doppia spunta blu

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Risulta difficile immaginare una storia ambientata ai nostri tempi priva di riferimenti alla tecnologia, che è la versione scritta dell’impossibilità di fare una foto a un monumento o un palazzo storico senza una macchina davanti. Se è vero che controlliamo lo smartphone in media ogni sette minuti – un dato di qualche anno fa, la frequenza sarà sicuramente peggiorata – sembra innaturale descrivere i protagonisti di una qualsiasi scena al netto di questo comportamento ricorrente ripetuto in modo realistico. Oppure possiamo fare finta di nulla e filtrare quello che vediamo con gli occhi romantici della retromania, come quelle serie per i teen che mescolano iPhone e compilation ascoltate sui mangianastri. E allora, può esistere un romanzo di formazione senza TikTok? O una storia d’amore senza Whatsapp, un road movie senza Google Maps, un incontro fortuito non favorito da Tinder? Un racconto con una coppia a cena che non fa nemmeno una foto a un piatto, un viaggio in tram in un film con un quotidiano sotto il naso, gente che, in un romanzo, aspetta il verde per attraversare la strada scrutando il semaforo anziché controllare l’ultima notifica. O, nelle nostre serie tv preferite, un temporale non previsto dalle app di meteo, una corsa non tracciata, persone che camminano libere dallo smartphone rivolto di taglio verso l’orecchio o che, durante le riunioni di lavoro, non scrollano annoiate l’home page dei loro profili social. Ogni tipo di paesaggio – urbano o rurale, affollato o deserto, esotico o familiare – oggi deve essere raccontato nella sua multipla identità: il reale, il virtuale, l’immersivo e l’aumentato. E se tali componenti fossero omessi ce ne renderemmo conto perché proveremmo il disagio di assistere a un’opera di fantascienza al contrario, il ritorno agli effetti normali. Soffriremmo l’assenza del nucleo della nostra vita, ci troveremmo di fronte a un buco narrativo con degli esseri viventi intorno.

tolc to me

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Sono passati più di dieci anni dalla prima volta in cui ho immaginato il primo incontro con un aspirante pretendente di mia figlia. A giugno del 2012 aveva appena terminato la terza elementare e mi potevo permettere di speculare sul suo futuro, forte del fatto che la massima preoccupazione di mia moglie e mia fosse l’approccio da villaggio turistico degli animatori dell’oratorio estivo che le insegnavano il movimento sexy e altri balli di gruppo tremendamente inappropriati per la sua età. Quanta spensieratezza. Oggi mia figlia è una giovane donna di diciannove anni che, in questo preciso momento, è alle prese con il TOLC-E, il test preliminare per l’accesso alla facoltà di Scienze Politiche. O, almeno ci sta provando: ha scelto la modalità da remoto ma, proprio stamattina, anzi, anche stamattina, c’è qualcuno nel vicinato che ci dà dentro con il tosaerba mentre uno dei requisiti per sostenere la prova da casa è proprio posizionarsi in un ambiente silenzioso. Il paradigma del benessere psicofisico della contemporaneità è lo smartworking ma non dobbiamo dimenticare che lavorare da casa riduce i gradi di separazione tra quello che facciamo e quello che fanno i nostri vicini, che in genere sono vecchi di merda che non sanno come passare il tempo se non rompendo i maroni al prossimo con le attività più fastidiose possibili. Io, per sfortuna, non possiedo un giardino ma sono il proprietario di un discreto impianto stereo e, soprattutto, numerosi dischi rumorosissimi. Spero così di poter ricambiare un giorno gli anziani giardinieri della zona con del sano punk industriale. Oggi il moroso di mia figlia non è più solo il protagonista di un episodio di questo blog ma ha preso corpo ed è realtà. Il passaggio dal piano narrativo a quello fisico si è manifestato ieri sera a cena. Per mia fortuna non è un musicista come quello che avevo descritto ma un bravo ragazzo, molto premuroso, serio e sicuro di sé. Anche mia figlia, del resto, ha già conosciuto i genitori di lui. Devo ammettere che è una pratica che mi ha sorpreso. Una volta, l’ingresso in famiglia costituiva un momento di una certa solennità che si riservava non dico per il fidanzamento ufficiale ma, per lo meno, quando le cose si iniziavano a fare sul serio. Oggi, probabilmente, l’aperta condivisione delle esperienze con i genitori è frutto dell’eccessiva ingerenza reciproca tra le rispettive vite. Non dobbiamo stupirci se, avendoli trattati come adulti sin dai tempi dell’asilo, si siedono alla pari con noi ora che lo sono davvero. Sono comunque felice che si sentano così consapevoli dei loro sentimenti, indipendentemente se si tratterà di una relazione duratura o di un amore estivo.

