io personalmente

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Io personalmente è un chiaro segno dei tempi. Un tentativo di rafforzare una qualsiasi propria posizione su una qualunque cosa, o forse più un modo per limitare la responsabilità di una opinione entro i limiti della propria fortezza individuale, un mettere nero su bianco che oltre il ponte levatoio che raramente si lascia aperto – e comunque onde evitare spiacevoli inconvenienti ci sono coccodrilli travestiti da avvocati pronti a prendere le difese intorno – il concetto che si sta per esprimere non ha nessun valore, è pura interpretazione dell’ascoltatore. D’altro canto, io personalmente è anche il copyright sull’idea, sul principio o sul parere, come me non c’è nessuno io sono l’unico al mondo, l’introversione di ogni possibilità di confronto, la massima chiusura nel bunker, tiro la sicura poi lancio la bomba dalla feritoia quindi mi tappo le orecchie e aspetto il botto, tanto ho detto io personalmente e sono cazzi tuoi. È una iper-prima persona singolare, un ego spropositato che non ammette confronti, un “mio Io, senti cosa sto per dirmi”. Oltre che un bel errore di grammatica. Io personalmente lo detesto, quasi più di un attimino.

è pessimo

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Se fossi stato un, anzi “il” localizzatore dei sistemi operativi di basso livello incaricato di tradurre comandi e messaggi di avviso, avrei reso un pugno nello stomaco come “fatal error” con “errore madornale”, che magari non è proprio attinente ma ti dà la piena idea dell’operazione irreversibile. Quello che più restituisce l’idea della cosiddetta cappella colossale, ora non so se sia italiano o un modo di dire locale della mia regione di origine. Gli errori madornali, nella nostra vita quotidiana, sono quelli che quando li fai hai quel paio di millisecondi per renderti conto della cazzata che hai fatto e poi ne subisci, talvolta gravemente, le conseguenze. Avete presente il noto coyote che sta per cadere nel crepaccio dopo l’ennesima beffa del noto roadrunner? Quello è un errore madornale, quelli sono gli ultimi istanti di come era prima di aver sbagliato. Non so farvi un esempio personale, nel senso che non saprei quale scegliere perché ne ho a bizzeffe, ma ce ne sono. Sposti il libro che ti fa crollare la pila, dici la cosa più sbagliata alla persona che ami, sbagli l’uscita della tangenziale quando sei già in ritardo per un meeting di lavoro, e così via. Certo, ci sono anche le micro rotture, quelle per cui basta riavviare anche forzando lo spegnimento, poi tutto si riaccende, al limite anche in modalità provvisoria. Poi torna come prima. L’errore madornale invece spesso ti si ripresenta tale a ogni avvio, sempre che si riesca ancora a riattivare il sistema. Perché lo step successivo è ri-formattare, quello dopo è comprare altro hardware, con il quale a volte è facile commettere lo stesso errore. Perseverare.

pan per focaccia

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Sono sempre state di fronte, affacciate sulla stessa strada, dalla vetrina dell’una si può sbirciare come vanno le cose nell’altra. Due panetterie a pochi metri di distanza, gli ingressi simmetrici sui due isolati di una via del centro. Il quartiere è sempre stato popoloso, in una città in cui l’elemento base dell’alimentazione è la focaccia, focaccia a colazione, a pranzo, merenda, aperitivo e cena, quindi non c’è a monte un errore nella concessione delle licenze. Ma il caso ha voluto che le tue aree limitrofe che avrebbero probabilmente dovuto avere non più di un forno ciascuna, li avessero paradossalmente in quel modo speculare, quasi come due continenti che si separano ma restano per sempre con la stessa morfologia per chiunque ne studi, prima o poi, le caratteristiche.

