da cosa nasce cosa

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A vedere bene come le stanno le cose c’è solo un dettaglio che stona tra i partecipanti alla riunione. Il dettaglio sono io perché sono l’unico che tra tutti non ha la cravatta. E meno male che sono lì seduto al tavolo già da un po’ e da prima che arrivassero gli altri, io sono uno di quelli che si presenta con abbondanti quarti d’ora di anticipo senza contare che sono anche quello che guadagna meno – questo in tutti i contesti professionali a cui sono stato invitato a partecipare per fornire il mio apporto – e che ha un’importanza come si suol dire meno business critical o strategica, fatto sta che gli altri che sono professionisti che contano arrivano alle riunioni quando cazzo pare a loro. Ma con la cravatta.

Dicevo che meno male per tutti questi motivi che ero seduto al tavolo quando sono entrati tutti gli altri perché altrimenti si sarebbero notati i miei pantaloni di una marca non-marca acquistati al supermercato e le snickers non-snickers, quelle sì di marca ma che dimostrano tutte le cinque o sei doppie stagioni che hanno trascorso ai miei piedi deformi. Essendo scarpe né troppo calde né troppo fredde rendono il loro onesto servizio nei periodi intermedi, prima dell’estate e prima dell’inverno, quindi in due occasioni per un totale di un paio di mesi l’anno come minimo. Quella che una volta veniva chiamata mezza stagione e che oggi, e non sono l’unico a sostenerlo, non esiste più. Nemmeno qui dove una volta era tutta campagna.

E in quell’ambiente di lavoro che è irrimediabilmente maschile perché dall’amministratore delegato all’ultimo dei commerciali si perpetua una tradizione che vuole nell’ICT quello un po’ babbione, molto b2b e per nulla consumer ma fatto di gestionali e business intelligence soltanto vertici virili e donne relegate al centralino, alla reception, al segretariato e al supporto marketing che è addirittura più segretariato di quello che prevede la prenotazione di voli e alberghi per la trasferta e l’acquisto dei regali di anniversario di nozze per le mogli dei manager. In quel meeting di poteri trasversali il fatto che ci sia un fornitore per giunta vestito da sfigato come me crea una funzionale valvola di sfogo dalla quale far defluire le tensioni in cui si manifestano le prove di forza tra colleghi, la versione incravattata di una rissa da angiporto dove al posto delle testate sul naso ci si colpisce a dati di fatturato per settore aziendale. E meno male che quello che poi io dovrò trasmettere all’esterno in belle parole di quel ginnasio di competizioni è che la società con il nuovo corso è una. Anzi, uan, come dicono loro agli investitori.

Ecco, questo è il quadro ed è descritto così apposta per far sì che le vostre simpatie vadano per l’unico senza cravatta (la camicia però ce l’ho, sia chiaro, in cotone fair trade della Coop comprata al cinquanta per cento nei saldi e pagata dodici euro e rotti) la cui partecipazione al consesso in oggetto è a dir poco superflua. E cioè me. Il vostro beniamino. Ma mentre sono lì e nessuno sembra dare molto peso alla mia casualfridayness penso a come starei conciato così, così come quelli per l’ascolto dei quali percepisco uno stipendio, perché non riesco proprio a trovare tra tutti quelli che vedo lì raccolti uno stile a cui potrei adattarmi. Con il mio fisico poi.

Quello meno peggio – secondo i miei canoni fermi al parka, jeans e anfibi – è seduto di fronte a me, ha uno spezzato con pantalone grigio scuro, giacca di una trama grigio chiaro-bordeaux, cravatta bordeaux su camicia classica azzurra e francesine testa di moro. Ecco, penso, domani vado dove so io e mi compro un abito così, di sicuro non sfigurerei in un ambiente come questo. Perché una volta era così. Da ragazzi ci si vestiva in un modo, da adulti in altro e non c’erano punti in comune e quando c’erano era perché c’era qualcosa che non andava. Ora non è più così, almeno nei posti come questi in cui non c’è nessuno che me lo fa notare.

Poi la riunione finalmente si conclude, e si interrompono le sfide subdole tra chi vuole mantenere il proprio spazio e le provvigioni a cui ha fatto presto ad abituarsi. Tutti si involano perché il loro tempo è più prezioso del mio, la sala resta vuota e posso alzarmi senza vergognarmi di quel campionario del mio guardaroba perché sono rimasto solo. Raccolgo quelle poche cose che ho usato per far finta che le posizioni che gli altri sostenevano erano di mio interesse, mi faccio restituire il documento di identità dalla receptionist e già varcata la porta di uscita capisco che acquistando uno spezzato come quello che ho visto prima non risolverei nulla, perché dovrei averne almeno due, avere un ricambio per quando uno è da portare in tintoria. Già, la tintoria.

