parti si dice moroso, non ne vuole sapere di sposarla senza l’urgenza di una gravidanza. Si tratta di una tematica che ha invaso la mia attenzione spostandola dalla storia di cui ero spettatore, anzi lettore, fino a pochi istanti prima. E non me ne voglia la mia casuale compagna di viaggio se l’interesse è di molto inferiore e sono capitato su quelle parole forzatamente, visto anzi sentito il volume alto della conversazione. Aggiungerei che penserebbero di più, gli uomini, se non fossero distratti da discussioni un po’ così. E a dirla tutta sui due piedi, visto che di posti a sedere non se ne vede nemmeno mezzo, anche io troverei scuse su scuse per non sposarla.

In più, malgrado lo spazio a disposizione – per darvi un’idea sono costretto a reggere il mio libro a pochi centimetri dagli occhi con tanti saluti alla mia presbiopia – la donna gesticola per evidenziare con scie invisibili quel concetto. Le due mani parallele ravvicinate a rappresentare un’idea di chiusura, di scarsa lungimiranza, un contenitore tridimensionale che, sebbene tutto da immaginare, mette claustrofobia. Ma io lo vedo che si tratta di uno sfogo del momento, gli scioperi dei trasporti creano disagio e catalizzano la rabbia degli utenti nel privato più di ogni altra cosa. Famigliari, colleghi in ufficio, sempre che in ufficio ci si arrivi, e soprattutto compagni di sventura. La solidarietà di classe è un concetto morto definitamente con Hobsbawm qualche giorno fa, il filo che esce dagli smartphone e si inabissa nelle orecchie degli individui poi prosegue verticalmente invisibile verso altri output ubicati chissà dove. Dietro una tv, un decoder, un personal computer pronto a dare battaglia al mondo con commenti sgrammaticati su social media. Non c’è quindi un legame orizzontale, quella prospettiva di occhi e di orgogli che muoveva il quarto stato verso la riscossa sociale nella celebre iconografia dei primi del novecento. Oggi sarebbe ancora più semplice con un collegamento wireless o bluetooth per la condivisione dei moti. Ma non funziona più. La gente è solo gente quando è a casa propria.

Poi però mi attira l’attenzione una signora che, seduta, registra una serie di attività in programma a penna su un’agenda. Non sono uno di quelli che sbirciano, neh. Però leggo che il giorno prima, per due volte, una la mattina e una il pomeriggio, ha avuto qualcosa a che fare con Giulio Coniglio, il celebre roditore antropomorfo disegnato da Nicoletta Costa. Mi chiedo perché uno debba scrivere proprio così, Giulio Coniglio, su un’agenda come se si trattasse di un doppio appuntamento da marcare e ricordare. Quale sarà il vero significato? Una comunicazione in codice? Deve essere un segnale, non c’è dubbio.

Poco dopo tutti fuori, almeno fino qui siamo arrivati. Ci sono alcune stazioni in cui la coincidenza non è prevista. I convogli che vanno in una direzione partendo da lì non sono tenuti ad aspettare obbligatoriamente gli altri convogli in arrivo dalla direttrice opposta. Cioè, se il treno è in orario, i passeggeri riescono a prendere quello che gli consente di proseguire. Ma i ritardi sono frequenti, non è una novità, e in quel caso è lecito prendersela con il sistema che istituzionalizza questi disguidi a scapito degli utenti. E in un periodo come questo, in cui la gente è esasperata e si lancia sotto le saracinesche per non perdere l’ultimo metrò, dove magari ci fosse una ressa analoga per un film di Truffaut, secondo me è meglio muoversi con lauto anticipo, una procedura che io adopero normalmente perché con i mezzi pubblici non si può mai sapere. Per questo mi stupisco poi dell’insoddisfazione verso il servizio ricevuto, il linciaggio morale e fisico di autisti, macchinisti, controllori e personale vario. Si chiama sciopero. Serve per comunicare un malcontento. Siete avvertiti. Se avete un appuntamento all’ora x, agite di conseguenza con tutte le misure precauzionali prevedendo tutto quello che vi può succedere.

E accade anche che il tono metallico degli annunci dall’altoparlante rimandi da una parte all’altra della stazione. Bisogna tirar su zaini, ventiquattrore e in alcuni casi trolley e risalire le scale, mobili e immobili, e spostarsi ad almeno cinque binari di distanza. Che è anche questa una metafora perché se il convoglio definitivo ti ha atteso ti viene da ringraziare chi ha avuto la testardaggine di farlo nella vita e nei tuoi confronti, anche se magari prima non ti voleva sposare perché non c’era un nascituro di mezzo o perché vivi in un mondo tutto tuo, fatto di personaggi inventati per la letteratura infantile e prendi appuntamenti con amici immaginari. Perché poi l’esperienza fa crescere. Tutti e senza distinzione.

