all’unisono

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Volge al termine la stagione delle suonerie personalizzate e degli improbabili mash-up in luoghi pubblici in cui reggaeton, hard rock e corporate jingle hanno dato vita momenti di melting pot musicale senza precedenti. Passata la sbornia creativa una volta raggiunta la consapevolezza che sì, con la tecnologia tutto è possibile tanto che non si sa cosa usare, a prova del fatto che è inutile avere contenitori se poi non sappiamo quali contenuti metterci, o semplicemente ci siamo finalmente stufati di perdere tempo passando in fastidiosa rassegna tutti i preset prima di trovare quello che più ci si addice, ora siamo tornati allo squillo. Il caro vecchio drin drin che ci faceva correre al telefono in bachelite collocato in corridoio gridando è per me, con l’obiettivo di intercettare chi ci stava chiamando prima dei proprio famigliari. Il guaio è che siamo passati da un estremo all’altro. Senti drin drin e vedi decine di persone arrabattarsi nella ricerca del loro smartcoso e poi riporlo, dopo aver dato un’occhiata invidiosa al destinatario della chiamata. Anche qui in ufficio, lasciamo il cellulare sulla scrivania e quando suona ci precipitiamo invano a rispondere, perché tutti abbiamo impostato il drin drin con l’opzione fade in e non si riconosce il dispositivo che sta suonando finché non lo si prende in mano. Ops scusate, devo scappare, mi squilla il telefono.

giuliano hi-nrg mc

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Che poi in realtà il rap italiano non esiste, perché si tratta di un genere talmente specifico di un’etnia e così connotato da fattori al di fuori dei quali perde di sostanza. Voglio dire, scevro da essere composto ed eseguito da afroamericani, non in lingua inglese e fuori dal ghetto, e per ghetto intendo tutto quello che è oltre i confini delle stelle e strisce WASP, non ne rimane nulla se non parole in rima su musica e prive di melodia. Che sì, può essere rap per la proprietà transitiva, ma è come un film western di fantascienza che ha la Pantera Rosa come protagonista, non so se rendo l’idea. No, lo immaginavo. Qualcosa di vagamente comparabile con il rap, e questo a partire dai Sangue Misto fino a tutti i tamarri di oggi che si sono adeguati all’intamarrimento del rap originale. E quindi se possiamo dire che il rap italiano non esiste, allora non esiste neppure il rap di Giuliano Ferrara, e forse non esiste nemmeno Giuliano Ferrara in sé. Affare fatto.

in dolce attesa

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Se mi vedete indugiare fermo da qualche parte, o mi incontrate più volte nel raggio dello stesso punto a distanza di qualche minuto. Se mi notate in un bar consumare un cappuccio e brioche al rallentatore guardando persino la tele accesa su Studio Aperto o sfogliando le pagine di quotidiani di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza tipo La Provincia, ma facendo finta di leggere o meglio guardando solo le figure e le didascalie perché comunque il taglio degli articoli lo si evince dai titoli quindi meglio evitare. Se vi sembra strano che uno come me si aggiri lungo vie a misura di automobile dove c’è solo una persona – e quella persona sono io – che cammina su marciapiedi fatiscenti che non sono più marciapiedi, tanto che ormai chi vive lì ha rinunciato a considerarli tali e se ne guarda bene dal muoversi a piedi, o magari addirittura lì non ci vive più nessuno e quindi comunque sono l’unico essere umano a trovarsi in quel posto e non è difficile dare nell’occhio tra le auto che sfrecciano in un senso e nell’altro. Se mi beccate mentre faccio finta di attardarmi leggendo avvisi in bacheche di associazioni locali che nemmeno i soci leggono più perché chiunque va sul sito e si informa lì, e sono io il solo che, finito il comunicato, passa in rassegna la foto della squadra under 16 di basket o le immagini della gara di pesca sportiva al carpodromo comunale. Se mi trovate su una panchina a leggere il mio libro con l’enorme barriera psicologica che è controllare ogni due minuti se il momento dell’appuntamento si è davvero avvicinato di due minuti rispetto alla precedente occhiata data all’orologio da polso, tutto ciò è perché sono in lauto anticipo, come tutte le stramaledette volte in cui ho un impegno.