la spalla e il protagonista

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Temo che sia riduttivo ricordarsi degli altri solo per un particolare. Può essere considerato invece encomiabile lo sforzo di associare un particolare a una persona che si conosce superficialmente, così, per dargli un po’ di importanza quando la si incontra e far sì che l’altro si senta ricordato. Si tratta di un sistema però molto delicato e potete immaginare il perché. Intanto occorre essere dotati di una memoria di ferro, e già questa griglia di partenza taglia fuori una nutrita percentuale di persone, il sottoscritto compreso. Collegare sempre tizio alla sua peculiarità è un mestiere, come si dice dalle mie parti, che poi magari non è la sua caratteristica principale, quella che sanno tutti, ma un dettaglio che ci ha colpito quella volta in cui siamo scesi più in confidenza con lui perché c’erano tutte le condizioni giuste per sbottonarsi un po’. E qui non è detto che se uno ti svela qualcosa di riservato poi tu glielo rimetti costantemente sotto il naso ogni volta che lo incontri. Non sta bene. Magari poi si trova in compagnia di qualcuno che è all’oscuro di quel segreto e ci si fa una figura discutibile. O magari hai rivelato qualcosa di te, non necessariamente gonfiandola un po’, che tanto chissà quando ci rivedremo e poi te ne dimentichi e passi per quello che millanta le sue prodezze, il solito fanfarone che chi si crede di essere.

Ma a parte casi limite come questo, è ovvio che le nostre figure sociali siano attorniate da un’infinità di comparse, alcune ricorrenti altre meno, e per questo bisogna stare all’erta se ci viene da fare i giovialoni con tutti. Si tratta di un ruolo che, se lo interpretate, è a vostro rischio e pericolo. C’è un tizio che incontro non più di due o tre volte l’anno, quattro o cinque nei periodi di punta, con il quale ci diciamo sempre le stesse cose e l’approccio reciproco verte su un aspetto che ci ha accomunato quando ci siamo conosciuti, la prima volta. Lui, che è il papà di una compagna di classe di mia figlia, gioca in una squadra di rugby amatoriale e, nel corso di un incontro non tanto amatoriale, gli è successo non ricordo esattamente cosa alla spalla ma si è fatto abbastanza male da stare qualche settimana a casa dal lavoro e da interrompere l’attività para-agonistica per un bel po’.

In quello stesso periodo io avevo avuto seri problemi alla schiena dovuti alla mia struttura fisica di ispirazione cubista e alla scarsa propensione di mia figlia all’uso di mezzi di locomozione a spinta. E abbiamo rotto il ghiaccio in occasione di non so quale riunione dei genitori. Lui con la spalla vistosamente fasciata, il con l’andatura da simbolo <. Ci siamo raccontati le reciproche disavventure – di certo le sue più nobili ed epiche delle mie – e ci siamo scambiati, a fine serata, qualche consiglio su come evitare futuri problemi con il nostro corpo. Ed è stato edificante rivederci qualche mese dopo, lui in fase di guarigione grazie a una efficace fisioterapia e io rimesso in sesto da un plantare, qualche seduta da un osteopata e una serie di incontri di rieducazione posturale e attività fisica appropriata. Tanto che da allora, oramai archiviate quelle cause di immeritata sofferenza, quelle poche volte direi a cadenza quadrimestrale in cui ci troviamo come è accaduto ieri nel tardo pomeriggio, scambiati i saluti e la stretta di mano, è lui che mi scruta come a leggere un codice che lo rimanda all’argomento di dialogo consono alla mia persona e mi chiede senza tanti preamboli come va la schiena. Che è carino da parte sua se non fosse che la penultima e la terzultima e la quartultima e la quintultima volta in cui ci siamo visti il mio problema alla schiena era già stato (fortunatamente) risolto con successo e, di tutto ciò, ne è stato messo al corrente in ogni occasione utile.

Così vinco la tentazione di cambiare versione ogni volta perché fondamentalmente sono una bella persona e non voglio approfittarmi degli altri e lo ragguaglio sulle cose che dovrebbe sapere già. E gli chiedo come va la spalla, anche se non ricordo mai se è la destra o la sinistra. Lui la muove simulando un passaggio della palla ovale per farmi vedere che gli piacerebbe poter dire che si è ripreso alla perfezione, ma è lì che fa un’espressione insoddisfatta. E mi racconta dei benefici della fisioterapia e di quel ciclo a cui si sottopone, che però non è mai terminato finché squilla un telefono, bisogna andar via, c’è qualcuno che si intromette, e l’occasione – che non ho ancora capito di che occasione si tratta – finisce così e sarà per la prossima, ne sono sicuro.

l’erba non voglio cresce copiosa nel giardino del tiranno

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È una delle prime affermazioni che mia figlia ha imparato a dire con convinzione perché addirittura all’asilo nido le educatrici hanno insegnato a lei e a suoi compagni a far valere così la volontà individuale in risposta ai soprusi dei coetanei. Fin dalla tenerissima età le linee guida sulla gestione della conflittualità interpersonale sono state molto chiare: non si deve spingere sull’acceleratore e rischiare la deriva violenta. Se qualcuno cerca di rubare la palla, dà uno spintone, fa una pernacchia, canzona uno scivolone altrui o altre angherie del genere, la vittima, anziché reagire con altrettanta veemenza , deve opporsi solamente con la propria convinzione verbale. “Non voglio!”. Nessuno strattone, nessuna resistenza, mani e piedi a posto, lingua e parolacce a freno, ma solo la certezza nello sguardo e in due laconiche parole che nessuno potrà fare qualcosa a cui si è contrari. “Non voglio!”.

