delle due, l’una

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Nelle città in cui si è in vacanza si passeggia e poi ci si siede per bere una birra stanchi per aver camminato tutta la mattina, ma stanchi in quel modo soddisfatto di quando ci si muove un un Paese affranto da un dolore straniero, un Paese che da te non si aspetta nulla se non i tuoi soldi in cambio del privilegio di passeggiare e bere birra ed essere esentato temporaneamente dalla responsabilità della sofferenza particolarmente antica di questa città. Se non che tu sei parte della sofferenza, tu sei stato il problema o almeno una sua versione, ma ormai si tratta di un legame di cui non ne rimane più traccia se non in qualche monumento, nella coscienza di una società, almeno si spera, e nel linguaggio che se chiudi gli occhi è lo stesso che ha tormentato una buona parte del mondo intero, a un certo punto della storia universale. Poi lo sdegno ha raso al suolo una identità che però è resuscitata più forte, ma questa volta è una forza positiva, sempre intransigente ma moderna, anzi la più moderna di tutte le altre. Tanto che tu sei diventato una macchia su un libro di storia e un punto sul libro di geografia e ora anche un punto interrogativo sui quotidiani economici, se mi permettete. Ma in genere l’ordine dei problemi ha schiacciato il fatto che siamo gli unici a urlare, gli unici a usare telefoni cellulari in modo così compulsivo, gli unici a trattare i nostri figli come se fossero i padroni della nostra vita agli ultimi posti delle priorità, una classifica che ai primi posti vede svettare cose tipo tutte le culture del pianeta che convergono qui e la propulsione della storia, la più recente, che ha fatto di Berlino un’enclave di tutto quello che sarà e che non riusciremo mai a diventare, retrocessi nel nostro ecosistema autoreferenziale sul quale viviamo di rendita almeno da un paio di migliaia di anni. Ma basta guardarsi in giro, non è così, proprio per niente.

tutto questo rivedersi

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Allora te lo rammento io se non lo ricordi più. Era quella volta in cui te lo sei trovato seduto nello stesso posto in cui l’avevi incontrato la sera prima e ti è esploso tutto dentro perché hai capito che lo aveva fatto di proposito, era tornato lì per vedere se saresti passata e visto che sei passata lui non ha avuto nemmeno il bisogno di farti capire che non era una coincidenza. Perché in quel momento tu hai capito che lui ti aveva messo il suo cuore in mano e tu fermandoti lì con lui lo hai scambiato con il tuo.

Succede così, è la logistica che fa nascere le storie d’amore, lui come un cecchino ti ha fatto un appostamento e tu ti sei lasciata colpire in pieno. Avevi un bersaglio colorato troppo evidente disegnato sul petto. Poi raccontandovi reciprocamente a porzioni equivalenti la storia della vostra vita avete trascorso un’intera serata senza nemmeno sfiorarvi ma a stento si riusciva a trattenere la bocca divaricata pronta a esplodere in un sorriso senza interruzione, Perché c’era anche l’estate di mezzo e c’erano pure gli anni che erano pochi, nemmeno venti forse ed è per questo che non ricordi come sia stato possibile, perché nemmeno venti anni di vita a meno di venti anni di vita li si riassumono in massimo un’ora.

Così sai cosa è successo dopo? Io lo so. Ti ha accompagnata a casa a piedi e siete passati sul ponte e avete incontrato l’innamorato che ogni giorno aspetta la sua bella, ma la storia è tragica perché lui ha quasi ottant’anni e la sua bella non c’è più da molto tempo e lui l’aspetta lo stesso, con il vestito della festa su quel ponte dove si sedeva per vederla uscire di casa. Così ti sei chiesta se anche voi due sarete così perché tutto è nato da un posto che prima era un posto qualsiasi, poi vi siete visti e allora è diventato un posto speciale e forse se domani sarà ancora così, e poi dopodomani e il giorno dopo ancora e poi chissà per quanti mesi, quel posto sarà una passaggio segreto per il futuro, una scorciatoia da attraversare per vedere come sarete, e quando lo sarete per rivedervi come eravate la sera che ha fatto cominciare questa storia, tu che passi di lì e ti ricordi ciò che è successo la sera prima e proprio in quel momento lo rivedì seduto nello stesso punto, e speri che sia così tutte le sere fino a quando però non lo si può dire.

