generatore automatico di ricordi da condividere con i vostri contatti sui socialcosi

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Potremmo indagare sul motivo che spinge i colossi dei social media a far di tutto per aiutarci a creare ricordi e a condividerli ma si rischia di cadere nella letteratura di fantascienza di serie B, anzi, di seconda categoria o qualche analogo girone di dilettanti che, a giocare, rischi un’entrata di quelle che poi la caviglia non te la ritrovi più. O ancora peggio nella teoria dei complotti che oramai tutti consideriamo insulti all’intelligenza del genere umano. D’altronde dal momento in cui accendiamo il pc a quello in cui mettiamo al corrente il mondo di un nostro ricordo trascorrono sempre meno istanti, fateci caso. Ci dev’essere un filtro alle cose invece assente in natura perché dal vivo si osserva quello che ci circonda e quello che ci circonda stimola osservazioni sul presente o desideri per il futuro. Non è un teorema assoluto, ognuno poi nella sua testa fa quel che vuole. Ieri per esempio ho scoperto che a Milano c’è una stazione dove parte a malapena un treno all’ora e quel treno va in una sola direzione. Non ho ricordi legati a questo curioso fenomeno, per esempio. Ma se ne avessi letto un parere magari condito dall’estro narrativo di qualche scrittore del web mi sarei precipitato a condividere almeno due o tre richiami ad altrettanti romanzi in cui questa dilatazione dei tempi del trasporto pubblico avrebbe un suo perché. Per quanto riguarda gli auspici per il futuro, poi, il mondo è un serbatoio senza fondo. Sempre ieri tornavo da Abbiategrasso in macchina con una persona dal cui racconto delle esperienze ortodontiche nelle regioni una volta aderenti al Patto di Varsavia cercavo di allontanarmi almeno mentalmente e, osservando le piste ciclabili lungo i canali che conducono a Milano, valutavo quante scappate in bici potrei fare in tutti i fine settimana da qui all’eternità. Solo un dettaglio mi ha ricondotto alla realtà: un cliente che sta per trascorrere per lavoro una settimana a San Francisco, quando a me solo quella trasferta di qualche ora ai confini dell’area metropolitana milanese mi aveva fiaccato come non vi potete nemmeno immaginare. Meglio tornare su Internet, dove ogni giorno c’è qualcuno che ci ricorda che due anni fa abbiamo messo quella foto o scritto quella cosa che magari volevamo dimenticare. Mi sono ripromesso di cercare in rete e poi di adottare come ricordo forzato da condividere con tutti i miei contatti l’esattezza della teoria secondo cui, percorrendo in auto una rotonda, occorre mettere la freccia anche quando si prosegue per l’uscita che continua la direttrice di provenienza, perché anche in quel caso un po’ a destra di gira. Se si compie invece un cambio di direzione di 90 gradi, le frecce da mettere sono due: prima a sinistra per girare, e poi a destra per imboccare la strada. Mi sono imbattuto invece in una di quelle iniziative dal basso a cui aderire, questa volta per una causa più che giusta e civile: l’abolizione dello scovolino da cesso. Possibile che in una casa di un paese occidentale si debba osservare una consuetudine così anti-igienica come un recipiente per tenere a mollo un simile raccoglitore di schifezze umane? Perché l’uomo si fa difensore di un così vistoso punto di contatto tra le dimensioni della normalità e della porcheria? Facciamo che noi italiani, d’ora in poi, passeremo alla storia come la popolazione che per prima ha fatto a meno dello scovolino, come abbiamo smesso di fumare nei ristoranti, abbiamo bandito l’amianto dalle nostre abitazioni e abbiamo abolito il contante dalle nostre transazioni (trova l’intruso).