La clientela è, all’inizio di questa storia e intendo la notte dei tempi, suddivisa equamente anche in modo piuttosto campanilistico. Chi sta al di qua della via va dal panificio Bianchi, chi abita di là si rifornisce da Verdi. Entrambi sono forni con rivendita, entrambi fanno pane e focaccia ottimi, non c’è alcun bisogno di diversificare il prodotto. Trattandosi del cibo tipico locale nessuno ha interesse a far evolvere abitudini, accendere curiosità, sperimentare. Nonsolopane, per dire, quei nomi bizzarri che fanno tanto programma televisivo con il presentatore tutto vestito Marlboro Country che regala i quindici minuti warholiani a massaie e fanatici dello slow food e mangia e beve a sbafo. Quella invece era una visione del consumo alimentare in linea perfettamente con l’era democristiana cui mi riferisco, la balena bianca e le sue propaggini del pentapartito. La metafora è che in campagna elettorale avrebbero votato tutti PCI, e poi guarda un po’ nelle urne il blocco di centro usciva sempre vincitore. Così tutti avrebbero, chissà, anche dato un taglio alla tradizione, ma poi alla fine meglio non rischiare. Così anche tra panettieri. La focaccia resta focaccia, al massimo con le cipolle.

E in quello stesso partito di riferimento per una maggioranza silenziosa (non si mangia con la bocca piena, tanto meno la focaccia) coesistono due scuole di pensiero opposte, diciamo due correnti interne allo stesso partito. Prendiamo come punto di riferimento geografico il mare: Verdi, ubicato a destra, la fa morbida e untissima. Bianchi, a sinistra, la fa secca e asciutta. Noi abitiamo, purtroppo, a destra, e Verdi occupa addirittura l’appartamento sotto il nostro, è un vicino di casa. Si è fatto addirittura insonorizzare la camera perché, lavorando di notte, dorme di giorno e non ne può più di sentire me che mi esercito al piano tutto il dì. Poi il signor Verdi invecchia, va in pensione, subentra qualche parente ma sembra non perpetrarsi la gestione familiare, si perde la continuità, insomma gli habitué percepiscono un po’ di confusione, il negozio perde un po’ in smalto, subentra l’incuria, le vetrine scarne, nel frattempo c’è stata mani pulite e Forlani con la bavetta esposto al pubblico ludibrio. Si smarrisce il consenso: la focaccia non è più come la faceva una volta. E contemporaneamente la popolazione stessa, sempre da quella parte, segue il cambiamento della società e invecchia con quel rigurgito di orgoglio che hanno gli anziani di oggi e vogliono ancora divertirsi. Festa in piazza, uomini e donne, i sogni Mediaset che vivono a lungo come Vianello e la Mondaini in una televendita.

Il signor Bianchi di là segue, anche involontariamente, un percorso opposto. Intanto innesti dell’est europeo nella famiglia padronale danno guizzi di esotismo che gli afecionados apprezzano. Nuovi tipi di focaccia e pane, nuovi sapori, nuovo modello di business. E allo stesso tempo c’è la riscoperta della tradizione, la ricetta come era una volta, la vera focaccia del posto. Gli anni 80 sono finiti, alla rucola subentrano gli agriturismo e le ricette della nonna. Il signor Bianchi e la sua famiglia, figli e parenti acquisiti, fanno quadrato, danno più sicurezza, ed ecco che accade l’imprevedibile. I clienti di Verdi attraversano la strada e passano a Bianchi, magari inizialmente vergognandosene un po’, ricordiamoci che dall’interno dell’uno si vede quello che succede nella bottega dell’altro. Traditori e voltagabbana, ma il marketing consiste anche nell’affossare la concorrenza. Oggi Bianchi sfoggia un modernissimo arredamento nuovo di zecca, commesse giovani, abbronzatissime e cordiali che salutano i clienti anziani che passano il tempo alla finestra, fornisce il numerino per le code, il negozio è sempre pieno malgrado la crisi perché anche con la crisi si fa ancora colazione con la focaccia, pranzo con la focaccia, focaccia per aperitivo e anche a cena.