soltanto questo muro non ha freddo qui

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E niente, da domani sarò in vacanza a Berlino, sapete uno di quei viaggi in cui non ci si riposa per nulla perché c’è tantissimo da vedere e non ti fermi un attimo. Spero di non rimanere deluso risolvendo finalmente il dubbio che mi perseguita dal 1981, e cioè che domani a Berlino quando arriverò sarà giovedì 5 aprile esattamente come qui. Chissà Garbo poi che cosa ci voleva dire.

scritto in calce

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Quella calotta di gomma che ricopre la punta di un noto modello di scarpa di tela che va di moda a fasi alterne – era in auge negli anni 50, poi quando avevo vent’anni io e da un paio di stagioni ha di nuovo sbaragliato la concorrenza – sembra fatta apposta per scriverci sopra una parola di poche lettere che seguono l’arco in altezza rimanendo allineate alla base. Tu hai utilizzato quello spazio sulla scarpa destra per scrivere “scusa”, e mi chiedo se hai imbrattato una cosa che è costata più di 50 euro a mamma e papà per ricordarti ad ogni passo che compi, mentre cammini a occhi bassi, che chiedere scusa non è semplice e bisogna fare uno sforzo, a volte, mettere l’orgoglio sotto i piedi anche se fiaccati da calzature tutt’altro che traspiranti. Oppure te lo ha scritto qualcuno come prova d’amore, ti ha scritto scusa in modo che ogni volta che guardi giù ti ricordi che devi saper perdonare, altra cosa difficile tenendo conto che ora dovrai anche perdonarlo per aver rovinato le All Star lilla alte perché la biro calcata così non va più via nemmeno in lavatrice. Ma anche la punta sinistra ha uno scarabocchio, c’è scritto ancora a penna “aspettiamo”, che letto su un piede fa uno strano effetto, no? Se aspetti e non c’è un semaforo rosso che te lo impone non riesci più a tenere il passo, rimani indietro, e poi devi chiedere scusa se sono gli altri a dover dire aspettiamo. E se gli altri non avranno pazienza o non vorranno perdere tempo e ti lasceranno lì e ti offenderai, potrai indicargli il tuo piede destro come spunto, se non sapranno da dove iniziare. Altrimenti puoi guardarti il piede sinistro e dar loro tutto il tempo di cui hanno bisogno, e non è detto che sia roba da poco.

non lavorare stanca di più

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Lei che è una grafica fa anche la fotografa ma in questo momento in cui non trova un impiego né come grafica tantomeno come fotografa monta dei filmati animando delle slide di Powerpoint per un’azienda in cui lavora una sua amica, una società a cui occorrono presentazioni un po’ più accattivanti di una normale sequenza di immagini, grafici e keyword alternate dalle transizioni standard che l’applicativo di Office consente. Lara nelle ultime due settimane ne ha già preparati due, una buona media che se viene confermata per il resto del mese le consente di tirare su quasi uno stipendio. Fino a poco tempo fa aveva un impiego part time a progetto in un’agenzia come esecutivista e impaginatrice e per tutto il periodo in cui ha lavorato lì, nove mesi, ha fatto la pendolare ogni giorno dalla casa di Bologna all’ufficio di Milano, sfruttando ogni tanto l’ospitalità di amici a metà settimana per spezzare il ritmo.

Poi Lara e Paola, la sua compagna, hanno deciso di trasferirsi in pianta stabile a Milano perché c’è più lavoro. Ma poco prima di lasciare la città in cui hanno vissuto per anni per andare a vivere in un bilocale in affitto all’Isola e per il quale avevano firmato un contratto e versato una caparra, a Lara è stato comunicato che il suo posto di grafica non c’era più, l’agenzia va male e deve tagliare i costi a partire dal personale. Lara e Paola hanno deciso comunque di andare a fondo e sono venute lo stesso qui, aiutate dal padre di Lara che ha noleggiato un furgone e le ha dato una mano nel trasloco. Il padre di Lara è partito da Napoli – entrambe sono nate e cresciute lì dove vivono ancora le loro famiglie di origine – ha fatto tappa a Bologna, dove hanno caricato i mobili, e hanno trasportato il tutto qui nel nuovo appartamento avvalendosi anche dell’ausilio di qualche amico. Sono riuscite ad avere un po’ di sconto sulla tariffa mensile dell’affitto portando le loro cose ed evitando alla padrona di casa la spesa di un arredo completo.

