quella volta in cui a carnevale mi sono vestito da groovebox

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Ma se voglio rilassarmi sul serio davanti al pc mi metto le cuffie e mi faccio un giro sulla nuova release di Youtube con quell’opzione di realtà arbitraria – ben più utile della realtà aumentata – che ti fa vedere i video come li vorresti tu. Non c’è social che tenga soprattutto per gli amanti della musica come me. Per farvi un esempio, cerco una canzone dal vivo per vivere l’emozione di concerti a cui non ho potuto partecipare perché dall’altra parte del pianeta, per ragioni anagrafiche (casi rarissimi) o perché non ho acquistato il biglietto punto e basta. Il pezzo inizia perché è una hit straconosciuta e il cantante che fa? Rivolge il microfono verso lo stadio o la platea per incitare i fan al coro. Ma io non voglio sentire la gente che stona e va fuori tempo. Sono a un concerto e ho pagato per sentir cantare te dal vivo, non perché tu facessi cantare la folla. Così attivo la funzione di realtà arbitraria e le cose vanno come dico io. Il divertimento è assicurato.

Poi ci sono quelli che si cambiano a piacimento le finali perse dalla squadra di calcio del cuore, con rigori che vanno a segno, espulsioni evitate, fuori gioco non fischiati e cross riusciti. Di sport non me ne intendo molto ma immagino che molti di voi siano usi a questi passatempi. Io mi appassiono di più con i film cambiando le scene clou e i finali anche a volte in peggio per vedere che effetto avrebbe fatto su degli spettatori come me. Un altro cavallo di battaglia personale è la storia. Quando trovo materiale video a sufficienza su Youtube non vi dico quali stragi di stato sventate o anche cogliere gli autori sul fatto è un vero spasso. Potete immaginare come staremmo bene noi italiani ora se certe cose fossero andate come dico io.

Se poi avete la fortuna di avere un vostro canale personale con video che vi riguardano, la realtà arbitraria è la morte sua. Io ho trovato quel filmato che ha caricato Simona di quando siamo stati alla festa di carnevale e vi giuro che è stata l’unica volta nella mia vita in cui mi sono mascherato. Ero vestito da suora con le calze a rete e gli anfibi ma avevo sedici anni e me lo potevo permettere. Eravamo con i suoi genitori e molti loro amici di famiglia, uno dei quali aveva equivocato il mio travestimento considerandolo nell’accezione che potete immaginare e, nella confusione di certi balli di gruppo, un paio di volte ha messo le mani dove non doveva. Comunque per farla breve ho attivato la realtà arbitraria e in quella che era l’unica volta della mia vita in cui sono entrato nello spirito del carnevale anziché da banale suora mi sono vestito da groovebox insieme ad altri quindici amici. In sedici in totale, cioè, ognuno a impersonare il tasto di un sedicesimo di una groovebox che se attivato suona, se no fa la pausa. Mi spiace se non siete del mestiere e non sapete cosa sono le groovebox, non saprei proprio come spiegarvelo. Se invece avete capito, e volete mettere su una maschera di gruppo con me per la prossima occasione, fatemi sapere. Nel frattempo mi godo lo spettacolo di me vestito da un sedicesimo di groovebox mentre con gli altri quindici amici (che poi in quanto ad amici non supererei le cinque unità) inventiamo pattern ritmici coinvolgenti e siamo il centro della festa, proprio in quel video su Youtube pubblicato da Simona ma che va a finire come dico io.