ce l’avete sempre in mano

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Chiedete pure ad Anna se la mia è una fissazione. Erano appena usciti i Nokia 3210 e già io mi lamentavo di quelli che girano per la strada con il cellulare in mano scrivendo sms e ne avevo una considerazione pessima tanto verso quelli che, agli albori della tecnologia mobile, si mettevano in piazza con ‘sti robi a ostentare le loro possibilità economiche. Con Anna c’era stata una litigata che non vi dico. L’avevo accusata di comportarsi come uno di quei quindicenni che passano il tempo a giocare con Snake, avete presente? Tutto perché camminava al mio fianco e anziché bearsi della mia compagnia si smessaggiava con l’amica. Il fatto era che probabilmente si annoiava con me, come biasimarla. Comunque quella del tenere il telefono sempre in mano è un’abitudine che mi scatena il fastidio perché è anti-estetico e vi fa davvero sembrare dei lobotomizzati. Succede anche nei confronti di mia figlia: esce per incontrarsi con le amiche e, non usando ancora una borsa, si tiene quel coso in mano con il rischio, oltretutto, di perderlo. Ed è proprio lì che volevo arrivare.

Ho appena rinvenuto un Huawei non so che modello ma di quelli grossi. Era incustodito sul sedile del treno in cui ho trovato posto. Il bello è che di fronte c’era già seduta una signora a cui ho chiesto se fosse suo. Mi ha risposto di no, al che ho riflettuto sul comportamento bizzarro. Cosa aspettava a intervenire? Trovi un oggetto di valore su un treno e aspetti che qualcuno se lo prenda? Ho scambiato qualche parola mentre cercavo di risalire all’ultima chiamata, e constatata l’impossibilità di agire a causa del blocco numerico inserito ho capito che la signora non si sentisse molto a suo agio con la tecnologia. L’ho rassicurata sulle mie buone intenzioni circa la restituzione e mi sono anche offerto di lasciarle i miei recapiti, non so l’utilità di questa precauzione ma comunque devo averla convinta.

Dopo un po’ finalmente ha chiamato la madre della proprietaria, una certa Greta che a quanto ho capito studia in un liceo che si trova nel paese a fianco al mio, alla cui stazione è scesa combinando il patatrac. E posso anche immaginare come è andata: il tempo del viaggio passato a spippolare sullo smartcoso in mano e al momento della discesa in tutta fretta il telefono è rimasto lì. Ragazzi miei, abituatevi a tenere il telefono in borsa, o nella tasca della giacca. Si tratta di un oggetto di valore, per di più personale, ancora di più se pensate che non l’avete pagato voi ma i vostri genitori con il frutto del loro lavoro. Se capitasse a me andrei nel panico, ed è per questo che ho rassicurato la mamma di Greta quando ha chiamato dandole nome e numero ed esortandola a chiamarmi per assicurarsi che sono veramente io. E invece boh, non ha più richiamato, si vede che si fida. Il mio egocentrismo va a mille, come potete immaginare, quando compio una buona azione. Non so se sia giusto o sbagliato riempirsi di orgoglio in questi casi, credo che però l’importante sia il fine della cosa, se poi uno lo fa per darsi lustro sul proprio blog son fatti suoi, giusto? Ecco: io il mio ego ce l’ho sempre in mano, come vedete, pronto a metterlo in bella mostra in occasioni come queste. Vi confesso però che quando ho raccolto il Huawei e ho dato un’occhiata alla cover, la scritta “Odio tutti” stampata sul retro mia ha fatto venire voglia di ricambiare il sentimento non restituendolo. Cara Greta, gli slogan sono semplificativi di natura, spero tu possa diventare grande imparando a fare le eccezioni e a tenere il telefono al sicuro dalla tua distrazione.

scegli qui la tua idea imprenditoriale di successo, mettici i soldi e poi dividiamo

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Ci sono un francese, un tedesco e un italiano e non è una barzelletta. Ci sono un francese, un tedesco e un italiano che avviano ciascuno la propria start up e non sto qui a mettere i puntini sulle i sulle maggiori agevolazioni o meno con cui in un paese si riesce a fare impresa rispetto a un altro.

Il francese si è inventato un sistema che crea reti in tempo reale tra smartphone di gente in tutto il mondo che ascolta la stessa musica simultaneamente. Stai andando al lavoro e in cuffia hai il nuovo singolo dei New Order? Se hai l’app dell’inventore francese attiva ecco che istantaneamente sei inserito in un insieme di persone composto da tutti quelli che al mondo stanno facendo la stessa cosa. Manco a dirlo, il sistema è stato già acquisito da una multinazionale dei social network per essere esteso a tutte le attività che l’uomo è in grado di saper fare. Stai accendendo la carbonella del barbecue? Stai oliando la porta blindata perché ogni volta che la apri e chiudi cigola? Sei nei boschi in cerca di funghi? Stai dormendo? Sei al cesso? Sei in coda nella sala d’aspetto del dottore? In tutto il mondo, in ogni secondo, si fanno e si disfano milioni di reti a seconda di ciò in cui ognuno è intento, per consentire la condivisione dell’esperienza.

