effetto Newton

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Cose che cadono mentre le cose accadono, alcune senza peso, altre di una gravità inaudita. “Mi farò sentire in consiglio di amministrazione“, sbraita un Sales per strada riempiendo di sputi involontari il suo Blackberry a ogni consonante labiale, “sono pronto a fare i nomi di tutti quelli che non hanno mai collaborato al successo del team. Cadranno molte teste, di certo non la mia“. Ecco la metafora con morale annessa. Ogni azienda è un albero con tutte le sue parti, i tronchi belli solidi e le derivazioni con tutti i rami e rametti e foglie e frutti. Il mercato è un bimbo un po’ monello e grossolano, tipo Chubby delle Simpatiche Canaglie, che prima sbatacchia l’albero e le mele più mature vengono giù che è un piacere, e quello è fisiologico. Poi inizia ad arrampicarsi e inavvertitamente, a causa della sua mole, stacca anche quelle che sono ancora verdi, spezza i rami più deboli, fa cadere le foglie anche fuori stagione.

Il Sales è fermo e guarda una bizzarra scultura di pane in una vetrina; dall’ingresso a fianco il proprietario della rivendita accompagna a braccetto una signora anzianissima che cammina a malapena, e la aiuta a scendere l’alto gradino che porta al marciapiede. “Grazie, lei è gentilissimo, avevo paura di scivolare. Ci vediamo domani“. Il panettiere le risponde “Spero di rivederla sempre” che è un bell’augurio ma che suona paradossale per quel sempre, che aggiunge una stucchevole quanto inutile speranza di eternità in uno scenario già di per sé incerto.

Nel frattempo un’altra signora, qualche metro più avanti, a fatica procede con l’aiuto di una stampella azzurra, in mano ha un plico di documenti che inavvertitamente le vola a terra. Decine di fogli scritti in font di sistema e stampati in bianco e nero vanno a intralciare il cammino dei passanti. La signora in stampelle scoppia in lacrime, è chiaro che l’incidente è solo il punto di arrivo di una serie di eventi nefasti. Non si può chinare, così dalla rivendita di auto usate a fianco esce un uomo che con decisione le raccoglie tutto. Di corsa arriva anche un parente stretto, esce da una bottega nei pressi, qualcuno deve averlo avvertito. Probabilmente è il marito, e in un impeto di intimità con un fazzoletto le asciuga le lacrime che lei, da sola, non riesce a tamponare. Le mani di lei si tengono saldamente al supporto senza il quale finirebbe sul marciapiede, al posto dei suoi documenti che le sono stati riconsegnati un po’ malconci.

Gli ho mandato una mail, si vede che non la ha ancora letta, ma sono sicuro che fa finta di non sapere nulla”, continua il Sales che si è voltato incuriosito da quel carosello di insicurezze. Il proprietario dell’autosalone torna dentro, un cliente sta sognando se stesso a bordo di un macchinone di lusso tutto nero e lucido impugnando il volante come fanno i bambini quando i papà li fanno sedere al posto di guida. Richiamato dal negoziante, “si sporcano i tappetini“, esce dall’abitacolo ma si tocca la tasca dei pantaloni. Il cellulare, che si era sfilato per salire più agilmente su quella vettura sportiva, è caduto sotto il sedile. Mentre cerca di recuperarlo, e tutto intorno ci si spazientisce per la perdita di tempo condivisa, è facile rendersi conto che la spider non è un bene alla sua portata, e poi non gli somiglia affatto, fa di tutto per non lasciare le impronte delle mani sulla carrozzeria. Si capisce che non è a suo agio, probabilmente vedendola in vetrina passando di lì è solo caduto in tentazione e ha chiesto di provarla.

anima mia torna a casa tua

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Ho un amico con cui posso parlare davvero di tutto, un rapporto perfetto perché io e lui abbiamo più o meno gli stessi gusti di letteratura, cinema e musica, ma in quel modo tangente per cui leggiamo, vediamo e ascoltiamo autori diversi; io so che mi possono piacere, il genere è quello, per cui siamo reciprocamente fonte di nuove conoscenze. Un po’ quello che accade ora anche sui socialcosi, dove c’è un frullatore che mette dentro tag e parole chiave e ti calcola la percentuale di compatibilità con le persone. Un sistema più o meno attendibile, insuperabile però se provato di persona, laddove intervengono fattori a cui presto non saremo più abituati. L’odore, il linguaggio del corpo e le altre percezioni fisiche che ci fanno scaturire il “mi piace” o il “non mi piace più” diretto, un giudizio che dal vivo possiamo anche tenerci per noi e manifestare cambiando le amicizie, così nessuna conoscenza in comune lo verrà mai a sapere.