E ciò mandava in estasi noi neo-genitori perché vedevamo crescere l’autopercezione e la difesa dei propri spazi in quelle piccole creature alle prese con le prime esperienze nel gruppo dei pari. Pronti a giocare insieme, a ritagliarsi i momenti di decompressione in solitudine, ad accettare o imporre regole e a dire di no quando lo si trovava appropriato. Il “non voglio” suonava come una parola magica, un incantesimo grazie al quale i nostri figli potevano attivare una sorta di barriera protettiva secondo circostanza, un superpotere contro il prossimo in quella parte della giornata che proprio a causa dell’organizzazione della vita di noi grandi gli si imponeva di trascorrere separatamente e sfuggiva al nostro controllo.

Il “non voglio” poteva fare un po’ le veci di un nostro intervento risolutore, anche se è sbagliatissimo – e lo dicono tutti i manuali sulla corretta genitorialità – essere di parte nelle diatribe infantili soprattutto se la parte è la stessa dei propri figli. Per esempio, e lo so che qui rischio l’ostracismo da parte dei blogger che trattano argomenti legati all’educazione e dei bravi papà imparziali, a me è capitato di entrare di corsa in un parchetto giochi perché un piccoletto tedesco stava spingendo con arroganza mia figlia che all’epoca aveva si e no tre anni e vedere mia figlia cadere nella sabbia ai piedi di uno scivolo in plastica aveva toccato profondamente il mio orgoglio. E l’ho rimproverato duramente, quel crucco in miniatura – che tanto non mi avrà capito – visto che i suoi genitori, che come me si godevano le bellezze della Corsica, non avevano manifestato nessuna intenzione di dirimere il conflitto. Non si danno gli spintoni, non te l’ha insegnato nessuno? Tuo bisnonno chissà quanti ne ha fucilati dei nostri, quando metteva a ferro e fuoco le nostre campagne in cerca di quelli che volevano cacciarlo e che lui chiamava banditi? Ed è inutile che ora fate tanto quelli che salvano gli stati europei come il nostro con l’acqua alla gola, siete sempre i prepotenti di un tempo, voi e i vostri campi di concentramento. Ecco, non gli ho detto proprio così ma il mio tono riassumeva uno stato d’animo frutto di anni di antifascismo militante. E comunque mia figlia non aveva nemmeno pianto, si era alzata un po’ imbronciata più per il vestitino impolverato e la cosa era finita lì, e anche se al piccolo turista tedesco ha detto “non  voglio” prima che la strattonasse a terra probabilmente il nostro Hans o come si sarà chiamato non avrà capito o probabilmente avrà intuito che mia figlia non ne voleva sapere di cedergli il posto sul cavallo a molla o quel che era.

Comunque, il vero problema dell’imparare a non volere fin dalla tenera età è che poi è un meccanismo difficile da gestire. Voglio dire, se per le educatrici del nido è un passepartout per responsabilizzare i bimbi sull’autogestione dei comportamenti sopra le righe, se è una formula magica per far salire di livello la personalità individuale, bene, sarebbe però il caso di dotare i genitori della contro-formula, l’antidoto superiore grazie al quale il “non voglio” può essere annullato. Questo perché poi, crescendo, il non volere condividere una macchinina diventa il non volere cose sempre più grandi e non volerle con un una volontà sempre più ferrea e adeguata all’età, soprattutto al di fuori delle mura scolastiche. Che poi diventa difficile da superare e che costringe a continui compromessi per condurre il proprio mini-avversario nei paraggi dell’obiettivo. Così ti aggiri per gli spazi presidiati da bambini e ragazzini ed è tutto un “non voglio” fare questo o quello, una massa in ribellione alle minime regole degli adulti che quando la creatura si aggira verso i sette-otto-nove anni ci si trova a rimpiangere quei bei tempi in cui a tavola volavano scappellotti e si poteva inseguire la prole con il battipanni per metter fine con la forza a ogni questione lasciata a metà. Ma questo è il prezzo che si paga se si vuole vedere i propri figli già cittadini attivi prima ancora che imparino a scrivere il loro nome o qualunque desiderio sulla letterina a Gesù Bambino. Spetta a noi, di queste nuove dinamiche famigliari, trovare la giusta collocazione e il modo di usarle a nostro vantaggio. Sempre che sia possibile.

il vero reality è quello che abbiamo dentro

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Anni di visioni cinematografiche e televisive hanno ampliato in modo incommensurabile il nostro immaginario, e se è vero che il bagaglio esperienziale che ne deriva riflette sceneggiature già fatte e finite e con il relativo indice di gradimento, il che riduce probabilmente la nostra fantasia e la nostra creatività, tutto ciò ci consente però di contare su una libreria di materiale clipart e footage senza limiti immagazzinato nel tempo e di sfoderarlo a nostra discrezione anche solo per autocompiacimento.