Ma non mi pesa, sappiatelo. Prendo treni all’alba per giungere a destinazione con almeno trenta minuti di vantaggio, e poi a quel punto inizia l’annosa ricerca di come impiegare il tempo che resta senza dare troppo nell’occhio. Perché c’è anche un rischio, che costituisce uno dei miei maggiori incubi: farsi scoprire in un bar o nelle vicinanze del posto in cui si è diretti dalla persona che si deve incontrare che poi, rendendosi conto dell’anticipo, si sente in dovere di anticipare a sua volta l’incontro e la figura non è delle migliori. È che ho il terrore di arrivare in ritardo sempre, che poi il ritardo non è la fine del mondo o almeno così ti dicono, ma a me non piace proprio perché se si dice un’ora è quella, altrimenti se ne dice un’altra un quarto d’ora dopo, giusto? Ricordo un bassista inglese con cui ci si dava appuntamento in un posto per utilizzare da lì in poi un solo mezzo per recarsi tutti insieme al locale in cui si suonava, e costantemente ci rimproverava per la totale aleatorietà delle nostre indicazioni e lui per non sbagliarsi arrivava molto prima degli altri. Arrivavamo e lo vedevamo con l’espressione di chi è costretto ad aver a che fare con un popolo che si attarda con pizza e mandolini e non ha rispetto per le civiltà superiori. Ho imparato molto da quella esperienza. E se sono esagerato è solo perché preferisco di gran lunga la noia dell’attesa rispetto all’ansia del non fare in tempo, la coda inaspettata, il treno soppresso, il terremoto e il meteorite e i maya che ti fanno saltare un’opportunità ancora prima di cancellare un pianeta in quattro e quattr’otto. E così anche oggi mi rimane giusto il tempo di annotare qui queste poche righe mentre aspetto il mio turno previsto non prima di venti minuti a partire da ora. Vedete, se non fossi arrivato così presto non mi sarebbe nemmeno venuto in mente di scrivere qualcosa a proposito.

e-versione

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Da quando c’è l’Internet, da quando anche i bambini di 3 anni possiedono fotocamere digitali e da quando qualunque scatola elettronica – dai cellulari al Nintendo DS – può scattare e riprendere video. Da quando qualsiasi cosa fai puoi essere sgamato e messo in rete alla gogna, perché una connessione ce l’hanno tutti e le informazioni nel giro di pochi minuti fanno il giro del mondo. Da quando qualunque parere che scrivi su un social network può rovinarti la vita o farti diventare un opinion leader nel giro di una giornata. Da quando la fama e la fortuna possono essere conquistate e perse nel più casuale dei modi perché tizio o caio ti linkano e tutti vengono a sapere che cosa hai fatto, nel bene e nel male. Da quando puoi diventare una star virale su youtube, puoi impersonare un meme ed essere reinterpretato e remixato e rivoltato come un calzino un miliardo di volte. Da quando un appello per vedersi in piazza per qualunque motivo può essere lanciato e giungere a destinazione in pochi secondi ed è possibile riunire folle e – volendo – organizzare rivoluzioni con un paio di clic se solo sapessimo essere meno egoriferiti. Da quando esiste questo insieme di cose, che non saprei definire altrimenti se non la digitalizzazione della vita di tutti noi, il mondo non è più lo stesso, e so di dire una banalità, ma avete capito cosa intendo.

Una volta ho pensato, e forse l’ho scritto anche qui ma non ricordo dove, chissà cosa sarebbe successo se nel 77 ci fossero stati i blog, per esempio. Ma non c’erano, c’erano i programmi delle radio libere e i collettivi. Comunque in quel periodo lì accadevano un sacco di cose estremamente sconvenienti, bombe e stragi e gente che ammazzava altra gente. Su molti di quei fatti non è stata mai fatta chiarezza, ci sono stati depistaggi, servizi segreti, la CIA, le forze dell’ordine e la mafia e tutta una serie di apparati che si erano posti un obiettivo che ora è lunga da raccontare qui – e poi non ne sarei nemmeno all’altezza – ma che se non è stato perseguito si può dire che chi l’ha progettato c’è andato molto vicino. E quando si tessevano tutte queste trame, che poi è ancora persino da vedere se sono state davvero ordite o se è solo tutto un volo di fantasia di un paio di generazioni di storiografi molto visionari, non c’era né l’Internet né le telecamere di videosorveglianza e tutto il resto sopra elencato, quindi per gli operatori occulti che lavoravano nell’ombra è stato abbastanza facile.

