in soldoni

Standard

E come se nulla fossa accaduto si continua a vedere in giro gente con mazzette di contanti in mano. Italiani alla cassa con il portafoglio pieno di biglietti verdi da cento o quelli più rari ocra e viola e commesse nel panico perché hanno appena aperto e non hanno resto da dare. Così chiamano il responsabile che rivolta i divisori nel registratore delle entrate come un calzino, sopra e sotto ma la realtà è quella, triste ma vero. Venti e venti sono quaranta, ma poi mancano i pezzi da cinque e da dieci per arrivare a sessantacinque. Sono i negozianti a essere sprovveduti e sperano che nessuno vada a far shopping con i bigliettoni in tasca, o lo sono tutti quelli che non credono ancora nei POS e nel pagamento elettronico e ritirano dagli sportelli prima di comprare? Dopo tutti questi anni? Così tra clienti in fila ci si guarda spazientiti mentre la coppia protagonista dell’anacronistico siparietto non sa come comportarsi, se devono preoccuparsi loro di uscire e cercare qualcuno che cambi i tagli a due zeri o se è il negoziante che è tenuto a provare al bar latteria a fianco, che ha aperto alle sei del mattino e avrà già un bel gruzzolo in cassa a furia di cappuccini e cornetti e caffè. Ma non hanno una carta o un bancomat, qualcuno insinua la domanda nella coda che unità dopo unità ora si accalca fino a metà negozio. Dai caro, paga con il bancomat, lo esorta la moglie. E la vicenda finisce così, sette minuti persi solo per sbarazzarsi di banconote che poi lo sanno tutti, tenersele addosso non è nemmeno così sicuro, sia che la perdi sia che qualcuno che nota il rigonfiamento e poi se ne approfitta. Senza parlare di chi si chiede quale sia la provenienza, perché oggi il contante è una prerogativa dell’evasore e di chi fa affari in nero, di nascosto, magari trame losche che non devono lasciare traccia. In ogni caso, vedere i soldi dal vero sarà un’abitudine dura a morire, finché saremo materiali anche noi come le nostre ricchezze. Viene il turno nel frattempo dell’acquirente successivo, la sua spesa è inferiore di chi lo ha preceduto ma per segnare la discontinuità estrae la sua American Express. La transazione si inceppa, il primo e il secondo tentativo pure, e ancora una volta tra clienti in fila ci si guarda meno spazientiti e più divertiti, forse semplicemente non è giornata.

l’eternauto

Standard

Visto così, in fase di sorpasso, sembri una creatura da mitologia post- moderna, un cyborg disegnato per una graphic novel di fantascienza ambientata in un pianeta che è un’autostrada a tre corsie popolata da esseri con la testa umana e il corpo di berlina aziendale. Sempre di corsa, sempre nella corsia più a sinistra, condannati a raggiungere una moglie e un figlio che vivono in un paese di cui non ricordano il nome tantomeno l’uscita dell’autostrada e questo è loro condanna e la loro ricchezza è un Telepass al contrario che quando esaurisce la carica muoiono. Solo che come in qualunque società da che esiste l’uomo ci sono quelli che primeggiano perché sotto hanno meccaniche tedesce o giapponesi e ci sono quelli un po’ sfigati la cui posizione nell’organigramma e conseguente status sociale non prevede nulla di meglio che vettura di marca italiana, anche se in joint venture con la Chrysler quindi non si sa, forse americana o forse ancora torinese. Così lanciato a 160 all’ora, chilometro più chilometro meno perché io faccio i 110 e tu mi hai surclassato, abbiamo avuto solo il tempo di studiarci dai rispettivi abitacoli. Il mio completamente in plastica da vettura entry level francese, quelle che hanno tutti gli interni uguali. Ma per me non è un problema, il mio è solo un habitat provvisorio perché sto guidando la mia famiglia verso un weekend in riviera. Il tuo si vede che è anche il tuo ufficio, hai persino la giacca appesa a una gruccia dietro e da lì fai riunioni, briffi i colleghi, comunichi con i clienti, ti informi e ti rilassi parcheggiandoti temporaneamente fuori da un autogrill, per poi ripartire per il tuo eterno vagare senza andata e senza ritorno e senza un perché. Con la nuca affondata nel poggiatesta dato che è meglio proteggerla dal momento in cui con un colpo di acceleratore ti catapulti nell’iperspazio e conviene mettere al riparo dal contraccolpo tutto il tuo know how che hai racchiuso lì e che consiste nel saper vendere bene e saperlo fare ovunque, indipendentemente dal prodotto da piazzare. Tutto questo in un tempo che poi sono i pochi secondi in cui mi superi; è venerdì sera e come ogni fine settimana tu imboccherai il prossimo svincolo a caso, oltrepasserai il casello con la conseguente riduzione di credito-vita e continuerai la ricerca di casa tua dove hai qualcuno che attende il tuo rientro, che ancora una volta non sarà nemmeno quella e quindi via, di nuovo in autostrada, di nuovo in corsia di sorpasso.