Verdi, di fronte, oramai è quasi sempre deserto. Qualche vecchio cliente che non si è reso conto della perdita di qualità e del conseguente mancato presidio al vanto locale. Alto tradimento. Metti che sbarca un turista da una nave da crociera nel pomeriggio e vuole assaggiare le delizie del posto e capita lì e la focaccia è stata sfornata la mattina e ormai non è più buona, e magari in vetrina hai una ciambella e un rotolo di cioccolato. In agosto no, il rotolo al cioccolato in vetrina in agosto proprio non si può. Vedi, qui il commercio al dettaglio lo uccide anche l’incuria.

fa novanta

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La prima volta è stato con un film comico in bianco e nero, quelli con Stanlio e Ollio, o Cric e Croc secondo il lessico famigliare. Uno dei due faceva il bagno nella vasca, l’altro ha tolto il tappo ed è stato inghiottito dal buco dello scarico, insieme all’acqua. Una specie di evoluzione del noto proverbio dei bambini e l’acqua sporca, ma qui c’è il paradosso delle dimensioni e guai a mostrare un paradosso a un bambino. Paure da grande e piccolo schermo, come quella nata a seguito della visione de Lo squalo. C’erano svariate possibilità che un esemplare gigantesco, catturato nel mediterraneo e trasportato tramite TIR per le strade della città, proprio sotto casa avesse uno scatto di sopravvivenza, gli stessi che hanno i pesci nei secchi senz’acqua, e saltasse fino al quinto piano sfondando le finestre e atterrando sul letto fino a mangiare il bambino che al buio non riusciva a chiudere occhio. O ancora il liquido nero con cui gli extraterrestri riempivano i caschi dei militari della Shado, un’agonia che poi è tornata in auge con il video di No surprises, per fortuna era almeno trasparente e non caffé e dava l’idea di essere più friendly. Mai mettere la testa in un casco. Ma la peggiore di tutte era l’annunciatrice RAI che ti si rivolgeva direttamente, roba degna di Cronenberg e del suo Videodrome, passando da un generico voi punto-multipunto a un diretto tu punto-punto. In confronto la foto di Mario Tuti al telegiornale era tutto relax. Già, anche le ansie generate dal momento storico politico. Per esempio la paura che qualcuno entrasse in casa e ti rapisse, o una bomba nel portone, o un semplice incendio dovuto a uno scontro tra manifestanti e polizia sotto casa.

Nel tempo le paure poi diventano più specifiche e contestualizzate all’individuo. La paura dello scontro fisico, quella del rifiuto dei pari e del non piacere a chi ti piace. Farsi del male. Ma gli strumenti a disposizione sono maggiori, l’equilibrio diventa più strutturato. Tanto da permetterti di attraversare la fase del senso di invincibilità fin troppo da spavaldo, e atterrare poi alla maturità e alla razionalità indenne e sufficientemente intelligente da tornare alle paure da irrazionale. Il terremoto, il viaggio in aereo, i luoghi alti e aperti e gli aerei che ti si vengono a schiantare contro, gli oggetti che cadono dalla nave in mare, o cose più serie come le malattie e la morte, propria e altrui. Per non parlare delle paure nate con la genitorialità, lì persiste un intero campionario destinato purtroppo ad aumentare con la crescita dei figli. Inutile ricordare come si definisce il rapporto tra i problemi e la loro età. Oppure la paura di parlare delle proprie paure in prima persona in un post. Ma, tra tutte, la paura più grande è ancora una. Dire di no, vedere lo sgomento altrui di fronte al rifiuto di qualcosa, soffocare l’entusiasmo di una proposta, non accontentare un desiderio, usando se stessi come transfert della delusione altrui. No. Due fucking lettere appaiate, spesso accompagnate a un movimento oscillatorio del capo che, malgrado i progressi della tecnologia, risultano essere ancora una delle armi anti-uomo più comuni. No. E non esistono poligoni di pratica della negazione per esercitarsi, affinare la mira, colpire, ferire. L’esperienza si fa solo sul campo.