Quelle situazioni in cui si cammina per la strada, si scende da soli in ascensore, si è in casa in totale relax e si decide di trasformare quella manciata di istanti della nostra vita in qualcosa che abbiamo visto da qualche parte senza magari nessuno che ci sta guardando, perché in caso contrario risulteremmo poco credibili o al limite del risultare patetici. A chi non è mai successo, per esempio, di sorseggiare un bicchiere di cognac sulla poltrona preferita con il gatto sulle ginocchia e un buon libro in mano in una sera di inverno mentre fuori imperversa un temporale e tutto questo solo perché lo abbiamo letto in qualche storia d’altri tempi o visto in qualche sceneggiato in bianco e nero e abbiamo sempre sognato di farlo? E il solo pensarlo, dite la verità, vi fa venire quella pulsione che non so come definire se non come un filtro Instagram di realtà aumentata che è bello solo perché sembra esserlo, e che se si tratta un episodio di una serie tv di cui non ricordate il titolo può anche essere che state sperimentando una puntata pilota di un nuovo format.

Tanto che poi provate a farlo e anche se non vi vedete, non c’è uno specchio tantomeno un testimone che si stupirebbe del fatto che 1- avete comprato a sua insaputa una bottiglia di cognac con quello che costa 2 – bevete da soli senza chiedere 3 – cosa ci fai lì seduto e perché diavolo ti sei messo a leggere, c’è da stendere e così via, dicevo che anche se non vi vedete è bello comunque e sembra proprio come lo vedevate fare agli altri anche se magari poi il cognac è di qualità economica e così se ci fosse il testimone potreste comunque rassicurarlo che il vostro siparietto di relax domestico non va a incidere sull’economia famigliare.

Un altro classico è il tazzone di caffè americano con sigaretta mentre scrivete post tipo questo, o cose più serie e remunerabili e lo spero per voi, con un Mac Book Pro su una scrivania alla luce di una Arco Castiglioni accesa poco più in là. Già qui il product placement richiede un budget più impegnativo, ma va bene anche un lampadario Ikea in plastica come quello che ho messo io in cucina e che non supera i dieci euro e un qualsiasi pc, al limite se avete un cognato come il mio che è esperto di open source vi fate mettere su un sistema operativo che ha l’interfaccia tale e quale al Mac. E se ci sono altre complicazioni tipo che non vi piace il caffè americano o vi piace ma come me è meglio se non lo bevete per via della pressione alta e, soprattutto, non fumate, meglio cambiare canale.

Perché invece le situazioni collettive, come gli amici che sorseggiano l’amaro dopo aver salvato un cavallo che stava per morire, non vengono mai così. C’è qualcuno che gli scappa da ridere, ha mangiato troppo e allora gli ci vuole davvero l’amaro. O squilla il telefono e l’atmosfera è facile rovinarla subito. Per questo è preferibile goderseli da soli e mandare in onda questi remake casalinghi di situazioni da manuale quando ci capita o solo quando ne abbiamo voglia, ma sempre sotto forma di training autogeno, di cura per sé stessi  e per dimostrare che anche noi saremmo all’altezza di essere idealizzati da un pubblico, noi e il nostro ambiente, attori protagonisti di quella tv a circuito chiuso che poi facciamo vedere solo a chi vogliamo.

c’è baruffa nell’aria

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A furia di sentir parlare di quell’età dell’oro che è stato il secolo scorso, pur nella sua brevità come asseriva qualcuno, ora siamo sempre più scettici verso i numerosi traghettatori di esperienze dal passato che ci presentano la loro infanzia trascorsa durante la ricostruzione post-bellica, negli anni del boom economico, nei cortei delle contestazioni studentesche, dietro al grilletto di una p38 o sotto le spalline di una giacca spencer come il migliore dei mondi possibili e che da allora nessuno mai più potrà aspirare a tanto. E le cabine a gettoni e la Lambretta e il Commodore 64 e via dicendo. Io sono uno di questi, ovviamente, ma mi nascondo dietro a una narrazione impersonale in modo da non scontentare nessuno, sapete come funziona nell’editoria cialtrona e fai-da-te.

E può rientrare in questo dibattito la presunta scomparsa, con il nuovo millennio, dell’odore degli esercizi commerciali al dettaglio con la loro scomparsa tout court. Già vedo il vostro sistema di ricerca ravanare nell’hard disk della memoria con la query *.madeleine e gli occhi che iniziano a luccicare al ricordo della panna da cinquanta lire con la cannella sopra che compravate con la vostra mamma dalla signora Ines o la torrefazione del signor Gianbattista che con il suo aroma di caffè ogni mattina riempiva le scale del vostro palazzo.