C’è solo un terreno su cui non riesco a seguire questo mio amico. Ogni tanto mi parla di reincarnazione, teorie psicoanalitiche mescolate alla filosofia orientale, chakra, meditazione e esperienze extra-corporee, e anzi prego i lettori cultori di queste discipline di non biasimarmi per come sto trattando l’argomento, per la terminologia che uso e l’approccio. Questo blog, come ho già scritto altrove, si basa principalmente sulla cialtronaggine contraddittoria (mia) e sul pour parler, e non me ne abbiate se mi occupo di argomenti che vi stanno a cuore non conferendovi un’adeguata dignità. Ma su questo tema, o insieme di temi, mi trovate ancora meno informato di altri. La mia visione razionale della realtà mi impedisce di contemplare qualsiasi cosa sia meno tangibile della materia solida, già sul liquido non commestibile (e non alcolico) ho qualche problema. Figuriamoci con gli elementi gassosi e quelli non rappresentabili su un piano tridimensionale.

Chiacchieravo con lui di un argomento “leggero” come il rebirthing, che in un’iperbole ho definito esperienza limite per andare alla radice di alcuni miei conflitti interiori irrisolti. E dicevo all’amico che non sarebbe male provare un viaggio dentro il me stesso di quaranta e più anni fa, rivivere i momenti di rottura e isolarli in qualche modo, per affrontarli e vincerli in seguito. Lui, che è molto competente in materia, mi ha suggerito di andare oltre, trovare un canale per spingermi fino alle vite precedenti. Addirittura.

Ma quando penso alla reincarnazione, che ritengo una delle numerose teorie escatologiche sviluppatesi in qualche modo per dare conforto all’ineluttabilità della morte, penso alla sfiga del ritrovarsi servo della gleba nel medioevo, indigeno americano all’arrivo degli spagnoli o, per fare un esempio più recente, soldato-bambino in qualche guerra africana. Voglio dire, Berlusconi a parte non ci possiamo lamentare del livello di civiltà a cui siamo stati predestinati, qui nel nord-ovest del pianeta. Un luogo in cui l’incommensurabile, nel mio caso, ha solo le sembianze rarefatte di un grande cruccio che mi porto appresso da sempre, il sogno ricorrente che mi fa sobbalzare di notte: io partigiano che vengo braccato e ucciso dai nazisti nelle campagne di un luogo non identificato.

Forse, chiedo al mio amico, in una vita precedente sono stato realmente protagonista di un’uscita di scena così eroica e tragica. E il suo parere da esperto è un pugno nello stomaco: potrebbe anche essere il contrario, e cioè che la mia anima ha occupato il corpo di un ufficiale nazista che ha catturato un “bandito” comunista e lo ha freddato come lo sogno io, con la rivoltella sulla nuca. In effetti il conto torna. Personaggi nella scena onirica ce n’è più di uno. Ed ecco un motivo in più per continuare a ignorare chi sono stato prima. Non sopporterei mai un prequel simile.