congiuntivite

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In una sala riunioni che definire asettica è fargli un complimento, perché vabbè che hai una società che si potrebbe chiamare Mortedeisensi spa, che operi in un settore triste, che hai dipendenti ammorbanti, che ti rivolgi a clienti grigi, che occupi una sede ubicata in un non-luogo con vista su furgone carbonizzato e il bar più vicino è a 600 metri e per di più gestito da cinesi. Ma almeno l’arredo sceglilo un po’ vivo, anziché mobili che in confronto gli uffici della pubblica amministrazione negli anni ’80 erano di design, per non parlare degli scaffali nudi con riviste verticali che leggete in quattro, targhe che attestano le partnership che sfigurerebbero persino a una riffa di regali natalizi indesiderati. Ecco, in questa splendida cornice un direttore marketing logorroico sta argomentando un monologo sullo stato dell’azienda da cui è stipendiato, in un italiano anglo-markettese con tutti i topoi della sua materia di studio. Il linguaggio è forbito, l’uditorio è estasiato, la curva di attenzione è al suo apice. E proprio in quel momento il direttore marketing canna in pieno un congiuntivo. Uno di quelli che quando la prof di italiano li sentiva dai bidelli imprecava dicendo che per lavorare in una scuola almeno il minimo sindacale della lingua italiana occorreva conoscerlo. “Dasse”. Una creatura deforme che esce dalla bocca posta poco sopra della cravattona a righe diagonali e rimane lì, ferma con un effetto 3D tra il direttore marketing e gli astanti, scolpita in uno di quei font che i neofiti della videoscrittura usano compiaciuti per vedere prendere corpo le proprie parole testé digitate sulla tastiera. Un impact, per esempio, bold e colorato con l’effetto sfumatura da un colore all’altro, come i cartelli “domenica aperti” che stampati autarchicamente trionfano appiccicati con nastro adesivo trasparente sulle vetrine dei negozi, ormai nessuno si pone più il problema del soggetto, ma scrivere “il negozio è aperto” va oggettivamente contro i criteri della comunicazione superveloce della moderna era digitale. Qui invece si è materializzato un “Dasse”. Tutto il resto dell’analisi sul bilancio e sulle previsioni di espansione, peraltro fuori luogo in quella sede, con quell’uditorio, per quel tipo di lavorazione, improvvisamente si riduce a un volume infinitesimale, come dopo il boato di un’esplosione l’udito resta sordo per un tempo variabile, a seconda dell’intensità e della sensibilità del timpano. La bocca continua a muoversi malgrado il mute, il pomo d’adamo va su e giù, ma invano perché il volume è a zero. Resta solo un ologramma, un rendering lì, in alto, sul tavolo della sala riunioni. “Dasse”. Il futuro non sarà mai più come prima.

una questione privata

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Quando ti ho visto ballare, la prima volta, ho immediatamente pensato che non fosse un pezzo adatto a te. È partita la canzone, ti sei fatta largo tra la gente, e hai iniziato a muoverti. Male, scoordinata, tendente al grottesco. E subito non ho dato la colpa alla tua sommaria attitudine all’andare a tempo perché avevo gli occhi obnubilati dal desiderio. Ma al momento del ritornello, quello che tutte le volte in cui lo ascolto mi viene la pelle d’oca o le lacrime agli occhi a seconda del mio stato d’animo, tu hai messo insieme una sequenza di gesti e posture da brivido. Di paura, naturalmente. Hai rovinato la poesia. Lì l’idillio è finito. È stato bello, ma scusami, cara. Per me il ritmo è tutto.

E non credere che la cosa non mi abbia fatto riflettere. È possibile mettere al bando le selezioni musicali che danneggiano la reputazione delle persone? No. Si fa prima a marchiare le persone che non sanno andare a tempo. Sfido chiunque a mettere per iscritto un elenco dei pezzi più imballabili della storia del dancefloor, compresi i club e le playlist di roba indie-alternative. Bella scommessa, direte voi. Quale Dj sarebbe così autolesionista da mettere pezzi imballabili? Ne va dell’autorevolezza del locale, del tempo libero – molto più che oro – degli avventori che hanno pagato e consumato per ballare e divertirsi, della reputazione stessa del Dj. “Che storia, l’altra sera Dj Tizio ha mixato i Ting Tings con Luglio, Agosto, Settembre nero degli Area”. Eh magari. Non è possibile, ci sono pezzi che nessuno proporrebbe al proprio pubblico con la pista gremita, e, se ti esaltano, è meglio ascoltarli da soli o in auto, in compagnia ristretta, tra amici che conoscono quel pezzo e già sanno come comportarsi.