Perché non si sente più il profumo millessenze delle drogherie perché non esistono più le drogherie, almeno dalla mie parti e nell’area metropolitana che a breve qui intorno sarà costituita. Non si sente più l’odore delle botteghe dei ciabattini, perché sono spariti entrambi, sia le botteghe che i ciabattini. E così via. Ci resta un’eredità meno romantica fatta di gelaterie che a Milano e a Perugia e a Catania hanno gli stessi gusti fighi e presidiati che sanno dello stesso gusto, librerie dove al posto della carta si percepisce solo la fragranza dei gadget in plastica, catene di abbigliamento tutte uguali dove prevalgono gli afrori umani durante i saldi e l’asetticità dei tabacchini in cui nessuno può fumare tantomeno gli avventori che imperturbabili perdono le loro fortune al videopoker.

Nei bar solo toast bruciacchiati, al limite solo i ristoranti cinesi non sono mai cambiati e sono rimasti in linea con l’olio utilizzato per la cottura dei cibi, così quando esci di lì è sempre meglio portare tutto in una lavanderia cinese. Tutto il resto è noia e non solo olfattiva, diciamocelo. Pensate a tutte le storie che nella letteratura e nei film sono nate nei negozietti, così li chiamano i più appassionati, e grazie ai loro esercenti prima che la centrocommercialità omologasse i nostri consumi e ci si ricordasse di loro solo per gli scontrini fiscali o, meglio, la loro non emissione. Quelle vicende in cui le commesse delle piccole librerie si innamorano di chi prima li voleva schiacciare sotto il peso di un colosso dell’editoria, o le rivendite di articoli per fumatori frequentate da scrittori e ladruncoli di riviste porno. Per non parlare delle artigiane del cioccolato, lì sì che aromi e amori erano davvero l’uno anagramma dell’altro. Poi vabbé, se volete liquidare il discorso e questi tromboni che ogni prima era sempre meglio di ogni adesso, fategli l’esempio delle pescherie e vedrete tutta la poesia finire lì, con l’alzarsi della saracinesca.

la diretta della democrazia

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Fateci caso. La soluzione ai grandi problemi dell’umanità è soventemente la risposta opposta a quella della saggezza popolare, dell’opinione pubblica e della pancia della gente. Di fronte a una questione di primaria importanza la massa chiede picche e dall’alto qualcuno risponde fiori, anzi più spesso è il contrario se chi ci governa e amministra risponde picche alla nostra richiesta di denari. E questa solo apparente incompatibilità spiega anche il perché quando succede qualcosa le persone comuni si scambiano opinioni su quali provvedimenti sarebbe meglio prendere o qual è il modo migliore per superare un ostacolo o risolvere una situazione di stallo per il bene comune che sia l’uscita del proprio Paese dall’eurozona, vincere la finale di un torneo internazionale di calcio, risollevare le sorti dell’azienda in cui si lavora o ristabilire la normale circolazione ferroviaria quando è tutto bloccato perché i vigili del fuoco stanno intervenendo su una fuga di gas e la linea tra due stazioni e interrotta e non si sa quando i treni riprenderanno a circolare.

E tutte queste opinioni che le persone comuni si scambiano per strada, negli uffici, in coda alle Poste o pressati in un vagone in fine estate privo dell’aria condizionata lasciano il tempo che trovano perché nel frattempo quella nebulosa che muove le redini del mondo che abitiamo e che da qualche tempo ha un nome, la casta, che in senso traslato oltre a chi ci governa comprende anche i consigli di amministrazione delle aziende, il capotreno, il commissario tecnico della nazionale, ha già maturato una decisione su come procedere. Una scelta che, guarda un po’, lascia con l’amaro in bocca tutti tanto che siamo sempre più pronti a renderci partecipi vicendevolmente su come sarebbe stato meglio fare così o cosà. E questo perché certe decisioni a grandi livelli non abbiamo i numeri e carte in regola per comprenderle altrimenti sono certo che ci ritroveremmo nella buvette del Parlamento, dietro ai tavoli delle grandi negoziazioni economiche, alla guida del locale che malgrado le nostre lamentele non si muove da lì e dietro la panchina azzurra al posto di chi sappiamo noi e sono certo che le azzeccheremmo le scelte di politici, classe dirigente o amministratori di condominio senza dare luogo a esasperazioni che poi in taluni contesti sfociano nell’invocazione della democrazia diretta e negli ingenui movimenti a più stelle.