in dote

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Non ero certo un buon partito. Anzi. Non essendo nemmeno proprietari di immobili, i miei mi hanno messo in valigia, il giorno in cui ho deciso sarebbe stato il mio primo giorno di indipendenza, nient’altro che la mia parte di ansia, una significativa somiglianza fisica con mio padre e un flacone di pessimismo concentrato e annegato in un intruglio di inconcludenza. Sì, c’era la casa di campagna di famiglia, ma quella se l’è presa con un raggiro da manuale mia sorella con quel criminale di mio cognato. Hai voglia, poi, a dire che essere figli unici è una sfortuna. Ecco, a parte l’amore per la musica, il resto l’ho guadagnato sul campo. Ho portato con me un contenitore di caramelle a forma di testa di supereroe in plastica, uno spremiagrumi Atlantic originale con confezione, una scatola portabiscotti arancione anni 70, una coppia di poltroncine vintage oramai valvola di sfogo dei gatti, e tutto il necessaire per ascoltare musica con qualsiasi device, dal più antico al più moderno. Compreso un set di cavi e riduzioni in grado di rendere ogni mezzo perfettamente integrabile con l’altro. Posso collegare l’iPod alla radio Tivoli, per esempio, o suonare il synth collegandolo alle casse della tv. Cosa che non faccio mai ma che potrei fare. Ecco. La mia ricchezza è questa. Posso intrattenerti per ore, fino alla tua nausea. Ti racconto, ti parlo, ti scrivo, ti spiego cosa è un blog. Ti suono qualcosa, ti faccio ascoltare canzoni e gruppi che non hai mai sentito nominare. Ti leggo i miei libri preferiti, guardiamo insieme film indimenticabili. Questo non significa che poi, alla fine, paghi tu. Ho un lavoro che mi permette di vivere più che dignitosamente. Ma gli extra, quelli haimé proprio non posso permettermeli. E questo perché nessuno aveva pensato che ci fosse un futuro tutto da costruire, aneddoti compresi.

in quale direzione creativa

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Quello che fa la differenza nel mio ambiente di lavoro è la capacità di convincere. C’è tutta una gerarchia di professioni che parte da chi sa influenzare meglio fino a chi non è tenuto a farlo. All’ultimo livello, il ground zero, c’è infatti la produzione, che deve mettere insieme le idee di chi ha persuaso quello sotto nella catena. Perché se riesci a convincere il team con cui operi gli altri fanno quello che dici tu, si diffonde la voce che sei bravo e sai fare il tuo lavoro. Non basta avere il guizzo, bisogna fare capire agli altri che quella è la strada. Quella è la verità. Quello è il verbo. Poi ci sono i fuoriclasse, chi ha la pensata e la manda così, via e-mail, senza faccine e spiegazioni a corredo. Chissà, forse vivono di gloria e rendita perché in passato hanno vinto il campionato mondiale di persuasione. Fatto sta che ora non si preoccupano minimamente di essere messi in discussione. L’ascetismo è invece uno stadio evolutivo ancora più estremo, è l’arte del partorire arte, la sublimazione della creatività in ufficio, quella che scaturisce indipendentemente dalla richiesta di prestazione e di feedback. Un asceta è un virtuoso che ha l’illuminazione e la scrive generalmente sul suo Social Network preferito, solo per essere contemplato. Ci sono infine quelli la cui capacità di essere convincenti costituisce una componente dello stipendio percepito. La degenerazione dell’arte del convincimento altrui è la provvigione, il risultato di una formula alchemica altrove definita vendita. Ma il commerciale, che prima del possibile acquirente deve aver persuaso se stesso, fugge da ogni logica in quanto agisce orizzontalmente, verso l’esterno dell’azienda. Quando per deformazione professionale si prodiga anche verticalmente si crea un corto circuito, il diagramma di flusso necessita di uno spin off non programmato e c’è il rischio di tilt. Non ci si fida più. Ci si chiede se la propria attività è utile, fa del bene anche oltre il mercato, o è solo pubblicità, è solo anima del commercio condannata all’inferno. Si persuade con le parole giuste, con uno sguardo, con i gesti, parlando nel vuoto, dimostrando se stessi con l’ausilio di Power Point. Va bene, mi hai convinto, dicono alla fine. O non si dice nulla se non un bravo, bell’idea. Ci aggiorniamo dài, al telefono. O, via mail, ti faccio sapere appena ho news.

mio dio è pieno di stelle

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Ero una astronauta e stavo nuotando nello spazio, dalla Terra verso Giove, quando ho sentito un’esplosione. Mi sono voltata e visto la Terra che si stava distruggendo. Allora mi sono tolta il casco della tuta, per morire“. Ditemi che è la sceneggiatura di un film esistente, vi prego.