avere il terzo settore contro

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Dal giardino di qualche villa privata qui intorno giunge copioso un profumo che ricorda quello di una macchia più meridionale con quel misto di eucalipto, liquirizia, menta e chissà quali altre specie vegetali. Un gioco a premi su questa attitudine olfattiva a discernere ogni singola essenza da un insieme sarà già stato inventato e avrà fatto la fortuna di qualche autore di programmi televisivi. In ambito sapori oggi c’è pieno di cose del genere, forse l’odorato è un senso di serie B e non attira introiti pubblicitari, anche se sono certo che proposta a qualche multinazionale di prodotti di bellezza si tratta di un’intuizione in grado di suscitare l’interesse che merita. Comunque la peculiarità di tutto questo è che ci troviamo nel quartiere Città Studi di Milano, ben lontani dalle coste della Sardegna dove il profumo della macchia non ti dà tregua. Sono in visita nella sede della fondazione del momento, quella di cui parlano tutti costituita da operatori che si occupano di fornire help desk culturale alle persone che, in estate, sono costrette loro malgrado alla città forzata per tutti i problemi che la gente in questa epoca di recessione può soffrire. Mancanza di risorse ma anche, e soprattutto, solitudine. Uno dei coordinatori mi fa notare che nella stessa scala del loro centro operativo vive una ex starlette dei programmi Mediaset, una specie di modella olandese che ha trovato successo in Italia e che non è difficile incontrare a spasso sulla sua bici con i freni a bacchetta. Ma si tratta solo di una delle poche distrazioni che i volenterosi ragazzi lì dentro si possono permettere. Lo scopo, d’altronde, è nobile. Con il caldo e le vacanze c’è poco da fare se sei costretto a stare chiuso in casa. Dopo un po’ anche la tv a pagamento ti stufa, non c’è nemmeno l’ombra (che con questo clima torrido non sarebbe per nulla sgradita) di musicarelli sulla tv pubblica e di tutta la pubblicità di impianti di condizionamento sui canali privati ne hai le palle piene. Ma anche l’Internet non se la passa bene. Blogger e influencer sono al mare e i loro siti languono privi di novità succulente, il palinsesto dei portali di informazioni lo si conosce a menadito tra i consigli su come ripararsi dalle temperature elevate, qualche episodio di cronaca nera, l’esodo e le partenze intelligenti, animali abbandonati e tutti i numerosi tormentoni sfruttati al massimo per ogni tipo di gadgettistica intellettuale. L’intuizione nobile è stata proprio quella di un impegno volontario a scrivere contenuti che possano occupare il tempo di chi non riesce a fare a meno di stare con il pc acceso. L’operatore che si è prestato all’intervista mi descrive la rubrica che cura in prima persona su uno dei principali quotidiani nazionali che riguarda le tendenze con cui ciclicamente si commentano gli interventi altrui sui social network. In estate il pubblico è nervosetto, mi dice, quindi meglio assecondare sarcasmo e provocazione. Hanno comunque la fortuna di ricevere sovvenzioni da alcuni gruppi editoriali, da blogger molto in vista e hanno il supporto tecnico di una delle più diffuse piattaforme di publishing. Fanno persino le veci di alcuni autori molto cliccati postando per loro durante il periodo di ferragosto. Ed è a quel punto che gli faccio notare che un servizio di blog-sitting più articolato potrebbe essere un ulteriore sviluppo remunerativo per la fondazione. Probabilmente non ha gradito il mio commento, si è sentito sminuire la sua attività o comunque ha frainteso quello che volevo dire, fatto sta che è in genere è meglio che certe cose le tenga per me.