Ecco, alla luce di quanto è successo a Brindisi, che poi magari è solo l’opera di un malato di mente megalomane e la cosa, come speriamo tutti, finirà qui, io sono convinto che se ancora una volta c’è qualcuno che sta macchinando per scrivere una storia parallela a quella che “siamo noi” per far sì che poi un giorno la storia “saranno loro”, io sono anzi più che convinto che per queste persone sarà tutt’altro che semplice non farsi sgamare. Perché per ogni killer nascosto là fuori e pronto a far saltare in aria qualcuno, per ogni gruppo eversivo che piazza una bomba in una stazione in agosto, per ogni organizzazione paramilitare che organizza campi di addestramento in Sardegna, ci sono migliaia di persone che possono cogliere chiunque in flagrante. Quegli altri individui, quelli cattivi, sempre che esistano, devono stare molto all’erta. Lo stragista è diventato un mestiere davvero complicato da svolgere. E stiamo anche attenti tutti noi: lo so che quella degli anni di piombo è una storia che non si ripeterà, ma non si sa mai.

come quando fuori piove

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Un uomo rallenta con il suo fuoristrada grigio e accosta al bordo della corsia con le quattro frecce. Lo vedo scendere dall’abitacolo, girare intorno all’auto e fermarsi nello sterrato prima dei campi. La statale che porta da e verso Milano è deserta, è domenica mattina e non si capisce se pioverà o no. Probabilmente l’uomo si avvicinerà al bosso che delimita il viottolo che si dipana da lì, tirerà giù la cerniera e scaricherà. Invece lo vedo chinarsi velocemente, poi si rialza per risalire in macchina e ripartire. E mentre mi passa di fianco ci guardiamo per un istante. Mi viene in mente che quello spiazzo è spesso occupato da una ragazza, una di quelle che quando le vedi dici che è venuta dall’est e ora è schiava di qualcuno. Nei giorni infrasettimanali è lì solo dall’imbrunire in poi, nei fine settimana fa orario continuato, l’ho vista anche all’ora di pranzo e ho visto anche clienti contrattare un prezzo. Già che ci sono accelero, tanto sono già di corsa e aumentare un po’ il ritmo non mi costa nulla, e pochi metri dopo, nel punto in cui l’uomo del fuoristrada si è chinato, vedo tre rose rosse appoggiate sui ciuffi d’erba. Non so se sia una bella storia oppure no. Ci devo pensare.

a scatola chiusa

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Sono certo che la decisione bilaterale di mettere al mondo una creatura valga la pena anche solo per decidere insieme come si chiamerà. E non credo che si tratti di una deformazione professionale dovuta alla mia ossessione per titolare e nominare ogni cosa con una parola che sia di sintesi o, per ironia, ne descriva il contrario. Fare le liste e trovare il nome che più potrebbe somigliare a qualcuno che deve ancora nascere non è banale, oltre che essere una decisione complessa.

E te ne accorgi mentre ascolti le discussioni altrui, perché non appena si comunica la bella notizia a terzi, la prima curiosità che ci viene domandata è proprio come si è deciso di registrare il nascituro all’anagrafe e così si motiva la decisione presa in modi che a volte fanno tenerezza come se ci si volesse giustificare con il mondo perché, si sa, la percezione della bellezza di un nome è assai soggettivo. Volevamo che si chiamasse come il nonno, ci piacciono i nomi esotici, abbiamo sorteggiato da una rosa di possibilità o, è il nostro caso, volevamo un nome che scampasse al destino dell’abbreviazione.

Non a caso ci si guarda bene dal commentare le argomentazioni a supporto di questo o quella opzione per non urtare l’altrui sensibilità. Anche se di fronte a certe sperimentazioni nelle quali è impossibile non criticare mentalmente l’accostamento decisivo tra un nome lappone e un cognome tipico calabrese, o l’ormai diffusa abitudine di scegliere nomi stranieri – non ultimo Beyoncé che fa sembrare un Kevin o un Maicol o una Jennifer quei soprannomi di campagna di una volta – sarebbe opportuno tentare di arginare il fenomeno con attività di persuasione più o meno occulta sul prossimo. Certo, ci stiamo finalmente evolvendo verso una società multietnica, ma di norma sono i nuovi cittadini o gli aspiranti tali che spingono affinché i loro figli siano il più possibile integrati nella società che li sta accogliendo.