con la testa sulla porta (ma era un sogno)

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Non sono molti i dischi che mi piacciono per intero, intendo l’ascolto in sequenza di tutti i pezzi. Magari c’è quella canzone che mi annoia o che mi disturba, ma la lascio lo stesso perché sentire dall’inizio alla fine un album è un segno di rispetto per il gruppo o l’artista. La tracklist ha un senso e i pezzi devono essere ascoltati solo in quella direzione, ognuno a suo modo prepara il successivo, altrimenti il concept sarebbe stato pensato diversamente. Una visione un po’ integralista alla musica, direte voi, ma che ha un suo perché che può sfuggire considerando l’odierno approccio random su migliaia di pezzi, con l’effetto Virgin Radio che ne deriva, che lo ha reso superato. D’altronde l’aver messo in discussione il supporto e il mezzo stesso di contenimento del prodotto musicale ha completamente cambiato le carte in tavola.

“The head on the door”, come sapete, è l’ellepi dei The Cure che ha aperto la strada del successo pop alla band di Robert Smith. Non a caso i puristi al massimo arrivano a The Top, l’album precedente. Addirittura c’è chi si limita al solo periodo new wave del gruppo inglese, dagli esordi alla triade che si chiude con Pornography. Io non la penso così. “The head on the door” è un album che ha costituito la colonna sonora del mio primo vero upgrade, perdonatemi il termine, una serie di pezzi piuttosto facili considerando la categoria di appartenenza del gruppo in questione, che però hanno la rara caratteristica di rappresentare tutta la gamma degli umori, tutta la scala degli stati d’animo ciascuno con il suo ph, dal più depresso al più frizzante. Se non siete d’accordo, almeno provate a vederlo, anzi, ad ascoltarlo con le orecchie di un diciottenne. Ma bollori adolescienziali a parte, almeno ne si riconosca la straordinaria varietà di atmosfere, dal fill di batteria di “In between days” fino al delay con cui si inabissa “Sinking”, nel ronzio di un ascolto a volume smodato. Insomma, non c’è un solo pezzo che stona, non credo di averne mai saltato uno né in quel 1985 né ora, mentre sta per iniziare il riff di “Push” in questa seduta di ascolto pomeridiano. Un disco da meditazione, come quei liquori da gustare nei bicchieri appropriati, sufficientemente larghi da inalarne lo spirito. Un suono da notte in autostrada, da solo sulla strada del ritorno. E una manciata di canzoni da guardarsi in faccia e sorridersi, perché abbiamo capito che cosa è stato inutile dirsi.

Post Scriptum: prima di acquistare il disco, un caro amico me ne fece una copia su cassetta, gli ellepi costavano non poco e un ascolto preliminare all’investimento era d’obbligo. Ma il suo disco saltava su “A night like this”, quindi omise la traccia otto dalla registrazione senza avvertirmi. Ho consumato quella cassetta convinto che tra “Close to me” e “Screw” non ci fosse nulla. Oggi credo che “A night like this” sia una delle canzoni più belle dell’album, spero converrete con me. Allora non andò proprio così, anzi rimasi interdetto: un solo di sax in un pezzo dei Cure, che sacrilegio!

chiedo l’aiuto del pubblico

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Fanno tenerezza i cittadini, solo quelli educati però, che si sentono disorientati dalle iniziative organizzate dal Comune. Non sono più abituati agli eventi gratis e per di più privi della star televisiva di turno, il Gabibbo, il vincitore di Amici, il sosia di Celentano o, non saprei cosa è peggio, il raduno delle Ferrari, e chiedono alla responsabile quanto costi un giro sull’asino per il loro figlio. L’evento è molto carino, si chiama Asinovia. Ci sono cinque asini che si muovono lungo un percorso in un parco boschivo, uno dei quali è carico di due gerle piene zeppe di libri per bambini, che fanno a turno sulla groppa. A guidare gli asini c’è un attore che, ogni tanto, ferma la carovana in una radura, mette giù due teli rossi, fa sedere i bambini all’ombra delle querce e legge una storia. I bimbi si sbellicano dalle risate perché l’attore, con un forte accento romagnolo, è proprio simpatico.