windows 2020

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A volte l’essere apocalittici non paga e gli sta bene a tutti i complottari del mondo che di riffa e di raffa le cose stanno andando avanti. Al buco dell’ozono alla fine qualcuno ci ha messo una toppa, i maya non ci hanno preso per niente, i vaticini sulle catastrofi probabilmente si riferiscono a qualche altro pianeta, contro il global warming basta vestirsi a cipolla e al massimo se Trenord esagera con l’aria condizionata ti metti una pashmina che usano tanto e ci fai pure la figura di quello trendy. Questo per dire che anche quando cercavamo le prime foto porno su Altavista scroccando la connessione a 56 kbit/s a qualche ente pubblico e pensavamo che il genere umano non sarebbe sopravvissuto alla digitalizzazione di massa, oggi un po’ come quando nel 1999 ci siamo resi conto che la fantascienza del comandante Koenig e della dottoressa Russell non si sarebbe avverata in tempo possiamo vantare vent’anni di Internet a cui siamo passati indenni. Certo, siamo meno propensi alla socialità di una volta e un po’ più inclini alla sedentarietà da pc, conosciamo pratiche prima mai sentite a partire dallo bukkake per arrivare ai poke e al community management, ma siamo vivi e vegeti e pienamente integrati nel duemila e rotti. Ma vi sarete accorti anche voi che avere già vent’anni di ricordi digitali salvati e tramandati lungo i vari tipi di supporti nel tempo, dai floppy agli Zip e al Jaz passando per cd e dvd per arrivare agli hard disk esterni, alle chiavette usb e alle micro sd, costituisce già un bel patrimonio di fonti da tramandare ai nostri figli e nipoti. Passare in rassegna file con data di creazione nel secolo scorso è una pratica che si svolge con la tenerezza con cui si organizzano le foto dei nostri genitori quando erano giovani. Ma la velocità con cui gli attuali microprocessori al fulmicotone elaborano quelle poche manciate di bit non rende giustizia tantomeno dignità a dati e informazioni così retro, e la latenza meno che irrisoria con cui un clic avvia un qualcosa è una più che appropriata metafora del modo in cui secondi ore giorni mesi e poi anni si sono presi gioco di noi anche con i dispositivi in stand by.

tutte le iniziative per la sesta “Giornata senza musica”

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Non è la prima volta in cui l’assessore alla cultura si presenta con vistose calzature da trekking in ambiente urbano, ormai la cittadinanza è abituata ad accettare questo vezzo di informalità e soprattutto costituisce materia di distrazione se, al momento di tenere il discorso, nessuno lo ha provvisto di un microfono da esterni e ci tocca fare silenzio anche se i rumori dell’ambiente non li può zittire nessuno. D’altronde oggi in cui si celebra la “Giornata senza musica” ogni sistema di diffusione audio è bene tenerlo al chiuso nei negozi che li noleggiano, per fugare qualsiasi tentazione.

Anch’io ho sperato fino all’ultimo che piovesse, così la festa poteva sembrare un’iniziativa qualsiasi guastata dal brutto tempo in cui è meglio lasciare casse e strumenti musicali al coperto. Invece no, non c’era il sole ma comunque nemmeno una goccia d’acqua e qualche multa perché qualcuno si è messo a canticchiare qualcosa si è vista. In un caso io mi sono astenuto a fatica dalla delazione. C’era un tizio che fischiettava il che, oltre a essere un comportamento vietato nella “Giornata senza musica”, è una pratica davvero desueta e di altri tempi. Fischiava una nota aria del secolo scorso, un retaggio dei recenti festeggiamenti dei cent’anni della Liberazione che gli dev’essere rimasto in testa dopo le manifestazioni di ieri. Non è stata però una bell’idea quella di inaugurare un nuovo monumento proprio nel giorno del silenzio, come i più lo hanno ribattezzato. Ci sarebbe stata bene la banda, il coro della scuola civica di musica, magari i bambini delle elementari con le loro app di audio editing.

Invece niente. L’assessore che sembra un montanaro parla senza che lo senta nessuno davanti a una parete su cui sono state applicate centinaia di facce di gesso sorridenti. È questa l’opera che un artista locale ha donato ai cittadini. Centinaia di riproduzioni di volti degli abitanti del paese – tra cui ci sono anch’io – ricavate da calchi realizzati sui visi sorridenti dei volontari che si sono prestati all’iniziativa. Carino no? Conclusa la parte dei discorsi ufficiali – anche se incomprensibili da dove sto seguendo l’inaugurazione – ci avviciniamo per cercarci come si fa al cimitero. Dove ti hanno messo?, ci viene da chiedere a chi abbiamo vicino. Ed eccomi lì, identico all’originale. Non avevo dubbi, con il naso che mi ritrovo sono facile da riprodurre, in qualunque modo, anche ad opera di uno scultore.