non paga

Standard

Avete mai visto un uomo che corre inseguito da un poliziotto in borghese? Che poi il fatto che sia in borghese, il fatto che ci sia differenza tra la divisa e gli abiti civili è una sfumatura che colgono solo gli spettatori, perché è facile prendere un abbaglio. Chi è il cattivo dei due, se nessuno veste da agente? Così se qualcuno vuole intervenire, e dubito che qualcuno voglia immischiarsi, almeno io me ne guardo bene, il dubbio è su chi fermare: occorre gettarsi su chi insegue o proteggere chi è inseguito? Gli occhi del ragazzo magrebino che corre davanti hanno una luce che non avevo mai visto, c’è un obiettivo su cui punta l’attenzione cha varia di istante in istante e se sapesse che sta guadagnando terreno, se si voltasse indietro potrebbe concentrarsi più lucidamente sulla via di fuga più efficace su cui puntare.

Il poliziotto – e che si tratta di un poliziotto a questo punto della storia non l’abbiamo ancora capito – è nettamente meno in forma del presunto delinquente, non ha certo il fisico della gazzella e non ha la propulsione della paura di chi ha davanti. Il tutto mi fa venire voglia di canticchiare “Police on my back” dei Clash, con quella sirena all’inizio allarmante che la senti e inizi subito a correre via. Ma qui non si scherza, non siamo in diretta su un canale musicale, e la gravità della situazione la si evince dalla pistola che il poliziotto – e nemmeno a questo punto l’ho capito ma la pistola diciamo che è un buon indizio – impugna senza puntare però, per furtuna, al ragazzo che scappa. Continua a leggere

dewey

Standard

Una bibliotecaria spinge il carrello colmo di volumi e riviste da riordinare secondo il sistema di archiviazione che conoscono solo gli  addetti ai lavori. Il corridoio è lungo, per questo esistono i carrelli grazie ai quali gli operatori non sono più costretti a portare tomi pesanti in mano tra gli scaffali. Al suo fianco c’è la sua responsabile, che le sta dicendo che non c’è problema, può scegliere di assentarsi quando preferisce. Alla   bibliotecaria così si riempiono gli occhi di lacrime, quel momento in cui sembra formarsi una patina di gelatina sulle pupille e l’abilità sta nel riuscire a controllarne la tracimazione. Un millesimo di debolezza in più e cola tutto, un millesimo di tenacia e la patina resta lì come una lente a contatto che avvolge tutta la superficie in attesa del successivo battito delle palpebre. Ma la bibliotecaria tarda un secondo di troppo nell’abbassare la testa e il riflesso della preziosa lampada al soffitto su quelle lacrime ancora in potenza è decisivo. La sua responsabile si accorge del terremoto interiore che si sta consumando al suo fianco e si ferma e fa fermare anche lei. Ti va di   prendere un caffè, le chiede. Ma la bibliotecaria ormai è una veterana della sofferenza e riesce a tenere tutto quel fluido al suo posto. Le è sufficiente ruotare il volto di qualche grado dalla parte opposta di quella che oltre ad essere la sua responsabile vorrebbe essere anche un’amica. Un movimento che viene frainteso e il cammino riparte, entrambe riprendono il loro percorso attraverso il lungo corridoio. No grazie, risponde la bibliotecaria, meglio di no. Lì le strade si dividono, la bibliotecaria si affretta verso uno scaffale laterale e la responsabile rientra nel  suo ufficio, in fondo al corridoio.

una settimana un giorno

Standard

Seduti in fila lungo il marciapiede, con una montagna di borse e zaini ammucchiati alle spalle nel piazzale antistante la scuola, buona parte degli alunni di una classe del liceo – potrebbe essere una quarta – è impegnata in una sorta di riappropriazione delle proprie vite quotidiane al rientro dalla gita scolastica, tutti con quella faccia un po’ così e quell’espressione un po’ così, in uno stato di interscambio tra atmosfere diverse in cui avviene il processo di ricomposizione dei connotati che li restituirà a loro e alle loro famiglie come erano prima di partire.