Paola invece ha studiato per diventare restauratrice ma vista la penuria di opportunità si è iscritta a un corso di make up artist perché c’è più richiesta, nel frattempo non trovando un’occupazione fissa ha messo su un blog dedicato al cibo in cui pubblica ricette illustrate, nel senso che essendo molto brava a disegnare e anche a preparare cibi scrive le ricette e correda il tutto illustrando i passaggi dell’allestimento dei piatti. Paola ogni tanto fa l’hostess alle fiere e viene contattata per occuparsi di promozioni commerciali. Il corso di trucco naturalmente lo frequenta a Bologna, così una volta a settimana Paola da MIlano ritorna giù per non perdere l’anno e conseguire la qualifica. Proprio oggi però, grazie alla sua passione per la gastronomia, è stata chiamata per un colloquio in una web tv che produce programmi di ricette, la posizione è di aiuto cuoco per lo chef che conduce la trasmissioni. E mentre la sua compagna è in auto con un ex collega e si sta recando a Modena a fare un servizio fotografico in una fabbrica di ceramiche del noto distretto locale, Paola le telefona per chiederle di controllare sul suo smartphone perché teme di aver preso la circolare nella direzione sbagliata, non è sicura perché non è ancora pratica della nuova città e orientarsi non è facilissimo. Ma dopo un veloce check, confrontando i punti di riferimento con Googlemaps, Lara le dà la conferma e Paola tira un sospiro di sollievo, l’autobus su cui si trova è quello giusto e potrà arrivare al colloquio in orario.

Al termine del servizio fotografico, poco prima di pranzo, l’ex collega accompagna Lara alla stazione ferroviaria più vicina perché deve tornare a Bologna a recuparare lo scooter che non ha ancora portato con sé. Rientrerà quindi a casa in moto. Le due ragazze hanno deciso di prendere la residenza, avendo anche l’automobile è l’unico modo per riuscire a parcheggiare in area ztl, e comunque a Milano disporre di due ruote è più comodo che averne quattro. Nel frattempo Paola non ha ancora terminato la prova pratica dietro ai fornelli prevista dal colloquio, così Lara, in attesa del treno per Bologna, deve aspettare ancora un po’ prima di chiamarla e chiederle come è andata.

umorismo sottile

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Quella pressa, quella che il dirigente dell’industria che sto intervistando mi indica con il dito, esercita una forza di 4.800 tonnellate e per farmi capire di che ordine di grandezza stiamo parlando, come se ce ne fosse bisogno, utilizza come termine di paragone le 40 tonnellate di un tir. Ed è lì che mi sento male, perché la prima cosa che mi viene in mente non è Tempi Moderni, la scena in cui Charlot distratto appoggia la schiscetta del collega sul piano della pressa e la riprende ultra-sottile. A quella ci penso dopo il ricordo di una gag di un vecchio programma del sabato sera con Raimondo Vianello che si sdraia addirittura là sotto per una pennichella e ne esce come un cartonato a figura intera, come quello di Alessia Marcuzzi che un mio amico aveva sottratto di notte all’edicola davanti alla quale era stato posto per pubblicizzare una nota rivista maschile, su cui era stato pubblicato un servizio su di lei poco vestita. E c’era un’altra scenetta in cui qualcuno veniva inavvertitamente ridotto a una sola dimensione da uno di quei macchinari che servono per compattare l’asfalto sulle strade, come nei cartoni animati della Warner Bros. Comunque si tratta di uno degli input peggiori che la mia fantasia abbia immagazzinato e che mi mette più a disagio di qualunque altra cosa, una sorta di tabù che mi manda in tilt, così sono rimasto qualche secondo imbambolato di fronte a uno schiacciatutto gigantesco che faceva bella mostra del dato che il dirigente mi ha sottolineato, quelle 4.800 tonnellate che ridurrebbero a carta velina qualunque cosa e che era stampato a grandi lettere proprio sopra l’imboccatura. Venga che le mostro il resto, mi ha detto, tutto bene? C’è qualcosa che non va?