Mi avvio per rientrare a casa, a mia figlia che mi ha accompagnato non è piaciuto nulla di tutto ciò, lei è in quella fase adolescenziale in cui senza coetanei fa tutto schifo. Io penso che alla sua età ascoltavo Lio e mi scappa di canticchiare il ritornello di “Amoureux solitaires” senza accorgermi che il capo dei vigili è lì a due passi, mi sente e mi fulmina con lo sguardo. Mi viene il dubbio di essere stato ripreso per il testo, ma forse solo io collego il concetto di amore solitario alla masturbazione, o forse alla masturbazione collegavo Lio ai tempi, con la gonna di pelle al ginocchio. Comunque no, era sempre per la “Giornata senza musica” a cui so benissimo che non mi abituerò mai come quando avevo comprato la Alicia DeLonghi e per un paio di mesi buoni avevo continuato a mettere la caffettiera sul fornello, accorgendomi fortunatamente in tempo del guaio che stavo per combinare. E anche oggi mi va di culo, niente contravvenzione. Il capo dei vigili mi ha riconosciuto come la faccia di gesso venuta meglio e, per una volta, ci passa sopra.

ti spunta un fiore sul desktop

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Verso la fine degli anni 90 uno dei modi più diffusi di perdere tempo in ufficio prima che i social network irrompessero con tutta la narrazione della loro indispensabilità negli ambienti professionali, tesi che ha convinto aziende di tutto il mondo a lasciarli utilizzare in orario di lavoro ai propri dipendenti dimezzando così produttività e profitti e causando gran parte della crisi economica a cui stiamo assistendo e, anzi, favorendo persino la nascita e la consacrazione di figure specializzate ad essi dedicati, dicevo che ai tempi uno dei modi più diffusi di perdere tempo in ufficio si chiamava ICQ.

ICQ se non ve lo ricordate è stato uno dei primi sistemi di instant messaging – aveva un logo a forma di fiore – che ci consentiva di chattare con cani e porci in tutto il mondo, a partire dalla collega piaciona nella stanza accanto fino alla sconosciuta dall’altra parte del pianeta, almeno fino a quando la sconosciuta dall’altra parte del pianeta non ci mandava la sua foto e l’incanto generato dalle bellissime parole scambiate svaniva in un clic. Non so quanto la cosa vi prendesse, so di gente che aveva un roster di contatti di tutto rispetto che si estendeva persino ai limiti del lecito comprendendo conversazioni in tempo reale con dubbie studentesse nigeriane pronte a emigrare dal centro di Lagos a qualche periferia del vecchio continente in cambio di non si sa bene cosa. Perché se non spuntavi il check box che ti immetteva nel sistema di collegamento random con i perditempo di tutto il mondo era facile essere bersaglio dei cercatori di chat, con tutto il fascino romantico del venire contattato da gente mai vista in cerca di avventure sul web. M o F? Da dove digiti? Mi mandi una foto?

Nel mio piccolo ho avuto qualche scambio di battute con una deliziosa parigina e una invasata di musica elettronica della periferia di Sydney, Australia. Per il resto, anche ICQ è stato quasi immediatamente preso d’assalto dall’universo di pornografi dell’Internet, ci voleva poco per vedersi recapitare immagini esplicite indipendentemente dai propri gusti sessuali e in grado di costituire un pericolo per la propria reputazione professionale. I neofiti della chat in ufficio erano comunque i primi a essere sgamati. Non disattivavano l’audio e così gli ambienti aziendali erano invasi del celeberrimo suono che avvisava del messaggio recapitato. E allora tutti a osservare il destinatario testé diventato rosso per un misto di vergogna ed eccitazione dovuta alla smania di leggere la risposta alla domanda più antica del mondo.