Chi ha scoperto l’iniziativa nei giorni scorsi, quelli più attenti a quel poco che il Comune riesce ancora a organizzare con quel minimo di budget che gli resta, non ci ha pensato su due volte a iscriversi. Sta di fatto che i posti disponibili, ventiquattro bambini per ciascuno dei tre giri di un’ora, si sono esauriti praticamente subito. Ma sapete come succede. La comunicazione pubblica è quella che è, alla gente bombardata da informazioni sfuggono i manifesti istituzionali. Non abbiamo tempo di leggere, se leggiamo è facile non capire un linguaggio spesso distante da quello che occupa la pubblicità commerciale, in ogni caso siamo abituati ormai ad avere chi lo fa per noi, alla tv.

Quindi intorno al gazebo informativo al centro del parco in cui era stato organizzato il punto di raccolta e partenza dell’Asinovia, c’è un viavai di famigliole a spasso come ogni domenica, ignare ma incuriosite dall’iniziativa, alle prese con i loro pargoli che premono per saltare in sella agli animali. E come si fa a dire di no ai proprio figli? Si impara: mi dispiace, caro, mamma e papà pensano solo al loro lavoro, non leggono il giornalino del Comune e non badano alle affissioni a meno che non ci siano donne nude o cellulari in offerta.

Poi ci sono quelli che si stupiscono che l’iniziativa sia completamente gratuita, abituati ormai a metter mano al portafogli per qualsiasi cosa. Questo è il Pubblico, signori miei, sarebbe da dir loro. Se tutti noi pagassimo le tasse sarebbe tutto gratis, magari saremmo anche informati meglio perché anche il Comune avrebbe un sistema di comunicazione più efficace e anche più moderno, tramite i social media o una web tv, non so, giusto per fare un esempio.

E, dulcis in fundo, arriva quello che chiede l’eccezione. Si può? No, mi spiace, i posti sono finiti. Ma un bambino in più cosa vi costa, aggiunge lui. Un bambino in più, una richiesta espressa con la mimica tipica dell’aumma aumma di nostra produzione: l’indice destro in verticale con il pollice che lo sorregge, le labbra protese nella pronuncia della vocale U, una posa che ricorda Totò, la faccia nazionale dello “sgamo”, il mento in avanti, gli occhi furbetti da questua. Uno in più, che cosa vi costa? Tanto più che siete nostri dipendenti, sembra dire il Totò con la bambina per mano, che proprio non ne vuole sapere di rinunciare al suo giro in asino. Niente da fare, non c’è proprio spazio e non sarebbe giusto per tutti gli altri genitori a cui è stata data una risposta negativa. Il problema è che di fronte a impiegati pubblici ci sentiamo in diritto di insistere. L’indice resta ancora un po’ lì, ritto, una posa plastica che però non regge. Vieni tesoro, dice quindi alla figlia, proviamo a seguire gli asini, lo chiedo al signore che legge le storie e magari riusciamo a salire lo stesso.

svendere sogni

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I due manovali dell’IT che mi ammorbano ogni santo giorno descrivendo a voce alta, in treno, questo o quell’altro trucco per vincere la perenne sfida tra l’uomo e la macchina, per inciso ricordatevi che potrete anche vincere una o più battaglie ma giammai riuscirete a sopraffare l’intelligenza artificiale, che ha un’espressione molto ma molto più sveglia della vostra. Questi due abili conversatori dei sistemi operativi che conoscono ogni riga di codice e ogni comando tranne uno, la funzione ciclica che diminuisce di uno a ogni giro il volume della voce fino a che il volume è uguale a zero, e ogni mattina in cui ci incrociamo, e purtroppo il caso ci fa scegliere oltre lo stesso orario anche gli stessi posti, mi distraggono dalla lettura facendomi inciampare nei loro dialoghi, gettando parole come cartacce nei sentieri della trama sulla quale cerco invano di concentrarmi. La suddetta coppia tutta maschile di maître à penser oggi non è sfuggita all’argomento del giorno, ovvero “quante se ne è timbrate” (sic) Berlusconi nella sua vita, pagando o promettendo la celebrità, elargendo bustarelle ripiene come quelle della zia alla comunione prima dell’avvento del commercio elettronico o occupando posti di potere in questa o quell’altra amministrazione pubblica, donando gadget da autoconcessionaria o impiegandole in una delle sue aziende controllate, fornite dal rampante di turno o raccolte questuanti dai fidi emissari del suo pensiero.