L’italiano invece sta commercializzando con successo gli auricolari a diametro variabile che si adattano alle orecchie di ciascuno di noi. Voi non potete capire il dramma di avere un orecchio che non trattiene gli auricolari privi di gommini o quelli delle dimensioni standard. Ogni due per tre noi asimmetrici siamo lì a sistemarci le cuffie mentre camminiamo perché non stanno ben conficcate dentro. Che poi, mi chiedo, con tutto questo mettere e togliere auricolari chissà se un giorno il genere umano produrrà ancora cerume o si evolverà secondo questa abitudine. Comunque l’inventore italiano ha brevettato questi auricolari che li metti dentro e si gonfiano e si dilatano fino a quando non sono perfettamente stabili. Mi sembra una figata, così a caldo, vero?

Il tedesco invece si è lanciato nel business degli insetti commestibili. Avete letto bene. Quante volte siete inorriditi di fronte al cuoco vagabondo di turno nelle trasmissioni televisive che gira il mondo a provare per voi le specialità alimentari di culture diverse e che si fa i panini con le cavallette fritte o ingoia cucchiaiate di formiche lesse o si fa un bel cocktail di scarafaggi? Ecco, quello che non ammazza ingrassa, si diceva una volta. Noi mangiamo le lumache? C’è gente agli antipodi del nostro metro quadrato enogastromico che va matta per i tafani ripieni (me li sto inventando eh). Così questo imprenditore tedesco ha mollato tutto e si è messo nell’import/export di insetti che si possono cucinare e mangiare. Ha aperto una catena di rosticcerie con posti a sedere in cui puoi gustare gli insetti che preferisci nel modo che più ti aggrada. Scegli tu che cosa farti cucinare, paghi, ti siedi, e dopo ti arriva il piatto pronto da divorare. Puoi anche portarti i tuoi insetti preferiti da casa. Una confezione di grilli da far saltare in padella, una manciata di vermi e da gustare a contorno di un piatto di carne marcia, le farfalle della pasta da usare come condimento della pasta di tipo farfalle. Questa è buona, vero?

preferisco sparare cazzate

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Ma voi lo sapevate che Ferdi gira con la pistola? Qualcuno ha messo in giro la voce, per forza è stato uno dei suoi collaboratori più stretti, uno di quegli sfigati nerd che si dividono con lui la gestione dei sistemi informativi aziendali. Quelli che chiami quando non va la rete, non riesci a stampare, ti sei beccato un virus o hai cancellato per sbaglio un file e Ferdi o uno dei suoi sottoposti arriva con quei software che ti tirano fuori tutto come una lavanda gastrica o un clistere a seconda di dov’è che sei intasato. Il pc si mette a vomitare persino i file di cinque anni prima e nella melma che spurga, oltre al recupero di quello che ti serve, ci scappa per forza qualcosa di cui vergognarsi, ma d’altronde. Ferdi è stata la terza persona che ho conosciuto qui, ho pranzato con lui il primo giorno di lavoro ma se avessi saputo che gira con la pistola me ne sarei guardato bene. Comunque vengo a sapere la notizia e inizio a preoccuparmi. Magari Ferdi è un folle che una mattina che trova traffico o Fastweb non gli risponde subito fa una strage tra colleghi. Allora, visto che un po’ di confidenza ce l’ho, provo a parlargli. Voglio capire. Ferdi fuma in continuazione ed è anche sovrappeso, ora i coccoloni sono un terno al lotto ma se a meno di quarant’anni hai un tenore di vita così rischioso la pistola ti serve a poco. So anche che Ferdi non è per nulla di destra, anche se quando lo vedi sempre sudaticcio e con quel piglio un po’ decisionista te lo figureresti in piedi con le sentinelle di stocazzo o con quegli squilibrati di nazifasci grillo-casapoundiani. Così, seduti a un tavolino dello stesso bar dove abbiamo pranzato insieme il mio primo giorno di lavoro, serviti dallo stesso cameriere che tutti scambiano per un noto pilota di formula uno, finalmente Ferdi mi mostra la fondina che tiene curiosamente dietro ai pantaloni, sopra l’osso sacro. Sembra un’arma giocattolo, o una di quelle che nei film mettono in mano alle donne perché hanno un’impugnatura adatta alle mani piccole, a differenza di quelle di Ferdi che ha delle dita che sembrano salsicciotti e già non so come faccia a domare la nanotecnologia. Quando gli chiedo spiegazioni mi dà la risposta più ovvia. Si sente sicuro. E mentre cerco di dargli il mio punto di vista più ipocrita sulla libera circolazione delle armi, quello che la mia estrazione culturale mi impone come risposta standard, penso a quante volte piacerebbe anche a me spianarla, anche solo scarica, in certi momenti in cui davvero a convincere la gente che sta oggettivamente sbagliando non si ha altra scelta. Mi immaginavo uno di quei cannoni come l’ispettore Callaghan, e invece tutto si concentra in pochi centimetri cubi, un volume così irrisorio ma dal potenziale così dirompente. E mi sento davvero attratto, come una vertigine, tanto che Ferdi la mette via subito, forse ha dedotto che mi piacerebbe provare a tenerla in mano per vedere l’effetto che fa.