faccio cosa

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Per chi come me vende fumo, non nel senso del fumo quello buono ma nel senso di lavorare nel marketing e nella comunicazione, imbattersi in gente che lavora per davvero genera sempre una grande meraviglia, fa crescere la fiducia verso il prossimo e permette di aumentare la consapevolezza che qualche speranza di salvarsi il mondo in cui viviamo ce l’ha. La mia reazione di fronte alla molteplicità delle professioni esistenti al mondo che non hanno a che fare con quello di cui mi occupo io è poi come quella di un bambino che vede l’oceano per la prima volta, l’infinito imperscrutabile dell’operosità concreta dell’uomo che la dimensione on line spesso ti fa perdere di vista. Abbiamo più volte appurato che a partire dalla presa di rete in poi ci sono ben più di tutti gli universi che ci sforziamo di immaginare, il problema è che a volte sembra che siamo tutti noi che in Internet ci lavoriamo a cantarcela e a suonarcela, a dirci vicendevolmente che è un territorio profittevole solo per convincere chi non si fida ancora del tutto. O forse solo per rassicurarci sul fatto che stiamo lavorando per davvero. Se mettete in fila tutti i job title di una agenzia digitale qualunque trovate di quelle cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Ma nel mondo al di qua della presa di rete, a scorrere le voci di cui si compone un qualunque elenco di settori professionali ci si perde più che nello spazio incommensurabile di cui sopra, per questo può esser utile fermarsi punto per punto e vedere quali sono i prodotti di ognuna di quelle attività.

Scopro così l’ingegnere biomedico che progetta supporti ortopedici e opera nella ricerca e sviluppo di prodotti sempre più avanzati. Un lavoro così direttamente legato al benessere del genere umano, alla sua evoluzione e al miglioramento della qualità della vita suscita in me grande ammirazione. Oppure progettisti di interni specializzati negli arredi delle biblioteche, un business così verticale che faccio fatica a capire come si possa tirare avanti, voglio dire non è che ogni mese c’è una biblioteca da costruire o da rinnovare, no? Così quando cammino tra le centinaia di persone che ogni giorno i mezzi pubblici riversano nel centro di MIlano provo a pensare a tutte le storie interessanti di cui sono protagoniste, magari lavori veri, quelli che consistono nella costruzione fisica di cose e oggetti, chissà, e mi verrebbe voglia di chiedere a tutti ma voi che lavoro fate, e se è come penso continuate a farlo, perché se tutti stanno seduti come me a raccontare il lavoro degli altri ottimizzato per il web nessuno fa più nulla e così non c’è più nulla da dire, se non parlare in rete della rete in un ripetersi infinito di poco più di niente.

mentre pensavo al sogno che avevi fatto

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La preoccupava il pensiero della vulnerabilità dei soggetti che stava contemplando, la serie di impiegate in fila sulla scala mobile prima e dopo di lei e il loro procedere omogeneo ed equidistante lungo lo spazio, come valigie fresche di approdo su un nastro trasportatore al ritiro bagagli di un aeroporto. Ma quando giungevano in vetta, il gradino che le aveva sorrette si appiattiva al livello del piano e veniva inghiottito nella parte invisibile al loop, le impiegate scattavano pronte lungo direttrici differenti come respinte da una forza contraria. Lei era l’intrusa ed era facile da riconoscere perché era molto più giovane delle compagne di salita e reggeva una borsa di tela con l’illustrazione di un teschio colorato a stelle e strisce, proprio come la bandiera americana. Da dietro un tecnico addetto alla riparazione dei display accompagnò il suo passaggio con un plateale gesto scaramantico interrotto dal disturbo del segnale video che riportò la sua attenzione all’intervento che stava cercando di portare a termine. Fuori c’era troppo sole, la ragazza dovette fare schermo con la mano libera dalla borsa macabra per proteggere gli occhi chiari affetti da fotosensibilità, e appena li rimise a fuoco notò il gruppo delle impiegate che si era ricomposto intorno a un tavolino all’aperto del bar tabacchi di fronte, ma forse non erano le stesse di prima.