Quante se ne sarà timbrate, si chiedono sorridendo con malizia, loro che con quel marsupio da bancarella e la camicia fuori dai pantaloni per occultare l’epa in eccesso, quei mocassini senza calze che lasciano nude caviglie pelose, teste rade ma ugualmente scintillanti grazie al gel effetto bagnato, difficilmente – temo – riuscirebbero ad avvicinare non solo femmine consenzienti ma chiunque. Almeno io, fossi donna, scapperei a gambe levate, a meno di non voler imparare gratuitamente ad amministrare un Ced. E la risposta all’interrogativo del giorno probabilmente è scritta tra le righe della copia di free press che uno dei due tiene tra le mani, il più informato, a quanto pare. Si cimenta in una conta e ipotizza una statistica: se in x mesi ne ha timbrato diciamo trenta, moltiplichiamo per tot anni, magari chissà quando era più giovane che ritmi teneva. Si chiedono come facesse a lavorare, come sia stato possibile fare quel che ha fatto, perché la cifra che se ne evince ha del miracoloso. Diamine, dicono. Diamine, me ne basterebbero un paio. Magari insieme.

Update: a proposito di quantità, ne parla, in termini seri, Giovanna Cosenza qui.

il dodici settembre

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Povero dodici settembre, oramai è diventato il giorno più bistrattato dell’anno, non lo celebra nessuno pur essendo una data importante. Il dodici settembre è il decennale della scoperta di una grande energia, quella necessaria ad alimentare lo sforzo a ricostruire tutto da capo. Oggi ricorre l’alba che sorge sullo spettro della catastrofe, in un giorno in cui l’aria è ancora irrespirabile per il fumo nero del giorno prima, la luce naturale del sole che si accende e tenta di sopraffare le luci artificiali rimaste attive nella notte per non interrompere i soccorsi alle macerie delle Twin Towers. Un giorno in cui molti non si sono svegliati perché non sono andati proprio a dormire, impegnati a Ground Zero, o a casa a seguire la diretta di quello che stava succedendo, o proprio non c’erano più, di loro non rimaneva più nulla ed è facile immaginare il perché. Il dodici settembre non ha nessuna invidia per il suo fratello maggiore, così gli ricorda che non è l’unico. Sai, gli dice, non sei il solo a essere entrato nella storia. Per esempio, anche l’undici settembre del 73 c’erano aerei protagonisti in cielo, ma aerei militari che bombardavano la sede di uno stato sovrano, quello cileno, che stava per perdere la sua libertà e il suo rappresentante eletto democraticamente in favore di una sanguinaria dittatura militare.

E se ci sono molte ragioni per cui l’undici/nove di dieci anni fa ha superato in drammaticità tutti gli altri, non bisogna dimenticare il giorno successivo ai grandi eventi, il day after, e il dodici settembre lo è diventato per antonomasia. Perché il giorno dopo, a freddo, è ancora tutto più assurdo e ancora più presente e vivido del giorno prima. Buon dodici settembre a tutti, anche se apparentemente non c’è proprio nulla di cui rallegrarsi.

p.s. e, per cortesia, ora basta full immersion mediatiche in catastrofi in cui sono coinvolti voli di linea. Vorrei avere il coraggio di mettere ancora piede su un aereo, in futuro.

servo muto

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Quello che mi pesa di più del mio lavoro è che si parla poco. Mi pesa perché ormai, dopo oltre quindici anni di attività, ho smarrito una delle mie qualità grazie alle quali, giusto per tirarmela un po’, me la sono cavata piuttosto bene alla maturità e, soprattutto, all’università. Ma anche dopo, quando dovevo convincere qualcuno di qualcosa. Avevo pure una buona dialettica, motivavo e dimostravo, raccontavo a voce senza sforzo, chiacchieravo anche fin troppo, me la cavavo piuttosto bene di fronte a tante persone, mi è capitato di tenere corsi anni fa e, insomma, non è andata poi così male. Ma la facondia, che per certi versi è un dono, non è solo un’arte, è anche una disciplina che va coltivata, nutrita e, soprattutto, esercitata.