la migliori app per capire chi siamo dove andiamo cosa facciamo

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Ha superato i 100 milioni di download IndovinaunpoTM, la app tutta made in Italy che da un semplice selfie in primo piano è in grado di elaborare un tracciato di quello che ci frulla per la testa in quell’istante dall’espressione del viso, quindi setacciare l’Internet e trovare a quale foto di personaggio più o meno famoso i nostri istinti possono essere collegati. Una specie di specchio delle mie brame della matrigna di Biancaneve che ritorna in tempo reale la verità su di noi in quel momento senza tanti compromessi con quello che vorremmo essere, la differenza tra aspettativa e realtà messa a nudo da un algoritmo che non va tanto per il sottile. Ci sentiamo un senso di colpa e con un clic scopriamo che invece siamo tali e quali a Hitler, per esempio, e che il nostro inconscio non corrisponde per nulla all’aria da santerellini che ci diamo. O anche una smorfia con la boccuccia più simile alla velina del momento ed ecco che IndovinaunpoTM rievoca dal passato la peggio megera della TV anni 80 con una di quelle pettinature con cui oggi mettiamo alla berlina le nostre radici. Ma è stato soprattutto il suo risvolto social a decretare il successo globale del’app, grazie alla possibilità di accoppiare persone che al momento dell’invio della richiesta sembrano essere allineate proprio su tutto o tutto il contrario, a seconda del tipo di abbinamento impostato che consente di essere messi in contatto anche con i propri opposti. Quindi non solo compulsivo ossessivi che si cercano reciprocamente, ma anche sadici con masochisti o arroganti con remissivi a seconda delle singole preferenze di ciascuno. IndovinaunpoTM sembra aver soppiantato tutti gli strumenti di comunicazione per i dispositivi mobili e ha creato un vero e proprio caso social. Tutti sono curiosi di sapere che cosa hanno realmente dentro amici e parenti e perché siamo così propensi a ostentare personalità diverse da quelle di cui siamo dotati. InsidePeople, la startup italiana che ha immesso sul mercato IndovinaunpoTM ora sta lavorando allo sviluppo di LineDown, un’app basata sulla stessa tecnologia che permetterà di ottenere la verità con la v maiuscola analizzando il contrasto estetico tra scarpe e pantaloni. Sarà sufficiente scattare una foto e il sistema restituirà la risposta corretta a un jeans con la scarpa elegante, un pantalone classico con una Geox con il tacco, o nei mille risvoltini attraverso cui donne e uomini di ogni età ed estrazione sociale manifestano la loro attitudine a stare al mondo.