il lunedì nero della tecnologia

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Proprio mentre il mio collega art director scartava dalla confezione, che solo quella già costa almeno un centone, un super mega mac nuovo di pacca di quelli con processori six core che non so nemmeno cosa significhi ma ci puoi far girare tutte le suite Adobe dell’universo con almeno due o tre istanze di Final Cut contemporaneamente e riprodurre musica e andare su tutti i siti internet che vuoi senza nemmeno un millisecondo di latenza, io mi amareggiavo constatando che l’ingresso delle cuffie del portatile che ho chiesto in agenzia, che mi serve per spostarmi in un’altra stanza quando i miei colleghi fanno casino o sbraitano nelle loro call in viva voce fottendosene di tutto e di tutti, non va.

Che già il portatile in sé è un pc entry level di quelli grigio-account manager dell’IT, avete presente? Ora che fanno tutte le superfici fighe e colorate ci sono una o due marche che ancora insistono con i crostoni che dieci anni fa erano considerati lo standard del computer aziendale. Quello che mi hanno comprato ha un processore medio che però con Outlook, Word, Spotify o I-Tunes e due o tre social accesi insieme già affanna un po’ provato o comunque ha le stesse prestazioni del mio computer che volevo sostituire, un mini-mac che dieci anni ce li avrà tutti ma che con 8 giga di ram tutto sommato fa tutt’ora la sua porca figura.

Solo che davvero, ho bisogno di isolarmi perché siamo in 7 in una stanza con millemila computer e monitor e se devo concentrarmi non è certo l’ambiente più adatto. Senza contare che le cuffie sono per me uno strumento fondamentale, sia per trascrivere le interviste audio che faccio per lavoro che per i video, che rientrano nelle mie mansioni. Ma soprattutto per ascoltare la musica che nove volte su dieci mi occorre come fonte di ispirazione o, per lo meno, come substrato su cui pensare le cose che devo scrivere. Se mi permettete una metafora, quando si facevano i graffiti alle elementari colorando con il pastello un foglio e poi passandoci sopra uno strato di nero per poi grattarlo via, ecco la musica in ascolto è quello strato di nero togliendo il quale riesco a comporre i testi per i clienti, che messo così sembra pure un lavoro creativo.