Esistono però brani borderline che è sconsigliabile suonare a un pubblico – diciamo – generalista? I pezzi con la cassa in quattro costituiscono lo specifico discotecaro prestato anche al clubbing e al Dj della domenica che inanella hit alla festa di laurea della migliore amica della sua fidanzata, si va sul sicuro, donne e uomini – tranne chi proprio il ritmo nel sangue non ce l’ha, e non è una questione genetica – si dimenano, si corteggiano, si ubriacano e cedono l’un l’altro. Mi riferisco a qualsiasi cassa in quattro, il 99,99% della musica occidentale moderna. Arditi musicisti hanno introdotto i ritmi dispari in quarti, sette per esempio, in cui l’alternanza di battute da 4/4 e da 3/4, 4 e 3 beat per chi è autodidatta, e attenzione a proporli perché si rimane un po’ spaesati sul 3 della seconda misura ma si cade sempre sul morbido della successiva che è regolare, ma alla fine, se ci si concentra, ne deriva una sorta di gioco ritmico a cui adattare il proprio corpo, una sì e una no, una sì e una no e così via. Ora il nostro orecchio, anzi il nostro piede, è abituato, ma all’inizio pezzi come questo in sette non erano così immediati, lo stesso cantante di quel gruppo lì una volta si è perso (ma erano gli albori e la tournée era iniziata da poco, anzi forse era il concerto inaugurale, e possiamo perdonarlo). Una questione culturale, fondamentalmente. Altrove sono abituati alla scansione del tempo dispari, anche dispari più articolati e meno simmetrici e alternati a pari. Insomma, vien voglia di ruotare come dervisci in tondo e non ci si pensa più. Ma attenzione, se il buttafuori non è avvezzo (cosa molto probabile) la vostra interpretazione potrebbe essere scambiata per pogo e potreste venire immediatamente allontanati dalla pista.

Tutto questo per dire che? Ah ecco, i pezzi imballabili non esistono. Musica bellissima da ascoltare e che ti sembra ritmata ma che, haimè, se sei lì con la tua bella rischi una figura un po’ così, magari vai a sbattere con il vicino che in quanto a ritmo nel sangue è più anemico di te e poi di rimbalzo su di lei. E allora gridi “hang the dj”, ma non perché la musica non ti dice nulla della tua vita. Un trauma che mi porto dentro da un remix di “Love like blood” dei Killing Joke, non l’ho trovato in rete altrimenti avrei argomentato meglio questo futile post, con un paio di cambi, di stop and go totalmente aleatori che impedivano il flusso logico dell’assimilazione sonora, la scomposizione di suoni e silenzio in moduli di figure corporee, fotogrammi che scorrono in film fino quando un qualcosa che non riesco a descrivere lo ha interrotto, una forbice sul nastro. Buio. Corpi in nero sono piombati nel silenzio, muti. Solo l’handclap della batteria elettronica, indecifrabile. Un cambio imprevedibile e tutto è sospeso, ed è proprio lì che ho schiacciato un piede. Avevo gli anfibi. Lei si è risentita. Vai a capire il perché. È l’essere umano, talvolta, a non essere adatto al movimento sincronizzato.

non mi avrete mai

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E un giorno capita che ti chiamano da un’agenzia a cui hai inviato il curriculum un po’ frettolosamente, senza informarti prima o fare un giro sul loro sito, controllarne la web reputation, capire chi sono, che progetti fanno, chi sono i loro clienti. Un approccio grossolano che ha avuto la peggiore delle conseguenze. Dietro quell’annuncio si celava l’agenzia del nemico, quella che ha ideato un sito dedicato alla personalità del tuo principale avversario politico di cui si sono burlati tutti, che si è fatta sgamare altre ultime amministrative per un sistema improvvisato di aumento visite e traffico nelle pagine dei siti social. E ti valuta lui, l’Amministratore Delegato, con le iniziali sulla camicia, e in quel momento lì ti trovi a solo un grado di separazione dal tuo incubo. No way man, come si dice nei film americani non doppiati. Nemmeno per tutto l’oro del mondo. No way. Scusi, quanto ha detto? Xxxx euro al mese a tempo indeterminato? Ehm…

lo sport è sacrificio

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– “No, non sono andata alla festa, avevo da fare e poi non volevo saltare la palestra”
– “Non sai come è stata?”
– “Divertentissima, c’era anche Jimmy Barba”
– “Chi minchia è Jimmy Barba?”
– “Jimmy del Grande Fratello, è uno simpaticissimo, me lo ha detto Deborah”
– “Oh, che peccato”

avrei fatto lo stesso

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che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.