Tutto questo perché siamo fondamentalmente di indole presuntuosa e crediamo di saper fare le cose meglio di chiunque altro. Ed ecco perché vi dico di farci caso. Gli scambi di pareri alla base si muovono con spareggi diretti alla prima e passa il turno solo un punto di vista unico e generale che il portavoce – la stampa, chi ha il tono di voce più forte, chi ha voglia di farsi carico del problema comune – riferisce all’autorità. Ma nel frattempo l’autorità che essendo stata investita del compito di rappresentare la base a seguito di vari procedimenti di selezione più o meno corretti – non è questa la sede né il contesto per giudicare il valore del processo di selezione – si è mossa per studiare una risposta per suo conto, ha già provveduto a stabilire un criterio o una strategia che è di segno opposto a quella che arriva dal basso. Il che implica un doppio lavoro e una doppia quanto inutile fatica. Scegliamo chi ci rappresenta e poi vogliamo comunque essere partecipi in prima persona al posto dei delegati che abbiamo votato, con la convinzione peraltro di sapere come si risolve una crisi globale, come si salva la vita a un impianto che qualcuno ha deciso di spegnere, come gestire l’impresa di pulizie negli spazi condominiali o se schierare Cassano dal primo minuto di gioco o solo nel secondo tempo. E qui, mentre porto a termine questa fondamentale riflessione, stiamo ancora a scambiarci pareri su come dovrebbe essere organizzata la circolazione di una rete ferroviaria durante l’eccezionalità di un black-out dei trasporti, ognuno dal profondo della propria competenza di commessa di abbigliamento, impiegato di banca, studente del Politecnico, colf, scribacchino pubblicitario e messo comunale. Così penso a chi si batte per far sì che noi, questo consesso di esperti, abbia il diritto di scegliere nominalmente da chi essere rappresentato. Un cittadino, un voto, una scheda, una croce sul proprio cognome e sulla propria faccia.

pensa a te a volte cosa si inventa la gente

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Gli incubatori di relazioni di coppia sono una gran bella invenzione, e non credo di esagerare se dico che ogni occasione è buona per favorire gli incroci magici e far scattare colpi di fulmine. Dai club di lettura ai corsi di degustazione per diventare sommelier dove occorre andarci piano altrimenti c’è pronta pure l’anonima alcolisti che, tutto sommato, consiste in un caso estremo che rientra nella macrocategoria di cui sopra. Potrei farvi l’esempio di un ragazzo e una ragazza che si sono addirittura messi insieme in ospedale, entrambi con l’epatite quella più pericolosa, ma vi bastino queste briciole di dettagli e non chiedetemi di approfondire la storia perché è piuttosto dolorosa. Perché è vero che l’uomo è animale sociale ed è costruttivo tessere reti di solidarietà e catturare individui che altrimenti andrebbero dispersi nel mare della solitudine. Ma non vi è mai capitato che poi due si trovano compatibili e si mettono insieme e dopo spariscono, così la rete di cui fai parte anche tu scopri che ha un buco e non è più solida come una volta? Buon per loro, se la terapia di gruppo qualunque essa sia in qualche modo ha salvato almeno due vite. Però, che diamine, almeno un po’ di riconoscenza, no?

Ed è vero che se oggi ti iscrivi a Facebook e se smanetti un po’ con la ricerca avanzata la compatibilità con qualcuno la trovi, ma c’è chi inizia ad averne abbastanza degli accrocchi, intesi come modi tortuosi per arrivare dal punto a al punto b, in questo caso meglio dire al punto g. Per conoscere persone e andare sul sicuro, nel senso di partire già da una scrematura di candidati/e e ridurre al minimo il rischio di delusione, è necessario iscriversi a un social network e mettersi alla ricerca a tavolino dei contatti. E poi curarli, crescerli, intensificarli, rendersi credibili. Il che avveniva anche prima del web ed era sicuramente più lento e faticoso. Ma non implicava la conoscenza di uno strumento che è facile ma solo apparentemente, e se non lo usi nel modo più appropriato corri rischi che vanno dal rendere noto a parenti, amici, colleghi e persone sulle quali vuoi fare colpo che hai visualizzato un video osé fino a farti rubare i dati della carta di credito.

E questo è solo un esempio dei più comuni. Voglio dire, una volta forse era molto più semplice tutto, a partire proprio da questo livello di attivazione di un canale privilegiato di interrelazione tra due individui. Poi ci sono state tutte le rivoluzioni che ci hanno investito e che si, hanno migliorato la qualità della vita ma a un pesante costo di aumento della complessità. Non vi sembra? Ognuno di noi ogni giorno devo mettere in atto una serie di accrocchi per portare a termine vari processi che rientrano nella quotidianità e che non ci costano fatica ma solo perché della modernità non ne potremmo più fare a meno. E non mi riferisco solamente alle relazioni interpersonali. Pensate alla cosa più banale come la tecnologia spicciola. Ci sono le olimpiadi e non puoi vederle perché non hai la tv a pagamento che le trasmette e così cerchi in Internet e trovi il sistema per collegarti in streaming ma devi scaricare questo e quello che ti nasconde l’indirizzo IP e tempo che riesci a far funzionare tutto la gara che ti interessava è già bella che finita. Questo è un accrocchio. Devo acquistare una lavastoviglie da incasso e ci sono almeno dieci catene che vendono elettrodomestici e ognuna ha i suoi prezzi, poi però trovi con Kelkoo che sullo stesso modello ci sono siti di e-commerce che applicano tariffe inferiori ma devi prima calcolare il costo aggiuntivo di trasporto e installazione che altrove è compreso.