Ho segnalato il guasto ma non potete immaginare come ci sono rimasto male perché era lunedì (ieri) e avevo appena terminato di importare tutta la posta in Outlook che non vi dico lo sbattimento, poi tutti i file delle lavorazioni e le varie installazioni dei software che mi servono. Quindi alla prima prova sul campo, foglio di Word bianco aperto e mani pronte a scrivere l’ennesima marchetta, le cuffie con la musica ispiratrice hanno fatto cilecca. Ho provato e riprovato a smanettare nel pannello di controllo ma niente, dev’essere proprio l’ingresso rotto. E pensare che mentre ero in vacanza avevo sognato che il portatile che mi aspettava nuovo in ufficio aveva, al posto della tastiera, i quattro pulsantoni colorati di Simon Says, avete presente? La mattina mi ero svegliato di buonumore, l’idea di dotare un PC con questo sistema di periferica ludica mi era sembrata geniale. Ma c’è poco da ridere perché ieri sera, a casa, già sconsolato per il fatto che non potrò ascoltare la musica mentre lavoro, ho tristemente constatato che pure l’ingresso delle cuffie del mio portatile a casa è diventato improvvisamente difettoso. E così niente, mi sono fatto una tisana rilassante perché i grafici in ufficio da me da oggi avranno un potentissimo nuovo mac dedicato e io boh, tra casa e ufficio meglio non pensarci.

UPDATE: oggi funziona tutto. Misteri dell’IT. Meglio così. Chiedo scusa se vi ho allarmati inutilmente, la vecchia storia dell’al lupo al lupo, la sapete no?

scatto alla risposta

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I film epocali, quelli che quando sono usciti hanno fatto la storia del cinema o per lo meno il pienone ai botteghini, bisognerebbe averli visti al clou del loro successo perché, a distanza di decenni, è facile che perdano un po’ del loro smalto e non solo se si tratta di storie sul futuro o distopiche, pensate a quante volte ci siamo detti che Spazio 1999 o Kubrick eccetera eccetera. Ci sono film poi considerati pietre miliari magari perché realizzati con tecniche che poi hanno fatto scuola negli anni successivi e quindi oggi in cui con gli effetti virtuali si fanno le cose quasi meglio che dal vero è sufficiente vederli con gli occhi della riconoscenza. Io che sono un recidivo recensore di film senza averli visti – appartengo alla corrente dei critici pregiudiziali – avrei così dovuto seguire “Matrix” qualche sera fa mentre lo vedeva mia figlia, tenendo conto che non l’avevo nemmeno visto ai tempi. Ma poi due chiacchiere, una controllatina ai socialcosi sullo smartphone, un’occhiatina allo schermo della tele senza trovare elementi rassicuranti a cui rivolgere l’interesse, fatto sta che anche in questa che probabilmente è stata l’ultima occasione in cui avrei potuto rimediare, alla fine ne ho subito solo il chiasso degli effetti speciali, qualche conversazione difficile da comprendere senza aver seguito la storia e un paio di canzoni di successo nel 1999 o giù di lì che, comunque, ho riascoltato con la tenerezza che muovono le cose che sono state innovative un tempo ma che oggi sembrano a tutti gli effetti oggetti di antiquariato. E, a proposito di ferrivecchi, mi è stato fatto notare che un modello di telefono in dotazione agli attori di Matrix era lo stesso che utilizzavo io. Da qualche parte, in cantina, devo avere ancora il Nokia 7110 con cui ci si poteva persino connettere a Internet attraverso il WAP, funzionalità che non ho mai sfruttato e non saprei dirvi il motivo, probabilmente perché non avrei saputo cosa cercare da visualizzare su un display che, pur più grande degli standard, consentiva esperienze all’utente piuttosto approssimative. Era un telefono per chiamare, ricevere e mandare sms e niente di più, come tutti i dispositivi dei tempi. Ero riuscito però a caricare come suoneria una versione a beep beep dell’Internazionale che quanto squillava in pubblico mi inorgogliva come un idiota ogni volta. Ma la caratteristica principale del 7110 era lo slider a scatto che scopriva la tastiera con una tecnica davvero avveniristica e molto scenica, per questo è stato scelto per il film, anche se in Matrix si vede il suo predecessore che è quasi uguale, l’8110. Il meccanismo a molla dello slider, che avviava e interrompeva le telefonate, manco a dirlo è stata la prima cosa a rompersi quando l’ho fatto cadere. Una volta il Nokia 7110 me l’hanno pure rubato ma me ne sono accorto subito e, non ci crederete, sono riuscito a essere abbastanza convincente da farmelo restituire solo a parole, probabilmente perché era il 2001 e, come modello, era già stato ampiamente superato.