cattivissimi loro

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Se come me siete fortemente skillati (è inutile che inorridiate, chissà quanti abomini linguistici riuscite a produrre anche voi sul vostro posto di lavoro) in cartoni animati, un’esperienza maturata se non altro perché i vostri piccoli despoti tengono in scacco l’unico apparecchio televisivo in casa e da quando, come me, siete genitori avete subito il bombardamento di film d’animazione e a furia di vederli a ripetizione conoscete le battute a memoria, vi ricorderete certo la scena introduttiva ma anche le successive del malvagio – solo all’inizio, ma questo è uno spoiler – protagonista di “Cattivissimo me” quando sfoga il suo istinto malvagio contro i più deboli, come il bambino con il palloncino. Ecco, nel giro di due giorni leggendo i casi del padre che ha coperto il ragazzino autore del furto dell’iPhone al bimbo vittima di un incidente stradale, e oggi del dirigente pubblico che taglia le gomme al disabile reo di aver parcheggiato la sua vettura al posto cui aveva diritto dove invece il manager usava lasciare la sua Jaguar, due episodi di una cattiveria talmente gratuita da rasentare l’osceno, il grottesco Gru mi è venuto in mente ben due volte. Perché sembrano episodi inventati per far ridere gli appassionati di humour nero se non fossero invece terribilmente veri e grondanti di un cinismo inaudito. Potremmo fare una gara e pensare ad azioni sempre più gravi nel loro paradosso di voler colpire la debolezza, la disabilità, l’inerzia totale se non, come è successo, la morte. Ma ci sono elementi pornografici che secondo me superano la realtà dei fatti. La Jaguar e l’iPhone, il lusso nella tragedia, la tecnologia raffinata come scenario dello squallore. Fateci spazio, sembra essere la morale di tutto questo dalla voce dei costosi prodotti. Annientatevi a vicenda e lasciateci il posto, solo noi sopravviveremo alla vostra estinzione.

ti passo a prendere

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Quando ti trasferisci da Genova a Milano o, diciamola tutta, dal centro della prima alla periferia della seconda, la vera cosa di cui senti la mancanza non è tanto il mare (vedo già la folla con i forconi e le torce qui sotto) quanto la diversa destinazione d’uso degli spazi comuni. Che detta così non significa nulla, perché quello che intendevo è che qui, a Milano o meglio nella periferia povera in cui mi sono spostato, manca completamente il concetto di “esco a fare due passi”. Ci siamo capiti, vero? Si tratta di un problema  che può essere affrontato sotto due punti di vista. Quello della geografia diciamo urbana, in prima istanza, e quello della geografia umana. Ma se siete un po’ avvezzi con entrambe le discipline converrete con me che poi le due cose vanno a coincidere, o per lo meno l’una influenza l’altra.

Ma facciamo un passo indietro. Che cosa intende, il genovese, con la locuzione esco a fare due passi? La passeggiata è una componente fondamentale della giornata di ogni abitante del capoluogo ligure, perché si può ingannare il tempo, rilassarsi all’aperto o anche solo sgranchirsi le gambe e prendersi una pausa gironzolando per la città, per il centro storico, al Porto Antico o in Corso Italia fino a Boccadasse e Vernazzola. O dare un’occhiata alle vetrine in Via Luccoli, ora è tanto che non vado e non so se la crisi degli esercizi commerciali ha sostituito anche lì le insegne storiche con le cineserie che si vedono da queste parti, fare la spesa negozio per negozio a seconda di quello che vuoi preparare per cena. “Vado a fare un giro”, si dice così e poi si prende la porta e via. Questo per dire che c’è la volontà da parte degli abitanti di occupare parti della giornata in questo modo e che, dall’altra parte, c’è una – diciamo – struttura ricettiva dei desideri delle persone piuttosto all’altezza, ovvero spazi comuni destinati anche all’uso efficace dell’ozio, sempre inteso alla latina.

Poi un giorno ti sposti a Milano per una serie di motivi che potete immaginare. Qui è diverso, perché mi sento spesso dire che “esco a fare due passi” non fa parte degli hobby di nessuno, tanto meno dei bighelloni solitari. A nessuno viene in mente di andarsi a fare un giro. Ora non so se sia così per chi vive in centro. Di fatto, qui in periferia sfido chiunque a volersi rilassare in questo modo. Gli spazi comuni sono adibiti a un uso principalmente di spostamento finalizzato: da casa all’ufficio, dall’ufficio all’Esselunga, dall’Esselunga a casa. Perché, a dirla tutta, non è che qui ci siano scorci tali da invogliare alla passeggiata. Forse perché non ci sono punti più alti rispetto ad altri, e la pianura è monotona per chi cerca la contemplazione dei panorami. E poi l’urbanizzazione delle periferie è quasi  tutta a misura di mezzi di trasporto privati e commerciali, al massimo le piste ciclabili, ma per chi cammina c’è ben poco. Gli unici che incontri a piedi che non vanno da nessuna parte sono quelli che corrono per fare un po’ di sport, quindi in realtà stanno andando da qualche parte. Cercano di superare loro stessi per poi ritornare a casa. Quelli che invece incontri e stanno camminando rimani meravigliato di vederli lì su un cavalcavia della tangenziale, in bilico su un marciapiede che non usa più nessuno e nessuno, di conseguenza, lo aggiusterà mai. E se hanno detto a qualcuno “vado a fare due passi”, potrebbe anche esserci sotto un motivo serio. Lo dicessero a me mi preoccuperei.