Ci sono infine quelli che scelgono i nomi più comuni possibili (condivido in pieno) per evitare che il figlio o la figlia siano messi alla berlina a partire dall’appello scolastico, chi segue le mode ed è per questo che crescono intere generazioni di Martina o di Tommaso, c’è ancora chi limita la rosa tra i nomi degli apostoli e degli arcangeli. E poi ci sono quelli che hanno letto un libro in cui una staffetta partigiana aveva un nome avvincente, efficace ed originale ma solo perché d’altri tempi, e decidono che quello è perfetto. A noi è successo proprio così. E qui al paese in cui viviamo era un nome che non avevo mai sentito. Poi ricordo di averne parlato con un’amica in treno, mancavano ancora diversi mesi al parto, e, chissà perché, ho avuto l’impressione che qualcuno seguisse con interesse la discussione. Fatto sta che, spingendo al parco il passeggino qualche mese dopo, rimasi sorpreso assistendo a una madre che si rivolgeva alla figlia di pochi mesi più grande della mia, chiamandola allo stesso modo. Dio, che smacco. Peraltro notai che, a differenza di mia figlia, quel nome non le si addiceva per nulla. Tsk. E avrei potuto anche passare per uno che copia perché quella bambina era più grande. Ma poi ho pensato che certo, il padre avrà senz’altro assistito alla conversazione sul treno andando in ufficio e avrà messo al corrente la moglie. Cara, ho sentito uno in treno che ha scelto questo nome, che ne dici? Di sicuro è andata così. Ecco perché non bisogna mai svelare i segreti industriali.

per fortuna c’è l’Ikea

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Bisogna ammettere che quando i bambini poi crescono, un destino a cui nemmeno i figli propri sono risparmiati, si riducono molti dei vantaggi acquisiti durante i primi anni nella scalata verso la conquista della loro fiducia. E se è un dato di fatto che con l’aumento delle complessità è necessario evolversi nel mestiere di genitori, il che significa adattarsi in modo intelligentemente flessibile, alcuni ruoli dati per scontato tra i punti di riferimento dell’infanzia vanno automaticamente a decadere. La cosa difficile per un padre è capire che non è una questione di successione, semplicemente si tratta di cariche di cui i bambini non hanno più bisogno. Sono certo che sia giusto così, ma a fianco di un’opera di riposizionamento genitoriale occorre saper ricostruire dentro di sé gli equilibri emotivi sbilanciati dai vuoti che man mano vanno creandosi e riesumare attitudini al confronto interpersonale che, durante la prima infanzia, necessariamente si lasciano da parte. Mentre tutto prima veniva mediato da pratiche come il gioco, ora – parlo della mia esperienza – ecco che gli albori della personalità pre-puberale impongono l’uso di nuovi linguaggi, e non è così semplice. Fino ad ora ho trovato dentro di me tutto il necessaire per affrontare passo dopo passo la crescita, ma ora mi rendo conto che occorre un altro arsenale argomentativo per non perdere autorevolezza e tenere la situazione sotto controllo. Lei è cresciuta, il confronto con il gruppo dei pari si è consolidato e costituisce già un sistema ben definito, ho perso un po’ di energie (per non dire che sono invecchiato) e, per arrivare al punto, non c’è tempo da perdere. Ma, a dirla tutta, non mi spaventa il continuo divenire del nostro rapporto, mio e di mia figlia intendo. Sono molto meno abituato invece a fare ordine in me stesso, quell’equilibrio interno di cui ho parlato sopra. Si spostano intere porzioni di vissuto che si devono archiviare e prima di colmare quegli spazi con quello che succederà d’ora in poi, non ci si deve lasciar prendere dallo sconforto. Guardarsi dentro è come soffermarsi in una casa appena sgomberata, il riverbero dei propri passi dalle pareti nude e le macchie sul muro dove prima c’erano quadri appesi che abbiamo messo via in soffitta. Non c’è nulla da fare se non scegliere insieme i mobili nuovi.

diversamente umani

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L’anno solare si divide in una giornata contro l’omofobia e 364 giorni di uomofobia (senza contare i bisestili), una lunghissima stagione nel corso della quale è il genere a cui appartengo anche io a incutere il terrore a tutto il mondo e a diffondere la convinzione che, a causa della manifesta inferiorità, purtroppo il conseguimento di un’evoluzione sociale e culturale è utopia pura. No future. Tanto che nel 2112 noi uomini italiani saremo qui ancora a nausearci delle coppie di maschi che si baciano e a eccitarci invece per le coppie di donne che fanno altrettanto, i quotidiani online a riempire le colonnine infami di gossip (proprio nel giorno a tema) sulle effusioni tra femmine mentre tra maschi strano che non accada mai, chiaramente i paparazzi non sono interessati. Due pesi e due misure, quindi, gay pervertiti e lesbiche tutto sommato ammissibili perché parte dell’immaginario da cui il potere maschile trae il suo godimento? Eh bravo, ti dicono, tanto lo sappiamo che fa parte della natura del tuo sesso. Però. Pensare una cosa e non manifestarla è ipocrisia, ma se si evita una figura di merda ben venga la disonestà intellettuale. Starsene zitti a vantaggio del progresso comune è un’occasione colta. Sottrarre al prossimo il proprio punto di vista in questo caso è una mossa vincente. E chissà, prima o poi ci sarà una giornata mondiale a favore delle convenzioni sociali, ovvero l’intelligenza umana che vince la bestia dentro e, con un po’ di sforzo, conquista una tacca di civiltà.

