uno e trino

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Ci ho messo un po’ alle medie a capire in cosa consistesse il settore primario, quello secondario e quello terziario. E l’ho imparato perché sapevo benissimo che il primario fosse l’agricoltura, ma quando risposi all’insegnante che il secondario era la caccia, lei rise e mi disse che, seguendo il mio ragionamento, il terziario avrebbe dovuto essere la pesca. Ora non ricordo se non l’avessi studiato o l’avessi studiato senza capire, fatto sta che da allora sono sempre riuscito a collocare il lavoro nei campi e quello nell’industria ai vertici dell’operosità del genere umano, ancor prima che dell’economia, proprio grazie a quella figuraccia. E già allora ho capito che il terziario, avanzato per giunta, potremmo lasciarlo da parte perché potrebbe anche essere inteso nulla più di un di cui. Sono i primi due che fanno girare le cose e lo si capisce perché viene un terremoto o una catastrofe naturale e il lavoro non c’è più. Ci sono la solidarietà, gli sforzi per la ricostruzione, la dignità e anche un po’ di sofferenza, e tutto ciò genera sollievo. Ma un capannone che crolla o un raccolto portato via da un’alluvione cancellano in pochi istanti mesi se non anni di sacrifici e un fattore così decisivo per il sostentamento basilare di tutti noi è primario per forza di cose, e più che secondario definirei primario ex aequo anche ogni tipo di lavoro manuale applicato all’industria. E l’aspetto paradossale è che, dopo una catastrofe, resta invece indenne solo il terziario soprattutto verso quella parte di individui che un po’ se ne approfittano perché comunque possono andare avanti a interpretare le altre attività produttive, quelle dei contadini e quelle degli operai, perché anche se sono state spazzate via da un crollo o da un’alluvione è possibile continuare a raccontare le conseguenze, documentare gli avvenimenti, informare e divulgare notizie, dato che parlare del lavoro degli altri, quando il lavoro non c’è più, è l’unica cosa che rimane inalterata.

chiedimi chi erano gli Ultravox

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È che oggi ho sentito un sedicente nuovo singolo degli Ultravox che mi ha lasciato sgomento per la qualità, a dimostrazione del fatto che le reunion sarebbe meglio farsele nella propria sala prove, lontano dai fans. Mai rimettersi con un ex. Così faccio finta che il nuovo singolo sia questo, senza Midge Ure ma con John Foxx.

cerchiamo di essere realisti

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Lui votava l’Ulivo, Prodi, i Democratici di Sinistra, quella roba lì insomma. Lei, che non votava a sinistra, vedeva come naturale sbocco, per una persona di matrice cattolica anticomunista, Forza Italia. Discutevano raramente di politica in modo diretto, ma alla fine il discorso puntava lì. Qualche esempio? Un giorno vedono alla tv Neri Marcorè che imita Gasparri e lui ride a crepapelle, lei dice una cosa tipo che ci sarà da ridere, non gli somiglia per nulla. Lui dice ma va, è uguale, solo che Gasparri è ancora più stolido. Così finivano per litigare. O lei a una cena con amici critica i volontari delle ONG laici, lui li difende, e alla fine se ne tornano a casa, ciascuno a casa sua, con il broncio. Fino a quando un giorno lui le regalò i racconti di Carver, lei si scandalizzò per alcune scurrilità contenute nella storia di apertura, così tornò al negozio e si fece cambiare il libro. Quello fu davvero troppo.

il movimento dei movimenti

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Siamo in tanti, siamo in troppi, ci siamo tutti. Un terremoto e si intasano le linee telefoniche tanto che si fa il passaparola per aprire le reti wireless private e aumentare la disponibilità di banda. Su Twitter il refresh di notizie è incontrollabile, la sovraesposizione informativa rende difficile discernere dati ufficiali, informazioni, suggerimenti per la popolazione del posto, indicazioni per i soccorritori, di cosa c’è bisogno e che cosa è superfluo, reportage, lanci di notizie, come comportarsi e cosa evitare in un tripudio di cancelletti (io li chiamo diesis, gli hashtag). Il tutto tra commenti, messaggi personali, impressioni, note di solidarietà, questo nel migliore dei casi. Battute ed emanazioni di personalità malate di protagonismo nei casi medi, l’immancabile esserci sempre e non perdere mai l’occasione di leggere anziché scrivere. Sciacallaggio nei peggiori. D’altronde siamo in tanti, siamo in troppi, non manca proprio nessuno.