Questi sono tutti accrocchi per risparmiare soldi, ingegnosi come i sistemi rapidi pensati per conoscere l’anima gemella e portarla il più velocemente possibile nel proprio letto, che poi uno si chiede se a quantificare il tempo che si perde nelle operazioni di marketing personale per gli approcci o anche nel cercare un file sul pc o nel contrattare una promozione telefonica alla fine si ha diritto a una porzione di vita in più che poi sarà tutta da riempire. Oggi donne e uomini vivono sempre più a lungo, e così scopri che alla fine gli accrocchi di terapie per campare dieci anni sorretto da due badanti o in un ricovero sono shortcut che forse non ne vale nemmeno la pena conoscere. Ve lo saprò dire con il blog che terrò quando sarò vecchio, a patto di ricordarmi ogni volta i dati di log-in o, in caso di necessità, l’accrocchio per riceverli dal sistema senza rammentare né lo username né la password.

ripetere giova

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Dunque chi mi conosce di persona saprà che so essere anche più noioso che qui. Tanto per iniziare mi ripeto, mi ripeto, mi ripeto. Poi ho ricevuto accuse bonarie – ma mica tanto – di leggere libri tutti uguali. Ma non è tutto. Il primo lavoro non da musicista l’ho ottenuto a diciannove anni o giù di lì. Ho frequentato ogni giorno una specie di pub per mesi e mesi sperperando le mie paghette in birre e panini fino a quando il gestore mi ha chiesto se volevo sostituire la cameriera per il suo mese di ferie. Il mio merito è stato solo quello di essere un avventore assiduo. Può rientrare nella stessa casistica il fatto che anni dopo abbia rimorchiato la barista di un locale dove io e qualche amico andavamo tutte le sere in cui era aperto. Chiedevo sempre la stessa consumazione (non ho scritto birra per non ripetermi con quanto dichiarato sopra) e mesi dopo – premiando la mia fiducia, non vedo altre spiegazioni – ci scambiavamo i numeri di telefono. Questo per dire che usare ogni giorno Google più volte da almeno dieci anni non mi ha ancora fruttato nessun vantaggio personale di questo tipo, non ho ricevuto nessuna proposta di collaborazione. Probabilmente in Internet le cose funzionano diversamente.

digitare il pin e premere il pulsante verde

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Ora vi dividerò in due gruppi. Quelli che sfruttano ovunque possibile il pagamento elettronico in ogni sua forma da una parte. Quelli che ritirano soldi con il bancomat, girano con i contanti tutti colorati ed estraggono il portafoglio gonfio di bigliettoni anche per sganciare seicento e rotti euro per uno smartcoso dall’altra. Due fazioni che poi si distribuiscono analogamente in molte altre occasioni. Quelli che seguono le strisce blu in autostrada e saltano le code contro quelli che ancora contano gli spicci e tengono le monete nei contenitori a fessura ricevuti in omaggio come gadget dal proprio distributore di fiducia. Quelli che vanno spediti al carrello in ogni sito di commercio elettronico contro quelli che ancora non si fidano di digitare i propri numeri di carta di credito nell’ignoto che opera dietro il monitor del pc. La proposta di vietare i contanti per importi superiori a cinquanta, cento, duecento euro è da tempo all’ordine del giorno nell’agenda politica dei governi più attenti a tracciare i movimenti di soldi, esclusi quindi dal penultimo in su. E già vedo qualcuno di voi con la manina alzata pronto a ricordarmi che Passera e le banche che fanno capo a lui di certo trarranno ampio beneficio da una crescente diffusione di prodotti e servizi basati su carte e POS, e quell’altro laggiù con la faccia da saputello che aggiunge che i commercianti che pagano la commissione sulle transazioni saranno penalizzati. E allora mi vien da dire eccheccazzo, da qualche parte bisognerà ben incominciare, no?

Ma poi mi rendo conto che il problema è più complesso, soprattutto se osservo il comportamento dei clienti dei grossi centri commerciali e degli ipermercati che si sono dotati dei cosiddetti dispositivi salvatempo, quei lettori RFID portatili nei quali registri tutto quello che acquisti e paghi alla fine, o anche le casse fai da te, dove gli acquirenti fanno le veci delle cassiere nella registrazione degli articoli scelti. Si tratta di opzioni che per lo più prevedono l’uso di carte o bancomat. Ebbene, non ho informazioni a disposizione e la mia considerazione si basa su dati empirici e osservazioni casuali, ma mi sembra che le code alle casse e i pagamenti cash siano ancora troppi e che molta gente con le tastiere alfanumeriche, con i pannelli touch screen e con le operazioni da concludere con la lettura di un chip o di una banda magnetica non è ancora a proprio agio. Anzi, molti sono proprio imbranati. O forse è l’ebbrezza della cartamoneta in mano che ci rende così legati al denaro fisico e pensare al nostro stipendio (quando c’è) come una volatile stringa numerica in un database bancario ci fa sentire troppo di passaggio su questa terra sempre più dematerializzata.