caf

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I centri di assistenza fiscale qui da noi si chiamano come la triade più potente della prima repubblica. E i segnali sono ovunque: qualche giorno fa è morto Arnaldo Forlani proprio mentre un impiegato ACLI mi stampava l’F24 di una dichiarazione integrativa per redditi che non ho pagato nel 2020. Non voglio girarci intorno: sono un evasore come tutti gli altri, anch’io faccio parte di questo popolo che sta fottendo i soldi del PNRR all’Europa. Quindi non credetemi se vi confesso di non averlo fatto apposta. Nel 2019 ho portato a termine due lavorazioni dello stesso importo (poca roba, qualche centinaio di euro) e, nell’agitazione di fare tutte le cose per bene, ne ho dichiarata solo una. Se fate il 730 precompilato saprete benissimo il senso di solitudine che tale procedura trasmette, mentre preparare la dichiarazione congiunta ha un che di romantico, ti fa sentire indissolubilmente legato al partner. Mi piace poi l’idea del cassetto fiscale, come quello dei calzini davanti al quale noi mariti non notiamo l’evidenza e ci affidiamo allo spirito di osservazione delle nostre mogli. Una dichiarazione integrativa induce invece a uno stato di irrequietezza interiore con l’aggravante delle paure irrazionali per una gamma di cose che vanno dal pignoramento della casa alla morte che, come dicevano i Depeche Mode, è davvero dappertutto a partire dall’F24 che è uno strumento di tortura. Intanto mi chiedo se era il caso di chiamarlo così. Poi tutta quella sfilza di codici da inserire e la difficoltà nel reperirli. Ma non do la colpa solo al fisco. Il modulo online del mio sistema di home banking ci mette del suo e prima di azzeccare la combinazione giusta mi tocca sempre fare qualche tentativo. Fino al jackpot finale – non si vince niente se non la sicurezza di non incorrere in una ulteriore sanzione – sempre che il giochino non ti renda dipendente. Secondo me sarebbe stato più semplice detrarre direttamente l’ammanco del 2019 dal rimborso di quest’anno, evitandomi tutto questo sbattimento. Da questa esperienza ho però capito una cosa: tutte le cose che comportano maneggio di soldi pubblici devono per legge chiamarsi CAF.

acqua

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C’è un panettiere proprio sotto casa, l’edicola è poco più avanti. Gli alti edifici sono stati costruiti in modo così ravvicinato da chi ha fondato questo borgo seguendo una logica di isola di calore al contrario. Il sole non batte mai e l’aria che si incanala lungo le vie cala di temperatura come nei corridoi freddi dei data center di ultima generazione. Ho indossato una camicia con le maniche corte che porto fuori dai calzoni. Per godere di un senso di maggiore libertà lascio volutamente aperto l’ultimo bottone. Il vento si insinua da lì sotto e l’effetto sulla pelle è formidabile. La gente si affretta, come me, a sbrigare il minimo indispensabile delle faccende in quelle indefinite ore del mattino, prima che il caldo ci sorprenda in tutta la sua intransigenza. Riecheggiano un po’ ovunque i rumori della vita che riprende all’alba. Vecchi portoni in legno che sbattono chiudendosi dietro a chi si riversa nelle strade, altri che cigolano spalancandosi dopo lo scatto della serratura, spinti da chi già rientra. Tormentoni estivi trasmessi dalle radio accese nei bar prima che l’avviamento dell’aria condizionata imponga agli esercizi di isolarsi dall’esterno. Bambini che rivendicano senza successo la necessità dei giochi da mare esposti dal tabaccaio sulla piazzetta più avanti. E poi le infradito strascicate sulla pavimentazione ancora grondante delle secchiate d’acqua dei negozianti che se ne prendono cura. Approssimandomi al fondo della via, superato l’inconfondibile odore dei banchi della pescheria già assediata dai turisti, si sente il vociare dei primi bagnanti, qualche gommone a motore che prende il largo, qualcuno che intima a qualcun altro di fare attenzione, le onde cortissime che si abbattono, con il loro ciclo eterno, sul bagnasciuga. Per abitudine faccio un veloce controllo per non dover tornare indietro. Il libro, il telefono, gli auricolari, una rivista, l’acqua, la focaccia, il telo, il portafogli. Ancora un passo e sarò investito dal sole. Un altro e sarò arrivato.