in morte di FF

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Il conto alla rovescia è partito: il 9 aprile prossimo venturo una mano ingrata abbasserà la leva, spegnerà l’interruttore, manderà in esecuzione un bel format c o semplicemente staccherà la spina al FriendFeed, il migliore dei mondi sociali sull’Internet possibili. Se non siete tra i frequentatori, il FriendFeed – o confidenzialmente Frenfi – è (anzi, a breve “era”) un social network di quelli vecchio stile, austero e senza tanti optional, l’evoluzione dei primi centri di aggregazione per malati di rete che avevano spostato sul web sociopatici, cuori solitari, avventurieri, curiosi, nerd, timidi e superdotati di ego, proprio come nelle mailing list di fine secolo scorso, se siete della mia generazione. Nato come concentratore di contenuti provenienti da altre piattaforme, a seguito principalmente di un ammutinamento della comunità italiana il Frenfi si è autoproclamato libera comunità di pensatori e cazzari, più cazzari che pensatori, un coacervo anarcoide di personalità sempre pronte a far comunella, percularsi o litigherellare all’insegna dei più disparati argomenti di conversazione, dalla filosofia pura alla pasta alla carbonara, in un mix di boutade, quotidianità, pics di tette e membri maschili, autoritratti, politica, bestemmie e nonsense. Si erano già verificati malfunzionamenti e indisponibilità dei servizi, e il fatto stesso che nessuno – dall’acquisizione da parte di Facebook – si preoccupasse di aggiornarne l’interfaccia o aggiungere funzionalità aveva alimentato il sospetto che il socialino più coinvolgente sul mercato avesse i giorni contati. Fino alla doccia fredda di un paio di giorni fa, con il comunicato ufficiale dell’interruzione delle trasmissioni. Notificata la data di morte i più hanno gettato la maschera e la privacy di nomignoli astrusi – plus1gmt è forse uno dei meno ostici – e si sono precipitati allo scoperto, divulgando identità e contatti per non perdersi di vista con i sodali di tante battaglie contro la mancanza di gusto, il grillismo e le destre più o meno collaterali, l’omeopatia, l’ingenuità degli utenti dei socialcosi più blasonati e molto altro. Come un popolo vittima di una diaspora, gli utenti del Frenfi hanno già occupato spazi alternativi anche sull’odiato regno di Zuckerberg, e sono pronti a ricompattarsi per ricostituire un centro sociale con le stesse caratteristiche di quello dal quale stanno per essere sgomberati. Sul Frenfi ho conosciuto e imparato ad apprezzare persone – o presunte tali – che al di qua dello schermo davvero non mi era mai capitato di incontrare. Non so dirvi il perché, magari conta il fatto che a forza di omologare il linguaggio, le dinamiche di gruppo e le modalità relazionali alla fine si inizia a non poter fare a meno gli uni degli altri. O forse anche questa è amicizia, ma solo il fatto che si consumi tra le pagine dinamiche dell’Internet difficilmente ne riusciamo ad ammettere la veridicità. Vi direi di provare a iscrivervi per l’ultimo mese in cui il Frenfi sarà in vita, ma pare che il sistema sia già stato bloccato. Pazienza, sarà per la prossima vita, o per il prossimo socialcoso. Ciao o, anzi, come si diceva sul Frenfi, Giao. O, anche, ultimamente, Ciaone.

3 mesi di emozioni premium a soli €0,99. Goditi un’intera stagione di sensazioni offline e senza pubblicità

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Il vantaggio del sistema emotivo standard va quindi identificato nella possibilità di avere a disposizione una library condivisa alla quale attingere ogni volta in cui ne sentiamo il bisogno. Questo consente l’ottimizzazione delle risorse che, erogate via web, ci permettono di liberare spazio dentro di noi da dedicare a quello che ci pare. Per lo più ricordi e cose di tutti i giorni. Per i non addetti ai lavori, l’esempio da tenere in considerazione è quello della musica. Anziché occupare memoria di pc, tablet e smartphone con i file delle canzoni, è sufficiente richiamarli dal cloud ogni volta che vogliamo attraverso la nostra connessione wireless o telefonica di nuova generazione. La differenza è che, nel caso degli stati d’animo, al momento non è previsto un servizio a pagamento premium, pro o de luxe, quindi già nel contratto base c’è davvero ampia disponibilità di materiali. Ma i meno ottimisti – o quelli più soggetti al fascino dei complotti – già hanno fiutato l’ennesima truffa ai danni dei consumatori. Perché sprecare energie e tempo a gestire anche le emozioni più rare, quelle di nicchia, quelle meno commerciali, quelle che riguardano la minoranza ad alta sensibilità? Perché non lavorare solo sugli aggiornamenti delle emozioni mainstream, magari facendole anche più ampie in modo da accontentare una massa di individui sempre più corposa e da favorire il riconoscimento a questo o quel modo di sentire generalizzato con più facilità? Si finirà con avere un monopolio anche in questo settore così delicato? Facciamo un esempio. Riflettere su cosa saremo tra dieci anni, nel caso di un utente finale quasi cinquantenne, comporta vibrazioni abbastanza similari al ricordo di quello che si provava a distanza di uno stesso lasso di tempo in precedenza, trascorrendo un pomeriggio estivo sotto le frasche di ferragosto. In un futuro prossimo, l’emozione provata sarà la stessa, priva delle sfumature accessorie: l’abbandonare le membra a una proiezione futura del sé sempre più ridotta per ragioni anagrafiche, da una parte, la stessa cosa ma con l’errata consapevolezza che le cose non hanno una fine né uno scopo dall’altra.