se vi sentite compressi almeno zippatevi

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Chi l’avrebbe mai detto che anche il nuovo millennio, questo che stiamo vivendo da protagonisti, avrebbe lanciato al genere umano una nuova sfida di adattamento. Gli ultimi sviluppi della scienza e della tecnologia ci avevano illuso che no, oramai tutto era sotto il nostro controllo a parte certi aspetti naturali che, sapete, sono procrastinabili quanto si vuole ma prima o poi ci toccano. Invece ancora una volta abbiamo dimostrato di non essere in grado di imporci completamente adattando i grandi cambiamenti della storia alla nostra natura ma, al contrario, di abbandonare sempre qualcosa di importante per strada e di lasciare che le cose che succedono, i grandi fenomeni che dovremmo domare per diventare ancora più invincibili alla fine un po’ riescono a condizionare i nostri comportamenti e a rosicchiarci una parte di terreno evolutivo. Questo perché vi vedo compressi e intellettualmente fiaccati dai limiti dei caratteri di Twitter e nelle proporzioni fisse uno a uno di Instagram. Vedo le vostre opinioni a rischio di interpretazioni errate nei socialcosi dedicati alle conversazioni ed erose, giorno dopo giorno, dalle spiegazioni dovute a chi non coglie ironia e sarcasmo. Vedo i vostri movimenti interrotti e di conseguenza la vostra libertà di pensiero a rischio nei tempi irregimentati e imposti dai sistemi di condivisione video o ancora un’altra libertà, quella di espressione, messa a rischio da rigide sovrastrutture SEM o SEO che richiedono titolazioni e stili narrativi adeguati ai motori di ricerca a scapito della vostra creatività. Qualcuno mi spieghi che diavolo vuole intendere chi dice che qui sul web non ci sono limiti al nostro ingegno perché, in fin dei conti, non è assolutamente così. Ci sono formati e regole del gioco che devono essere rispettati e non si sta certo parlando di linee guida stilistiche o di parametri per poter essere classificati in questo o quel movimento artistico. E questa volta siamo in centinaia di milioni ad aver adattato il nostro modo di essere e i nostri comportamenti in una botta sola. I nostri figli sono già nati meno liberi e con maggiori regole imposte rispetto ai loro genitori e peccato che questo nuovo stadio evolutivo abbia alla base l’impatto della tecnologia sulla nostra vita anziché, come si sperava, i manuali di educazione civica.

vi ricordo che manifestare contro le unioni civili ha la stessa utilità di manifestare contro i metallari

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Il fenomeno a cui stiamo assistendo su Facebook in queste ore può davvero costituire la sintesi di quello che siamo, di ciò che rappresentano i social network e, volendo, è in grado di indicare l’unica exit strategy possibile considerando quanto siamo diventati dipendenti dalla creatura di Zuckercoso e quanto la creatura di Zuckercoso sia ormai considerata una piattaforma sociale alternativa non solo alla vita quotidiana ma anche alle istituzioni. Facebook è la culla di grillisti, neo-fascio-complottisti, buongiornisti, nessunomicondivideràmaisullasuabachechisti e i milioni di paginisti per ogni cosa. Chi è contro x, chi è contro la pagina di chi è contro x, chi è contro la pagina di chi è contro la pagina di chi è contro x e così all’infinito.

Ieri o ieri l’altro si è diffusa su Facebook una caccia agli amici che seguono la pagina “Informare per resistere” per mettere (giustamente) alla berlina tale pagina che vanta centinaia di migliaia di iscritti dopo che ha dato il suo endorsement ufficiale al Family Day e che, quindi, sta dalla parte dei cattivi. I miei, almeno oggi perché è possibile che qualcuno abbia ritirato il proprio like, sono 44 in tutto su 610. La statistica non è il mio mestiere ma comunque si tratta di una percentuale alta considerando che da quando la gente si è fatta paladina delle istanze più strampalate e pensando che Facebook abbia le sembianze di una piattaforma da quarto stato, le aggregazioni che vanno da “ora mandiamoli a casa” in giù sono considerate lobby più potenti di qualunque vecchia organizzazione politica o sindacale.