effetto presenza

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Essere o non essere, sosteneva il Bardo. Una dicotomia che ha avuto un discreto successo, se ci pensate, anche perché non fa una piega. Non c’è una zona grigia. Tutte le condizioni intermedie che ci vengono in mente – il mondo è pieno di gente che è come se non ci fosse, oppure pensate a certe dipendenze che ci riducono a larve – sono poco più che una boutade. Nel mondo del lavoro c’è un sistema per attestare se ci siamo o non siamo ed è il badge, che per chi lavora nella pubblica amministrazione assume la denominazione di cartellino. La pandemia ha cambiato molte delle carte in tavola. Possiamo non essere ma ci siamo lo stesso, collegati in qualche modo da remoto. Oppure anche scollegati. Siamo in smart e la nostra giornata non ce la portiamo più a casa perché a casa ci siamo già. Quale azione, in questo scenario, è in grado di sancire il momento in cui ci cade la penna e possiamo considerarci out of office? Magari non spegniamo nemmeno il pc perché, effettuato il log-out dalla piattaforma aziendale, apriamo una nuova scheda di Chrome per avviare il nostro social preferito senza muoverci di un millimetro. Siamo fuori dall’ufficio – inteso come condizione e non come luogo fisico – ma rimaniamo comunque sul computer con cui lavoriamo.

Troviamo un ulteriore paradosso se pensiamo che gli orari, e questo accade non necessariamente se lavoriamo da remoto, non esistono più. Il concetto di inizio e fine turno è talmente superato che con la testa stiamo al lavoro senza soluzione di continuità. Resta un piccolo led rosso acceso che ci avverte che siamo in condizione di stand-by, non liberi del tutto, pronti per essere riaccesi grazie a un sistema operativo sempre all’erta. Non c’è un modo per spegnere completamente il senso di responsabilità che ci portiamo dentro per quello che facciamo. C’è una interessante pellicola in giro in questo periodo che si intitola Afterwork del regista Erik Gandini, quello di Videocracy, che tocca queste questioni. Si vedono, per esempio, le telecamere operative sempre accese nell’abitacolo dei furgoni dei corrieri, installate per ragioni di sicurezza ma pensate come sistema di controllo: essere o non essere sul posto di lavoro?

A scuola non abbiamo ancora il badge – le realtà più innovative lo hanno già introdotto – ma comunque la firma sul registro elettronico attesta il fatto che abbiamo preso servizio in classe. Ci sono occasioni in cui è necessario ricorrere a strumenti obsoleti come il foglio firme, tecnicamente una tabella in Word con il nome stampato in Calibri su una colonna e a fianco una sfilza di colonne che rappresentano i giorni da riempire con lo stesso contenuto della cella a sinistra ma scarabocchiato di nostro pugno. Un documento che può essere prodotto da chiunque ma che non è da meno dei sistemi digitali in quanto a possibilità di contraffazione. I docenti più sgamati nell’uso delle piattaforme online custodiscono le credenziali dei colleghi che hanno meno dimestichezza, questo per dire che chiunque potrebbe coprire l’assenza di qualcun altro.

Essere o non essere è quindi una questione di senso del dovere. A giugno, a lezioni finite, si rinnova ogni anno la sfida degli adempimenti conclusivi e della preparazione per l’anno successivo. Ci si incontra con diversi assortimenti – per disciplina, per interclasse, per ordine – e si compilano monumentali relazioni per accertarsi di quello che è stato fatto e programmare quello che seguirà. Ma senza le lezioni in classe non siamo soggetti a una scansione rigida di tempi e turni. Ci vediamo ogni mattina per tre ore, ci distribuiamo a seconda di quello che dobbiamo fare e procediamo. Ogni volta qualcuno risulta assente perché fa parte di una commissione a sé oppure ha preso un permesso ma non sempre la struttura amministrativa ci mette al corrente di quello che fanno gli altri. Questo per dire che, foglio firma o no, volendo chiunque potrebbe approfittare di questa approssimazione. Nella scuola le maglie dei controlli sono piuttosto larghe, e non solo su orari e presenze. Sta tutto a noi, sta tutto a me. Avete presente la barzelletta di Pierino? “Oggi non voglio andare a scuola!”. E Pierino risponde: “Ma devi andare a scuola. Sei l’insegnante!”. Ecco, da William Shakespeare a Pierino i gradi di separazioni sono davvero ridotti al minimo.