qual è l’ultimo libro che hai letto

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“Qual è l’ultimo libro che hai letto” è una domanda che non dovete più porre ai candidati che si presentano ai colloqui per non rovinare tutto, avere brutte sorprese e diminuire ulteriormente la possibilità di trovare figure adatte al profilo ricercato. Facile che vi sentiate rispondere cose come “da qualche anno leggo Facebook, ho alcuni contatti che scrivono status davvero illuminanti”. Non si spiegherebbe l’assiduità con cui passiamo il tempo con gli occhi puntati sui nostri cosi intelligenti, forse perché ne invidiamo la superiorità. Per lo meno la memoria, no? E come si fa a spiegare che no, tra un romanzo di Tizio Caio e una jpeg sull’amicizia con cuori, gattini e bimbi in fasce che nemmeno un incrocio tra Anne Geddes, Baricco, Jovanotti e i disegni di Love is… c’è un discreto gap culturale, e anche se non sono io a decidere cos’è bello e cos’è brutto l’evidenza è sotto gli occhi di tutti. E attenzione, che poi vi trovate a lavorare con gente che non capisci cosa dice ma non perché sono stranieri ma semplicemente sono semi-analfabeti. Sono giunto alla conclusione che questa sia una delle principali difficoltà dell’imprenditoria, e cioè trovare personale che non dev’essere per forza Umberto Eco ma almeno gente in grado di spiegarsi. Altro che stabilire se e come fare investimenti, quanto riservare per sé e quanto concentrare sulla propria azienda, quando e se è il momento di dividere gli utili o mollare il colpo, che non vuol dire necessariamente suicidarsi per la crisi. Cari dirigenti d’azienda (così ha scritto sulla carta d’identità quel poco di buono di mio cognato) sappiate che io non farei mai il vostro mestiere, di contro voi cominciate a prendere un po’ di dimestichezza con la letteratura, così vi sarà anche più semplice familiarizzare con lo storytelling di cui vi riempite la bocca con i vostri clienti. Quando mi capita di vedere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca, al di là del fatto che non bisognerebbe sottolineare testi che sono patrimonio comune ma vabbe’, dicevo che quando mi capita di leggere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca penso che magari è uno di voi poco avvezzo con la narrativa che vede cose in certi passaggi che per noi sono del tutto ininfluenti ai fini della trama o dello stile dell’autore. Questo per dire che c’è sempre da imparare. Ma, amici miei, dai vostri contatti Facebook cosa pensate di apprendere? Che ne sarà del genere umano dopo un secolo di status e di tweet? Cosa penseranno i posteri di quelli che pubblicano le foto in cui sembra che reggano la torre di Pisa o stringano il sole tra le dita della mano? Quante cose mancano ancora all’appello prima che si esauriscano le citazioni e cali il silenzio sui nostri socialcosi? Ecco, per mettervi in pace con il mondo del duepuntozero provate solo a osservare le persone che usano i dispositivi portatili per scrivere mail che, sbirciandone il contenuto, sembrano incomprensibili perché magari invece sono semplici appunti e magari vi trovate a vostra insaputa proprio dietro a un blogger che, appena potrà, si burlerà di voi al mondo intero, o almeno ai suoi venticinque lettori, partendo da quella base rubata al vostro chiacchiericcio.