il book

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La colpa è mia perché non sapevo che Naomi Campbell fosse anche una scrittrice e tra me pensavo che si trattasse di un caso di omonimia, chissà come è chiamarsi con il nome e il cognome di una top model. E vi assicuro che non ne faccio una questione di luoghi comuni, quelli secondo cui una donna avvenente non possa essere anche autrice di narrativa, le pupe svampite e poco inclini alla cultura contro le secchione cesse e costrette a sfogare nello studio la loro impopolarità. E a dir la verità la tizia che ho notato leggerne un’opera a me sconosciuta in inglese con l’obiettivo di improve her english non era proprio niente male. Leggeva però a un ritmo di una lentezza esasperante riempiendo i margini con chiose a matita, questo mi ha spinto a dedurre che stava esercitando la sua conoscenza linguistica. Ma quello che ha attirato la mia attenzione in realtà, anche se capisco che viste le premesse fatte sono poco attendibile, è quale tipo di improvement si possa ottenere da una lettura di un libro così, ciò che in prima istanza ho creduto si trattasse di un manuale per aspiranti modelle o al massimo una biografia per operatori del settore. Poi in rete invece ho trovato che si tratta di un romanzo a tutti gli effetti, e da alcune recensioni sembra pure avere una sua dignità. La morale della storia è che anche con Naomi Campbell si possono trascorrere ore piacevoli e imparare cose nuove. Non necessariamente di persona, ecco.

come in una canzone di albano e romina

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Avevo un sentimento proprio qui sulla punta della lingua e forse nella mia testa avevo anche le parole giuste per esploderlo e far sì che si riuscisse a comprendere meglio rispetto a una sensazione di quelle che si condensano in un solo termine e che poi nessuno le capisce, nessuno sa di cosa si tratta.

Avevo uno stato d’animo pronto da condividere che è cominciato qualche ora fa, suscitato dall’ennesimo repentino succedersi di condizioni meteorologiche e dal vento che quando c’è a Milano tutti i milanesi hanno mal d’orecchie e mal di testa perché a Milano sembra che il vento non ci sia mai stato. E il panorama ovunque con il vento non ci azzecca proprio, al massimo vedi alberi increduli contorcersi sotto folate sopravvissute a superfici anomale e antropizzate in atto di sfogo, che al massimo sballottavano semafori pensili agli incroci dei viali.

Ed era un sentire qualcosa di molto forte e incredibilmente vicino, e lo intitolerei così se non ce ne fosse già uno, di titolo così. Non resta che andare per esclusione perché non è stare bene perché bene mai si sta, questo ce lo hanno insegnato fin dai primi schiaffoni per farci inspirare a pieni polmoni l’aria dopo il parto. Non è la certezza di ripartire come sempre dallo stesso punto l’indomani e il giorno dopo ancora perché capita poi di rimettere in discussione ogni piano in ogni singolo dettaglio, persino nel numero di zollette di zucchero nel caffé latte. Non è nemmeno un bilancio in attivo della giornata perché nel comunicato stampa si esagera sempre per eccitare gli stakeholder e alla fine tutti sono in crescita e poi quando non ci sarà più spazio per nessuno ci toccherà chiedere asilo da qualche altra parte, ma sfido posti come la Svizzera o la Francia a prenderci sul serio solo perché ce la sappiamo cavare grazie al modo con cui sappiamo arrangiarci. Questo passaggio era tutto metaforico, eh.

Quindi alla fine resta quella cosa di riserva che metti sempre in una bustina di plastica in borsa che non si sa mai, ma poi non la tiri mai fuori perchè un po’ te ne vergogni, un po’ forse ti fa sembrare poco sensibile perché la situazione là fuori non è il massimo. Così poi un giorno pensi che sì, è proprio quella cosa lì di scorta che ti serve e apri la zip della bustina di plastica e la trovi magari un po’ malconcia, come un set da viaggio da igiene orale per chi di viaggi ne fa pochi. La tiri fuori e la spiumacci un po’ per dargli vigore e poi ci appoggi sopra la nuca e in quel momento ecco che ti riemerge tutto quello che avevi provato tempo prima e che avevi messo in stand by perché fa un po’ zotico e fuori moda alla fine dichiararsi così, felice per quello che si ha, anche se poco.