Sappiamo tutti bene che è un errore grossolano e vi faccio un esempio stupido. Provate a contare le ronde anti-zingari con cui certi vostri conoscenti o persone con cui condividete l’iscrizione a pagine o gruppi gonfiano status e commenti e confrontate il risultato con quante sono le ronde in cui siete imbattuti dal vivo, cioè zero. Questo per dire che la rivoluzione, dalla fibra ottica e dall’ADSL, siamo capaci a farla tutti.

Così mi permetto due suggerimenti, anche se so che voi quattro gattini che mi leggete la pensate esattamente come me. “Informare per resistere” e analoghi collettivi di gabanello-grillisti esagitati sarebbero da schifare ab origine. Non lasciatevi prendere dalla boria della democrazia diretta digitale, davvero. Basta un guasto al router e vi ritroverete di nuovo davanti a MTV. Non ci vuole un’intelligenza sopraffina per capire dove vogliono andare a parare. Siate anche più indulgenti con i vostri amici che hanno aderito, sono certo che basta andare sulle loro bacheche per trovare qualche altra défaillance vegan-omeopatico-animal-buonavitista, e il cerchio si chiude. O li tagliate fuori dalle vostre vite, o se vi fanno gola i numeri più che i contenuti teneteveli così come sono.

Seconda cosa: Facebook non cambia di una virgola la vita delle persone intelligenti, quindi perché prendersela tanto. Lo stesso milione di persone compresi quelli di “Informare per resistere” che sono scesi in piazza non possono deviare democraticamente il corso della civiltà. Possono farlo con le armi ma state tranquilli, qui non si sentirà mai nemmeno un coltello a serramanico scattare. Anch’io vorrei tanto che non ascoltaste più musica di merda, ma mica vi posso ammazzare tutti.

chi fa un lavoro per quale ha studiato alzi la mano

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La più efficace regola per calcolare il vostro livello di stress sul posto di lavoro è quanto vi capita quotidianamente di mettere in pratica la teoria studiata in precedenza unito all’applicazione dell’esperienza sul campo moltiplicata per il coefficiente di improvvisazione, una sorta di peso specifico del vostro mestiere che varia a seconda del settore professionale. Lo immagino nullo o vicino allo zero nel caso di un neurochirurgo, occorre invece ammettere anche valori elevati per un venditore di auto usate o un autore di testi di marketing come quel tizio che scrive tutti quegli aneddoti sul futuro.

Se il primo fattore è maggiore di tutti gli altri, ovvero se avete la fortuna di esercitare il frutto di anni di studi, ricerche e tesine, ritenetevi al primo posto in classifica. Si tratta di una valutazione che è trasversale a ogni impiego e in un mondo ideale dovrebbe funzionare sempre così. Poi c’è una marea di gente che ha fatto il percorso dall’apprendista al ruolo senior imparando dal vivo a svolgere il proprio lavoro. Attenzione perché questo significa operare in una struttura con un tutor, un master o una figura di riferimento che ti insegna come si fa. Quindi immaginatevi freschi di pezzo di carta e seduti a fianco di qualcuno che trasforma in bravura tutte le vostre potenzialità. Capita anche, ed è il caso più sfortunato, che con una diploma o una laurea qualsiasi vi troviate a fare cose di cui avete solo una vaga idea, un sentito dire, in un ambiente per di più dove nessuno ha il tempo per fermarsi e farvi vedere come si fa.

Oggi il mercato pullula di ruoli pagati una miseria in cui si richiedono competenze che boh, ma delle quali un modello operativo ancora non esiste. Ci si arrabatta in qualche modo fino a quando non si giunge a qualche risultato. Grazie a Facebook poi abbiamo intere generazioni di maestranze che ostentano sui profili una formazione tutta da verificare ottenuta grazie alle varie università della vita, della strada, della fatica, del mondo che, tra di noi possiamo dircelo, hanno un po’ rotto il cazzo. Provate quindi a valutare se vivere cinque giorni alla settimana da sprovveduti può essere dannoso alla salute. Capisco la necessità di raggranellare il necessario per procacciare il cibo per voi e i vostri cari ma così correte il rischio di privarvi della vostra vita e di negare ai vostri cari una fonte di sostentamento.