convertiti al rigore dallo storytelling di un prodotto da supermercato

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Te lo dico io, Roberto, quando siamo diventati bacchettoni. E mi ricordo addirittura l’istante esatto: la relatrice è passata alla slide successiva e sullo schermo sono apparsi due casi di social media marketing di successo riguardanti la Nutella e le Gocciole. C’era un fetta di pane con la Nutella che si aggrappava a un palo per il forte vento fresca fresca di un post sulla sua pagina Facebook. A fianco un’analoga iniziativa con un biscotto con i capelli neri e lo stecchino in bocca che doveva somigliare a Roberto Benigni. Entrambi gli esempi riportavano a fianco numeri che non sono passati inosservati al pubblico della prima giornata del SMX 2014, un vero e proprio happening della comunità di professionisti del marketing digitale. Centinaia e migliaia di fan della crema alla nocciola e dei biscotti industriali – prodotti di cui anche mia figlia è ghiotta, sia chiaro – che hanno speso del tempo per dimostrare la loro approvazione a quel tentativo di conversazione tra brand e audience. C’è quindi uno storytelling della Nutella e delle Gocciole, ci sono risorse dedicate che hanno fatto di quello il loro lavoro, che per carità ha la sua dignità tanto quanto un tornitore, un maggiordomo o un dog sitter. Comunque appena abbiamo percepito e sedimentato il senso di quella slide, è proprio in quel momento che siamo diventati bacchettoni. Ed è una fortuna, Roberto, che io e te non viviamo in una società di integralisti religiosi o che non siamo in quei posti sperduti delle Louisiana dove ci sono quei pazzi da True Detective che quando vanno in tilt si comprano i mitragliatori al supermercato sotto casa. A me e a te ci girano i coglioni già quando arriviamo al nuovo quartiere fieristico e leggiamo gli striscioni “Benvenuti in Europa” sulle transenne intorno ai cantieri con gente che chiede l’elemosina e proprio dopo un treno in ritardo di mezz’ora e fermo sotto una galleria in cui il telefono non prende. Oppure ci innervosisce la presenza di un frigobar pieno di bottiglie di Carlsberg gratis proprio oggi che siamo nel pieno del periodo no-alcol, una specie di fioretto che non si sa bene per chi o per cosa è in corso. E c’è pure la festa di Twitter, stasera, a inviti e io e te non siamo stati invitati, nel locale di un’altra creatura di questo pazzo pazzo occidente che è uno di quei Masterchef di successo che – e qui ci starebbe una bestemmia – fino all’altro ieri pasteggiavamo a tagliolini in brodo e polenta e oggi siamo vittime di questa follia collettiva consapevoli che poi, Cracco o non Cracco, tutto dopo si trasforma in merda. Così mentre divampano sempre più focolai della guerra dei poveri nelle nostre banlieue che hanno nomi evocativi del calibro di Torpignattara, mentre la scelta tra le personalità che dovrebbero offrirci la sintesi della politica va dalla destra postfascista alla destra populista anti-euro fino alla destra post-razzista – quella che ci vuole far credere che i posti come Torpignattara erano belli come San Gimignano prima che arrivassero gli stranieri con i loro costumi inadeguati – ecco nel bel mezzo del progresso di diversi colori tra i quali il nero e basta (cit.), anzi no anche il verde dei nostri conti bancari, proprio oggi in cui questo rifiorire di narrazioni sui pomodori pelati capita in un momento storico in cui a malapena siamo in grado di capire il senso di un avviso sul libretto delle comunicazioni tra la scuola e la famiglia dei nostri figli. Ecco, in questo squallore illuminato solo dai nostri smartcosi accesi giorno e notte, il problema sembra essere il posizionamento esistenziale delle aziende, una volta definito il quale noi, sul nostro social network preferito, possiamo finalmente decidere se stare con il prodotto ed essere brand ambassador, oppure no. Non dare il nostro like alla pagina. Trollare chi si spende per intavolare discussioni costruttive con il community manager del Philadelphia. Non c’è da stupirci così se diamo diventati bacchettoni e va bene esserlo in qualunque disciplina che ci consenta di annullarci fisicamente in qualche modo, come quelli che si preparano per fare le maratone nelle varie città del mondo e si allenano anche tre volte al giorno. Occorre davvero un rigore ma parlare di morale non me la sento, perché sia io che te, Roberto, siamo costretti a dare anche il nostro contributo in questo mondo che ha dell’osceno e, a dirla tutta, non capisco però quale sia stato il punto in cui era evidente che sarebbe andata così e nessuno ha fatto nulla per impedirlo.