stringere il cerchio

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Parliamo in piedi, tu sei perpendicolare a me il che, per farvi capire, significa che io ti guardo dritto in un orecchio e tu parli a me pur rivolto a un interlocutore invisibile alla mia sinistra. Già da questo particolare è facile capire che mi sto riferendo a un uomo, uno di quelli che non riescono a guardare negli occhi, a rivolgere la bocca nella direzione della faccia di chi gli sta rivolgendo la parola o, di rimando, l’attenzione, quando chi ha davanti, anzi di lato, è del suo stesso sesso. E lentamente faccio esperimenti empirici di riposizionamento, muovendomi impercettibilmente verso la mia sinistra in modo da ridurre l’angolo di conversazione, così cerco di captare il tuo sguardo e per qualche secondo ci riesco. Poi la palla passa a me, è il momento per esporre il mio parere e approfitto della intimità che (mi sembra) si stia creando per approfondire il dialogo, ti rilascio anche dettagli piuttosto personali e riservati proprio perché sono stufo di chiacchierare del tempo e di motori e di altre cose di cui non ho un’opinione, un po’ perché esulano dalla mia competenza e un po’ perché non mi sono mai posto il problema. Ma appena finisce il mio turno e tocca a te, ecco che ristabilisci la prossemica di prima e immagino che visti da fuori facciamo ridere in questa specie di girotondo su noi stessi, come me che ti incalzo dalla mia circonferenza esterna e tu, come raggio, fai ruotare l’asse comportamentale che ti consente di mantenere costante la nostra distanza. E io che con tutta la mia buona volontà tendo a trasformare questo movimento emotivo in una sezione aurea, alla fine non riesco a vincere la forza centrifuga, sei troppo maschio o, mi viene il dubbio, ho l’alito cattivo.

bergamotto

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Sono in treno come ogni mattina quando sento un profumo familiare che mi riporta alla mente ricordi lontani, i rumori sordi della spiaggia quando ti addormenti sotto il sole e ti risvegli intontito dal caldo per il bambino che piange, per i ragazzi che gridano vittoria a beach volley, per la canzone stra-nota che parte dal juke-box. È l’odore di una crema, intravedo il contenitore con la coda nell’occhio, probabilmente la marca non è la stessa di allora, chissà se quel prodotto esiste ancora. Ma la fragranza è analoga. Nel sedile a fianco al mio vedo una mano destra spremere un tubetto da cui fuoriesce una dose abbondante di crema che si deposita sul dorso di una mano sinistra altrettanto magra. Riposto il tubetto nella pochette, i due dorsi delle mani iniziano a strofinarsi vicendevolmente e il profumo satura quei pochi metri cubi d’aria che mi separano. Poi le mani si prendono l’una con l’altra, combaciano per i palmi, quindi il materiale si dipana tra le dita con una perizia che mi ricorda il corso pre-parto e le tecniche di massaggio sui neonati come modalità di comunicazione tattile tra genitori e figli. Ma l’immagine romantica e pregna di vissuto viene improvvisamente deturpata dalla reminiscenza di una coreografia di Lorella Cuccarini e penso che cosa mi viene in mente alle otto e mezzo del mattino. Le due mani richiudono velocemente il tubetto, il profumo gradatamente svanisce, o forse sono io che con la fantasia mi sono assuefatto.

happiness

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Un passaggio del testo di una canzone di qualche anno fa degli Editors dice che la cosa più triste mai vista sono le persone che fumano fuori dalla porta di un ospedale. Ok, hanno vinto loro. Ma sentite questa: c’è un bambino che è seguito unicamente dal fratello perché i genitori hanno altro da fare per non dire che la situazione famigliare è disastrosa. In occasione del suo prossimo compleanno il fratello maggiore organizza una festa al McDonald’s di cui ho più volte parlato, quello che è ubicato allo svincolo di un’autostrada in una delle tante periferie di Milano e in cui il contrasto tra fauna abituale e bambini alle prese con pseudo-pollo fritto, coca cola e animazione è unico al mondo. Così elargisce gli inviti standard poi compilati a penna a tutti i compagni di classe – una classe in cui probabilmente non è uno dei più popolari – e nessuno conferma la presenza tanto che il fratello provvede a richiamare tutti i genitori sul cellulare dei compagni invitati per chiedere se il figlio/a parteciperà, sottolineando il fatto che malgrado la festa si stia approssimando nessuno ha ancora accettato l’invito.