Io ho ben chiaro il momento in cui ho fatto il salto passando dalla sicurezza di fare qualcosa sulla base di un’attestazione a mettermi alla mercé del caso e solo per uno squallido e in quanto tale tentacolare richiamo della pecunia più facile. Ero sul palco con un’orchestra di ballo liscio, ho studiato musica quindi ero in grado di farlo, e mi trovavo in quella che sarebbe stata l’ultima esibizione di quel tipo della mia vita. Ero in piedi dietro ad alcune tastiere una delle quali non mi serviva considerando il genere che proponevamo – era un sintetizzatore fresco di produzione che avevo noleggiato per mio diletto – ma che portavo con me sul palco con lo spirito con cui si sta vicino a qualcuno che ci tenga compagnia, non so se avete capito cosa intendo. E mentre accompagnavo i brani più semplici del repertorio potevo astrarmi dal contesto e provare mentalmente le varie combinazioni di regolazione di filtri ed effetti, come quando qualcuno ti parla, tu lo guardi negli occhi ma con la testa sei altrove. Il cantante, che aspettava qualcosa da me, forse un lancio o un particolare motivo, si è voltato, mi ha colto nel pieno della fuga nella mia mente e ha pregato il pubblico di perdonarmi, stavo solo navigando in Internet anche se era a malapena il 1996.

facciamo tutti un passo indietro, se non vi fidate comincio io

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Sembra che i corsi di public speaking siano sempre più gremiti di gente che vuole imparare a esprimersi e a convincere il prossimo. Si tratta di un dato che non fatico a mettere in relazione con la felice dichiarazione di Umberto Eco riportata su La Stampa di ieri. Il nostro intellettuale preferito, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”, ha scatenato un putiferio tra gli influencer più in voga sostenendo che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. La “triplete” è completata dai corsi di scrittura creativa e il self publishing, con cui un’orda di miserabili (capitanata dal sottoscritto) persegue illusorie velleità nel mondo dell’editoria e della narrativa.

Il problema è che non abbiamo un cazzo da dire e da dirci e quel poco che diciamo lo hanno già detto gli altri e quello che non hanno detto gli altri in realtà non interessa a nessuno. Imparare a mantenere l’interesse del prossimo non serve se non ci sono contenuti da trasferire, malgrado le slide a supporto. Sui social è evidente a tutti la deriva a cui il genere umano sta tendendo. Il resto riguarda lo scrittore o il poeta che vive nascosto in tutti noi e che la democratizzazione dei media ha ringalluzzito. E c’è un altro punto. Quando c’erano i soldi si parlava di persona e in diretta, senza tanti fronzoli. Ora che i soldi sono finiti ci spartiamo le briciole con la comunicazione in differita e frutto di anni di elucubrazioni di persone parcheggiate in università a studiarla, con l’aggiunta del popolo che sente di dover dire la sua anche quando non sa cosa dire.

Proprio ieri viaggiavo su un Frecciarossa del mattino, una di quelle mostruosità (in senso buono) tecnologiche popolate da lavoratori dei servizi che portano il loro know how su e giù per la penisola a 300km all’ora. Professionisti dalla posizione sempre in bilico che sfruttano questa parziale ubiquità raggiungendo nuovi mercati alla ricerca di nuove opportunità. L’impressione è che la crescente povertà che ci fa riempire la rete di contenuti come se non ci fosse un domani ora ci spinge a ripetere l’errore sugli spazi fisici, spostando noi stessi e un non si sa bene cosa tramite mezzi ultrarapidi e occupare i pochi vuoti rimasti. Una riflessione che mi ha mandato nel panico. Poi ho pensato che sarebbe ora anche di smettere di lavorare di fantasia. Quella specie di cloud cerebrale comune in cui finiscono tutte le cose a cui pensiamo nei tempi morti – come un viaggio sul Frecciarossa – sarà ormai anch’esso saturo, ma mi piace pensare che il frutto di tutti questi sforzi intellettuali si disperda nell’aria, come sarebbe bene evaporasse anche tutto il resto.