allodole

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Sabato sera, mentre andavamo a teatro, una giovane donna tedesca si è offerta di cedere il posto a mia moglie sulla gialla. Ieri l’altro è invece toccato a me essere percepito come anziano quando ho impersonato il target per la truffa dello specchietto. Se volete sapere subito come è andata a finire, vi ringrazio per l’interessamento. Non mi è stato estorto nemmeno un centesimo ma più per demerito della coppia di truffatori che per la prontezza del sottoscritto. Anzi, fino alla fine ho insistito – spinto più da quel fastidio di cacciare dei contanti che è un aspetto fondante di noi liguri, più che dal senso civico – per persuadere l’uomo, senza successo, a compilare congiuntamente il modulo di constatazione amichevole, mentre quel bellimbusto che mi fronteggiava voleva a tutti costi chiuderla lì, con qualche decina di euro brevi manu come risarcimento del danno allo specchietto che si era autoinflitto al fine di perpetrare la truffa. Ma forse il malintenzionato ha intuito di avere a che fare con un esemplare di vittima talmente dimesso che non se l’è sentita di darmi una testata, impossessarsi del portafoglio che brandivo per convincerlo a farsi una foto della mia carta di identità per poi contattare le rispettive assicurazioni in tutta calma, considerata la fretta che aveva di concludere, e lasciarmi lì, nel parcheggio semi deserto del Bennet prima dell’apertura mattutina. Invece, dopo tutta quella messinscena con chissà quale oggetto di gomma con cui ha colpito la portiera della mia auto nuova mentre lo affiancavo sulla superstrada per Magenta, ha inanellato una serie di scuse per battersela a gambe – mia moglie (la complice seduta al suo fianco) è in gravidanza a rischio, abitiamo a Torino, torniamo da una visita all’ospedale, preferisco comprarmelo da uno sfasciacarrozze che rischiare un aumento dell’assicurazione, le cavallette – e mi ha lasciato lì da solo, a prendere lentamente coscienza di quello che avevo appena rischiato. È stato sufficiente una passata con il palmo della mano sulla carrozzeria per rimuovere lo strato di gomma nera, conseguenza del colpo inferto alla macchina. Ma giuro che, fino a quel momento, nulla nella mia testa mi aveva indotto a diffidare delle sue intenzioni. Ecco perché il vero superpotere non è l’invisibilità per spiare le donne nude, tantomeno la pozione magica per menare chi ti è inviso. Se mi facessero scegliere tra i desideri impossibili so cosa farei, al netto di trascorrere una giornata a Roma ai tempi di Ottaviano Augusto. Opterei senza alcun dubbio per la capacità di mantenere la calma, analizzare a sangue freddo la situazione. Capire al volo quello che sta accadendo, agire di conseguenza e prendere la decisione migliore.

trasforma la tua vasca in doccia

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Ciao, mi chiamo Serena e ti scrivo per chiederti se puoi pubblicare questa mia riflessione sul tuo blog. Sono passata dal multiverso al mio box doccia di un metro per 90 cm in meno di un minuto. Ho iniziato pensando a quanto io potessi essere insignificante in una pluralità di dimensioni. Sai, ho visto ieri sera il film dei Daniels e – pur avendolo letteralmente adorato – sono giunta alla conclusione che fino a quando le storie di fantascienza avranno un punto di contatto con la realtà che non esiste (nel caso di EEAAO l’app di Waymond Wang e i suoi auricolari) non consentiranno un trasporto totale dello spettatore. O, meglio, app come quelle si possono anche sviluppare, ma qual è il protocollo che traduce i dati in materia? Ho ridotto così immediatamente le aspettative e ho ricondotto quello che volevo dimostrarmi a un universo solo, che è più alla nostra portata, vuoi per approccio scientifico o anche per mera semplificazione spirituale. Eppure nemmeno lì mi sono trovata. Così, come quegli effetti cinematografici che zoomano su dettagli incredibilmente più piccoli, mi sono ritrovata finalmente e definitamente sola sotto l’acqua rovente e giuro di aver fatto di tutto per limitare i consumi, visti i tempi che corriamo. Ho valutato due strategie opposte: impegnarmi a incontrare tutte le persone con cui ho tessuto relazioni sui social dal vivo, almeno una volta l’anno, e di dichiarare questo che potrebbe sembrare il più buono dei buoni propositi proprio sui miei profili. L’acqua mi batteva forte e caldissima sulla nuca, una condizione di benessere totale che mi ha trasportato alla consapevolezza che poi ci sarebbero stati decine e centinaia di persone a prenotarsi per uno slot, nei commenti. Così ecco l’illuminazione di chiudere le cose che scrivo, lasciando solo la possibilità di approvare. Grazie.