Il pullman è ancora caldo del lungo viaggio, chissà da dove arrivano, e continua a sfornare dal ventre bagagli recuperati dagli ultimi scesi e dai pochi genitori che si sono riuniti in un comitato di bentornato. Ma loro, quelli che aspettano ancora qualcuno che li venga a prendere e li riaccompagni a casa in auto, loro siedono a fumare l’ultima sigaretta della gita per prolungare di qualche minuto una parentesi di vita in comunità, lontano da tutto. Lontano dalla famiglia a cui hanno telefonato una volta a malapena in tutto l’arco del viaggio giusto per rassicurare che va tutto bene, che nessuno è in ospedale in coma etilico o è volato già dalla finestra dell’albergo mentre cercava di scappare per trascorrere la notte fuori di nascosto.

E lontano dalla scuola anche se poi l’ambiente della comunità provvisoria era proprio quello, i compagni e i prof. Ma i compagni lì diventano amici perché li vedi anche in mutande, senti i loro rumori al cesso e ti immagini come sarà convivere con persone della tua età, un giorno, in una casa in cui ci sarà un frigo pieno di birra e armadi in cui gettare i vestiti alla rinfusa e la tv in camera da letto e divani su cui consumare pasti insalubri. E anche i prof, magari li vedi appena svegli o stanchi alla sera dopo una giornata zeppa di musei e monumenti, a deambulare avanti e indietro con l’angoscia di tenere il gruppo compatto, sui mezzi pubblici e nei bar. Continua a leggere

capitalismo e barbarie

Standard

“Questa piattaforma offre per la prima volta l’accesso alla televisione digitale in zone remote, come il villaggio slovacco di Uhrovské Podhradie. In questo modo, un numero crescente di persone può accedere a notizie, informazioni e intrattenimento secondo modalità del tutto nuove. In segno di gratitudine, gli abitanti del villaggio hanno deciso di cambiarne il nome in Digital Uhrovské Podhradie.”

prima cittadina

Standard

So che non dovrei scriverlo qui, quindi fate gli gnorri se mi conoscete e non dite che ve l’ho detto, ma credo davvero che mia moglie dovrebbe candidarsi come Sindaco del paese in cui abito alle prossime elezioni, e i motivi per cui dovrebbe farlo sono molteplici. Potrei organizzarle una campagna elettorale a sorpresa ma dubito che sarebbe una vera e propria sorpresa, nel senso che ti possono comprare e ristrutturare case a tua insaputa ma dubito che ti possano candidare senza che tu dia il tuo consenso, e soprattutto è facile accorgersene dai manifesti appesi ovunque, prima o poi ne noti uno. Potrei anche curarle tutta la comunicazione politica sul web e sui socialcosi, come Obama. Scherzi a parte, trovo che sia un politico perfetto non perché sa fare il politico, ma perché ha una capacità di sintesi e di arrivare al nocciolo dei problemi che non ha eguali e perché tra le persone che conosco è quella che sa meglio relazionarsi al prossimo. E lo fa non da uomo politico tradizionale, anche perché è una donna politica, cioè non usando l’arte della mediazione bensì con la sua passione. Non lo dico solo perché mi ha sposato, certo sono un po’ di parte, ma non ha eguali, davvero. Ogni tanto glielo propongo, lei è già consigliere comunale e fa parte del direttivo della sezione locale di un partito, ma è fermamente contraria. Anzi, già patisce l’impegno e il tempo sottratto a sé stessa e alla sua famiglia, quindi non credo di avere speranza. Ma sono convinto che vincerebbe all’unanimità, altro che ballottaggio. E poi, come mi vedreste come first lady?

santigold da jimmy fallon

Standard

Il pezzo spacca anche dal vivo, detto senza mezzi termini. Non trovate?

home theatre

Standard

Mi sono addormentato al cinema in vita mia solo una volta, ma ho la giustificazione signora maestra. Avevo due giorni e due notti di lavoro consecutivi alle spalle e, pur avendo trascorso il pomeriggio a letto, alla fine mi ero lasciato convincere. Il film era molto divertente, “Fratello dove sei?”, e malgrado tutta la mia buona volontà sono crollato nei primi dieci minuti per svegliarmi poi sui titoli di coda. Ammetto di aver visto il film anni dopo, e pur adorando i fratelli Coen un po’ ho capito il perché di un così scarso coinvolgimento.