Così da quando ho acceso il mio primo strumento di lavoro, che è stato un Mac, da allora la parabola è iniziata a decrescere. E all’inizio facevo fatica a tenere la bocca chiusa, cercavo di chiedere, chiacchieravo al limite del disturbo, ma vedevo che i colleghi senior, gente che veniva dai dueottosei e già chini sui terminali mentre io cercavo di realizzare i miei sogni facendo il musicista, a malapena tolleravano le distrazioni dai loro monitor a 256 colori.

Così per sopravvivenza mi sono adattato, è stato un processo naturale quello di iniziare a relazionarsi solo con il proprio elaboratore. C’erano le pause sigaretta, i caffè, il pranzo, qualche battuta, ma ormai avevo imboccato anche io la strada della granularizzazione totale, che è poi anche la morte sua del lavoro postfordista, ognun per sé e si fotta l’unione dei lavoratori, tanto c’è il pc e i colleghi si fanno tendenzialmente gli affari propri. E mi accorgevo che, pur leggendo come un forsennato, tenere i pensieri in gola per otto ore alla fine arrugginiva quel meraviglioso impianto di diffusione audio di cui l’individuo è dotato.

Ma se fai il programmatore, a parte chiedere quando hai bisogno, non serve scambiare battute con il dirimpettaio, anzi ti distrai e perdi il segno e devi rifare il flusso tutto da capo. Il grafico si blinda in cuffia e vola nel suo mondo della Suite Adobe, e ci si vede a fine progetto, ognuno con i suoi pezzi, chi ha scritto le parole, chi ha disegnato l’interfaccia, chi ha costruito il motore, si assembra il tutto, sempre sul computer, e poi bon. Per non parlare poi dell’avvento dei socialcosi, insomma avete capito dove voglio andare a parare, è comodo comunicare scrivendo perché rileggi tutto, cancelli i refusi (se li vedi), metti due faccine e schiacci enter.

Ed eccoci qui, soli con il ronzio del condizionatore, a scrivere testi e idee e progetti giorno dopo giorno nel silenzio assoluto, le dita su tastiere sempre meno rumorose, i più audaci le cuffie isolanti da cui non trapela nulla, non esistono quasi più nemmeno le stampanti con il loro rumore da telefilm di fantascienza. Alla riunione aspetti il report finale, se ci sono domande fai un reply to all, ogni tanto qualche squillo del telefono o la vibrazione di un cellulare di vecchia generazione, addirittura si percepisce lo sciacquone di chi è in bagno.

E se per caso devi parlare, la voce esce dopo un eh ehm di rito, la sensazione è quella di far passare un mobile ingombrante da una porta troppo piccola, provi a girarlo e rigirarlo ma non c’è verso, devi fare forza fino a quando esce tutto malconcio. Già, perché le cose in testa ci sono, magari un po’ impolverate, metti in ordine i sostantivi, il lessico fortunatamente aumenta giorno dopo giorno, libro dopo libro. Ma le casse gracchiano, forse i cavi non sono collegati correttamente, subentra l’imbarazzo, persino un po’ di rossore sulle guance, l’interlocutore che ti scruta perché ha fretta di sapere, ecco mannaggia quel dato da dire ha lasciato posto al panico da prestazione, la consecutio va in tilt come un qualsiasi programma che necessita di troppa memoria quindi meglio non usarla, tanto se devi dare risposte brevi e mirate chi nota se il congiuntivo è presente o passato. È passato? Mah. Poi ripiomba il nulla. Ciao, a domani, buona serata. Questo almeno è facile da dire.