è tutta una questione di spessore

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E vogliamo parlare dell’importanza che riveste il rullante nella cultura occidentale e nella nostra vita? Sticazzi, penseranno i miei venticinque lettori, vuoi dire che plus1gmt ha intenzione di scrivere una delle sue dissertazioni addirittura sul rullante nel senso del rullante della batteria? Ma è così a corto di argomenti? No, non è certo quello il punto. E non sono mai a corto di argomenti. Però se la nostra vita si muove a ritmo di musica, quanto è vero che la musica deve essere palesemente ritmata. Quindi – anche se non è detto – che sia supportata da un buona base di batteria sotto! E, insieme alla cassa, il rullante è altro che fondamentale. Dietro a un grande bum c’è sempre un grande cha, non dimenticatelo mai.

Ora, non sono certo un batterista pur avendo uno sviluppato senso del ritmo, ma trovo che sia interessante il fatto che il suono di rullante sia soggetto a mode e correnti di pensiero generazionali, che ci sia una sorta di estetica nel timbro dello snare drum e che si trovi sempre uno standard che poi tutti gli altri batteristi seguono fino a quando c’è un cartello di produttori che decide che non va più bene. L’esempio più eclatante è quello del rullante che negli anni 90 utilizzava Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, con quel suono particolarmente acuto che poi è stato adottato da numerosi altri gruppi dell’epoca ed è diventato quasi un must. La peculiarità di quel timbro era determinata dallo spessore dello strumento in questione: il rullante più è sottile e meno il suono è grave. Per farvi capire cosa intendo, provate a sentire la rullata che introduce Two Princes degli Spin Doctors, oppure la geniale Jerry was a race car driver dei Primus. Un rullante spesso come una scatoletta di tonno. E provate a immaginare cosa c’era prima e cosa c’è stato subito dopo. Più o meno l’opposto, ovvero rullantoni alti come fustini del Dixan che facevano certi tonfi come passi di elefante, che negli anni 70 e 80 – prima dell’avvento delle drum machine e della house music – erano all’ordine del giorno e che, manco a dirlo, sono tornati di moda. Quello che però nessuno è mai riuscito a imitare è il rullante di Ringo Starr nel ritornello di questo pezzo. Chissà di che marca era.

documenti

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Ci sono nuove complessità e nuove sfide, la posta in gioco è sempre più alta e catastrofi come l’11 settembre, avvenimenti che fino al giorno prima erano impensabili, si sono abbattute sull’occidente e hanno spostato conflitti e paure su un piano senza precedenti. Ecco perché è passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui mi è stato richiesto di rilasciare le mie generalità da un rappresentante delle forze dell’ordine. Perché fino a quando c’è stato il terrorismo de noantri e il fronte comune della lotta alla criminalità era principalmente lo spaccio di droga, era facile vedersi fermare da agenti in borghese e non per le verifiche di routine. E, nel mio caso, dai sedici ai trent’anni circa si è trattato di un appuntamento quotidiano a cui non sono mai riuscito a sottrarmi. Nei viaggi in macchina, nelle stazioni ferroviarie e nei luoghi pubblici, da solo o con altri, nella mia città o altrove, arrivava il punto in cui sentivo avvicinarsi quel momento, l’istante in cui una voce del sud mi avrebbe chiesto di favorire la carta di identità. La mia faccia e il mio abbigliamento accuratamente disordinato potevano anche trasmettere attività losche, ma il fatto di suscitare un così diffuso interesse tra poliziotti e finanzieri mi ha sempre lasciato sbalordito. Addirittura potevo essere fermato anche più volte nella stessa giornata da pattuglie diverse. Poi, ripeto, a un certo punto questo appeal è svanito nel nulla. Forse la vecchiaia o forse, come dicevo prima, là fuori è diventato è tutto diverso. O magari non si usa nemmeno più.