crumiro

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Il motivo per cui non sciopero mai è perché credo che ci siano alcuni settori, il pubblico in primis, in cui scioperare si colloca agli antipodi del buon senso. Scuola, trasporti, sanità, difesa e giustizia. Il sillogismo per cui al terzo passaggio si danneggia il potere si arena disastrosamente al secondo, con gente che non può prendere ferie perché non sa dove piazzare i figli, passeggeri a cui vanno a monte viaggi programmati da settimane nell’impossibilità di contattare un cazzo di servizio clienti Trenitalia e ottenere un rimborso, malfattori che la fanno franca, pazienti che rimandano terapie o processi che si allungano di qualche giorno rispetto ai lustri già messi in conto. Ho visto mamme apostrofare insegnanti, pendolari malmenare capotreni, ho assistito a risse in corsia. Nei tribunali ancora nulla, per fortuna non ne ho mai avuto bisogno. Ammiro invece chi sciopera nelle acciaierie, nelle agenzie di comunicazione, nelle banche, nelle multinazionali dell’ICT, nei poli della logistica, nell’automotive, nelle finanziarie, nell’abbigliamento, nel settore immobiliare e persino nel franchising delle agenzie di lavoro interinale, che è un bel paradosso. Ma nei servizi ai cittadini no, dai. La gente è già abbastanza stressata di suo e nell’era dei ministeri della semplificazione lo sciopero del settore pubblico è un’astrazione impossibile da cogliere. Perché mettere le persone ancora di più a disagio?

techsplaining

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La lezione più bella e edificante che ho imparato da quando lavoro nella scuola è intercettare in tempo utile gli insegnamenti non richiesti da chi hai di fronte e, di conseguenza, interrompermi prima. Credo di aver interiorizzato in classe sulla mia pelle il punto in cui fermarmi in tempo e di essere riuscito ad applicare lo stesso principio fuori, nella vita. Quello che mi manca, e non ho ancora trovato un corso di formazione in grado di certificare questo aspetto, è il riuscire a non stupirmi se le persone non riescono a fare altrettanto ma, a prova di quello che ho scritto prima, evito comunque di spiegare loro come si fa.

f24

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Ho chiamato il servizio assistenza dell’INPS per chiedere due cose: quali codici utilizzare per effettuare il versamento del contributo che spetta a chi fornisce una prestazione occasionale e ha già superato i 5mila euro di imponibile, che corrisponde a un terzo del 33,72 per cento (i restanti due terzi sono a carico del datore di lavoro) e poi se arrotondare in eccesso o in difetto il calcolo di tutto il tempo trascorso al computer da quando ho raggiunto la maggiore età per calcolare, appunto, il risarcimento in ore vita. Come per il rimborso del 730, voglio infatti chiudere il prima possibile ogni credito con lo stato non perché sia abbia qualcosa contro la repubblica italiana, ci mancherebbe, è che mi sto vivendo male questo scorcio di melonoma della democrazia e così è meglio mettere subito le cose in chiaro. Nel cassetto fiscale ci sono persino le giornate perse a usare Cubase sull’Amiga 500 per fare le basi MIDI e nel lavoro che ho svolto a scrivere la tesi di laurea su quell’Olivetti M24 che ho ancora in soffitta è compreso addirittura il tempo che ci ho messo a copiare i file dai floppy a 12 pollici a quello a 7 che mi era stato richiesto dalla legatoria che poi ha stampato i tre volumi (uno per la segreteria, uno per la commissione e uno per me). L’esito del calcolo sarà inserito solo nel cedolino di giugno, a questo punto, ma da quello che ho capito avrò una bellissima sorpresa.