E oggi, per dire, in una di quelle postazioni promozionali delle compagnie telefoniche piazzate nei corridoi comuni tra i negozi, campeggiava un cartello che avvisava l’impossibilità di effettuare acquisti e attivare contratti tramite pagamento in contanti. E un giovanotto abbronzato e disposto a tutto pur di avere un cellulare del valore di metà del mio stipendio che invece voleva metter mano al portafoglio e chiudere così, brevi manu, il patto commerciale tra due gentiluomini. Così ho pensato alla difficoltà che abbiamo dal separarci dai nostri beni e da quei pezzi di carta filigranata che in fondo hanno un valore solo per convenzione, tanto quanto un numero virtualizzato da qualche parte, e che probabilmente non ci convinceremo mai che se una cosa non si vede non è detto che sia sparita nel nulla o non esista. E questa, se non ricordo male, dovrebbe essere una fase dello sviluppo mentale di un individuo già superata almeno venti anni prima di poter acquistare qualcosa di così costoso. Vero che c’è una teoria in proposito?

i nostri programmi sono terminati, signore e signori buonanotte

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Non tutti hanno la fortuna di vivere in luoghi di villeggiatura senza la villeggiatura che poi sono luoghi a metà e film in bianco e nero visti alla tv ma nell’era della tv satellitare con una ricezione come la mia, che ogni due per tre si blocca in screenshot con pixeloni enormi e nemmeno il classico pugno sull’apparecchio serve più a qualcosa, mi devo mettere lì a smanettare dietro con il cavo dell’antenna finché il sistema non si riavvia. Quest’estate, come tante altre estati, me lo sono chiesto mentre mi asciugavo dopo il bagno, mentre osservavo un tramonto sul mare, mentre pagavo le pesche due euro e cinquanta al chilo. Cosa succede in posti come questo quando mancano le comparse, che sono i turisti, e restano solo i protagonisti. Quelli che vivono in quelle città fantasma dove sembra tutto finto e a pagamento e invece sono certo che c’è tutta una dimensione parallela e gratis anche laggiù. Le bancarelle che d’inverno sono prese d’assalto dai residenti per acquistare monili e prodotti artigianali, il cinema all’aperto che funziona anche se piove, che poi lì non piove mai. I ristoranti che si contendono quelle poche centinaia di abitanti dei paesini limitrofi, quei pochi che non sono andati a studiare fuori, a cercare lavoro sulla terraferma del continente, terremoti a parte. Le strade costeggiate da camperisti autoctoni che pensano che è bello comunque nei giorni festivi dormire in posti con una vista mozzafiato e si avviano ogni weekend intabarrati per il vento freddo che d’inverno sostituisce quello caldo dell’estate che mi sta portando via la fine.

I luoghi di villeggiatura senza la villeggiatura me li immagino come un dietro le quinte che dura mesi e mesi in cui si ridipingono i fondali e le scenografie, si ripassano le parti e le battute per la stagione successiva, si effettuano le prove senza gli abiti da scena e quindi più liberi e comodi senza la divisa da persona ospitale a tutti i costi che magari a lungo andare ti ci senti stretto dentro. Puoi finalmente parlare la tua lingua senza doverti esprimere in italiano o in tedesco o in inglese, se ti scappa qualche espressione in dialetto la capiscono tutti. Il dubbio resta capire chi paga tutto questo “making of”, se i proventi dalla vendita di pesche a due euro e cinquanta al chilo sono sufficienti a sostenere le stagioni di fiacca o se invece, una volta spento il sole e chi l’ha spento sei tu, tutti vanno a fare i lavori che farebbero se vivessero in posti in cui per trecentosessantacinque giorni si vive allo stesso modo, le città come la mia in cui non c’è nemmeno un scorcio per passare una serata romantica a godersi un panorama o un sentiero dove respirare un po’ di aria buona. E i posti di villeggiatura, più li imbelletti in estate e più risultano osceni in inverno se la qualità dell’offerta che proponi è finta e a misura di allocco. Ma se è vero che esiste il lavoro stagionale, è impossibile condurre una vita su questo modello. Sei mesi di fasti e sei mesi di rovina, come faceva quel mio conoscente che era un bagnino e che raccontava quanto era bello la mattina con il freddo e con la pioggia sentire i rumori della gente normale che si prepara per uscire e andare a lavorare mentre lui rimaneva al calduccio sotto le coperte.  Nei luoghi di villeggiatura senza la villeggiatura non credo che sia così, almeno quello a cui mi riferisco io e in cui sono appena stato. Mi piace pensare che laggiù esista un sistema che, alla fine delle trasmissioni, si sposta altrove per riprendere a funzionare. L’isola che, mentre noi non ci siamo, si muove in blocco in un’altra parte del mondo e ricomincia tutto da capo, ogni volta, senza smettere mai.