E una volta sola ho lasciato la sala a metà proiezione, insomma sappiamo tutti che l’unico modo per ammortizzare la spesa del cinema è quello di andare fino in fondo anche se la storia non convince e si fa di tutto per resistere. E “La mia Africa” non mi aveva convinto per nulla, anzi per dirla tutta mi aveva fatto due maroni che non vi dico, per di più allo spettacolo del sabato sera con la sala gremita. Ho approfittato dell’intervallo per uscire a bere qualcosa, morivo di sete e probabilmente pagavo lo scotto di una pizza con le acciughe, un classico del divertimento gastronomico. Il bar era a fianco del cinema. Lì ho incontrato un paio di amici e non sono più rientrato, lasciando la mia fidanzatina dell’epoca sola con l’altra coppia con cui ci accompagnavamo, ma non ricordo se se la siano presa oppure no. Forse si, tenete conto che è passato tanto tempo.

Poi ci sono alcuni film che non ho proprio visto, sapete come si faceva una volta quando non c’erano molte opportunità per trascorrere momenti a tu per tu con la propria amata. In questa categoria rientrano titoli del tutto irrilevanti del cinema per adolescenti dei primi anni ’80, roba che “Il tempo delle mele” in confronto è Inarritu. Ecco, anche il film che ha segnato la mia generazione a tredici e quattordici anni ha la sua storia, perché ricordo che non riuscimmo ad entrare tanta coda c’era fuori, era un sabato pomeriggio, e proprio a causa della calca sfumò per sempre un’occasione di quelle che poi non capitano più, ci siamo capiti. Chissà se fossi entrato, magari la mia vita sarebbe stata tutt’altra cosa. Ho rivisto anni dopo non lei, quella dell’occasione, ma Sophie Marceau completamente nuda in “Al di là delle nuvole” e finalmente si è spezzato un incantesimo.

Poi ci sono stati gli anni del cinema da solo perché il resto mi annoiava. Le tessere del cineclub con centinaia di timbri e ogni quindici ne avevi uno gratis. Costava poco e mi permetteva di entrare in quella che era la dimensione che preferivo: sedili comodi e poco meno di due ore altrove, un posto differente ogni sera. Un periodo in cui ho visto davvero di tutto, e andavo matto per il cinema dell’estremo oriente, film come “Cyclo” che quando c’è la scena in discoteca con Creep dei Radiohead stavo per piangere, ed ero l’unico spettatore in sala allo spettacolo delle 22.30 e quindi non se ne sarebbe accorto nessuno.

Ma l’esperienza più intensa l’avevo avuta molti anni prima con “The wall”, visto in condizioni diciamo non proprio lucidissime, seduto a terra davanti alla prima fila della platea a causa del tutto esaurito. La scena di inizio, quando i ragazzi sfondano le porte dopo il ronzio della lucidatrice, il tutto a pochi metri dal grande schermo. Un’esplosione che mi ha cambiato i connotati, sono sicuro che non dimenticherò mai quella specie di colpo di frusta che ho preso.

Ora il cinema è vera evasione, nel senso che mia moglie ed io cerchiamo di scappare e lasciare nostra figlia a parenti o amici, quindi ci fiondiamo a vedere i film ma solo quelli davvero imperdibili, che negli ultimi otto anni, da quando siamo appunto genitori, si contano sulla punta delle dita. Non che siano pochi i film, è che sono poche le possibilità. Altro che evasione. Il resto, tutto il resto, lo vediamo qui, ma nemmeno alla tv. Proprio sul portatile, al buio e con le cuffie per non disturbare nessuno, al caldo delle coperte del letto. Che non è proprio la vera magia del grande schermo ma ha un suo perché, credetemi.

mettere in bolla il presente

Standard

Ma quanto è cambiato, se è cambiato, il nostro lavoro da quando abbiamo iniziato? Ne parlo con un amico con cui ho condiviso gli albori per poi intraprendere carriere diverse, e senza considerare la naturale evoluzione del percorso compiuto – ci diciamo – ci sono numerosi segnali da tenere in considerazione. Che poi parlare di naturale evoluzione oggi non ha più senso, non si entra più al piano più basso e si scala la gerarchia fino ai vertici per andare in pensione da manager come si faceva un tempo, questo perché non ci sono piani bassi, spesso non c’è gerarchia e nella maggior parte dei casi non ci sono nemmeno più le aziende, che nel frattempo cambiano nome e ragione sociale fino a farsi acquisire o controllare e poi chissà. Sempre che non vengano smantellate prima. Ma se ti va di culo e sei in una realtà più o meno resistente non c’è più quella tendenza per cui cresci e sgomiti per raggiungere il top. Continua a leggere