no bici qui

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dal nostro inviato

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Mi ero autocandidato per svolgere il praticantato propedeutico alla professione di giornalista presso la redazione locale di un quotidiano consegnando a mano un curriculum battuto a macchina, che poi nel curriculum non c’era nulla se non la data fresca della laurea perché i millemila lavoretti per sbarcare il lunario che svolgevo non erano poi così edificanti. Ma inaspettatamente la segreteria telefonica registrò la convocazione per un colloquio con il capo redattore qualche giorno dopo. Ascoltai incredulo la voce di un giornalista che aveva avuto la pazienza di ascoltare il jingle autoprodotto a introduzione del messaggio semidelirante con cui si annunciava la mia temporanea assenza, non a caso la prima cosa che feci dopo fu di cancellare quel motivetto techno-pop e registrare una risposta automatica da adulto.

Incontrai la persona che mi aveva chiamato qualche mattina dopo, eravamo a ridosso delle vacanze di Natale, mi disse che in redazione c’era molto lavoro da sbrigare e che sarei stato utile. Ci accordammo per il primo giorno feriale di gennaio. Non sapevo nulla degli orari e della vita di ufficio in un giornale dedicato alla cronaca locale, e rimasi stupito di giungere in sede prima di tutti gli altri e di essere l’unico a vestire in modo azzimato. Quando giunse il mio mentore finalmente mi gettai con entusiasmo in quella che poteva essere un’esperienza decisiva, osservandolo alle prese con i ferri del mestiere, seguendo riunioni, ritagliandomi spazi e proponendomi per eseguire qualunque cosa. Ma, senza il benestare dalla sede centrale, non avrei potuto fare nulla di operativo, nemmeno scrivere un titolo o editare un trafiletto.

Così passavano i giorni, io a prendere appunti, interpretare il linguaggio tecnico, leggere dispense sull’utilizzo dei programmi di impaginazione, e a chiedere se c’erano aggiornamenti sull’ufficializzazione della mia posizione, ma la risposta diventava sempre più vaga. Cominciando a sentirmi in imbarazzo in quel limbo professionale ne parlai con il capo-redattore, convenendo con lui che fosse meglio sospendere l’esperienza in attesa dell’approvazione definitiva. Ma accadde un fatto tragico non ricordo se il giorno successivo o quello dopo ancora, la morte improvvisa e misteriosa di un mio parente stretto poco più che coetaneo. Lessi sulla pagina di quel quotidiano alcune allusioni sulla vicenda poco rispondenti alla realtà dei fatti, almeno nella versione che conoscevo io. Così mi presentai la mattina seguente in redazione e andai a parlare con il giornalista che doveva diventare il mio tutor, spiegandogli che le cose non erano andate proprio così come c’era scritto nell’articolo del loro giornale. Rimase sorpreso del fatto che pur essendo a conoscenza di quei particolari non mi fossi rivolto subito a loro per raccontarli.

Mi propose di raccogliere ulteriore materiale da altre persone vicine, amici e parenti, di unire i nuovi contenuti alle mie informazioni e di scrivere qualcosa. Cosa che feci pur pesandomi molto, il lutto era stato assai doloroso per me e per le altre persone toccate dal decesso. Nel tardo pomeriggio rientrai in sede con il mio bloc notes e trascrissi il tutto a un terminale. Il materiale venne elaborato da un collega e alla fine l’articolo fu pubblicato nell’edizione successiva. Il giorno dopo, nel pomeriggio, il capo redattore mi diede la conferma che dalla sede si erano opposti definitivamente alla possibilità di formare una risorsa non proveniente dalla scuole riconosciute dall’ordine. Così ringraziai il giornalista che comunque mi aveva dato un’opportunità, facendomi sentire per qualche settimana arrivato a destinazione anche se con tutto il viaggio davanti da compiere.

Ai tempi fumavo, mi pare proprio di sì. Non faceva poi così freddo, il giorno dopo ci sarebbe stato il funerale, e l’ultimo ricordo che ho prima di quel coacervo di stati d’animo che è la sepoltura di un ragazzo è di una sigaretta, seduto aspettando un treno che poi non ho nemmeno preso.

comincia tu

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Nell’anno del signore 2012, in una raccolta di figurine che si chiama Starzone  dedicata alla musica leggera, c’è posto anche per Raffaella Carrà. E non mi è chiaro se il numero coincide con l’età.